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Cina, proteste degli autotrasportatori bloccano le rotte logistiche del paese

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Nomi come Alibaba immediatamente fanno pensare all’importanza del settore dell’ecommerce e della logistica in relazione alla Repubblica Popolare Cinese. Molto meno usuale è associare queste aziende in enorme sviluppo al fatto che anche in Cina si diano proteste contro le conseguenze del loro modello di crescita, che implica un giro di affari di 24mila miliardi di yuan all’anno, ovvero circa 3mila miliardi di euro.

 

In un paese che molto spesso viene descritto come quasi impermeabile ai conflitti sociali in virtù del pugno duro della sua leadership politica, quello che sta avvenendo nelle ultime settimane è molto rilevante. Stiamo parlando dell’ondata di scioperi dei camionisti in almeno dodici tra municipalità e province del paese. Si parla all’incirca di trenta milioni di persone interessate, un numero davvero rilevante anche nell’iperpopolato paese asiatico.

Le motivazioni sono in primis le condizioni sempre meno accettabili del lavoro per via di costi crescenti dei pedaggi autostradali e del carburante, ma anche a causa della sempre maggiore difficoltà di conciliare lavoro e vita privata in una Cina che cresce ma in cui la distribuzione della ricchezza è sempre più diseguale.

China Files riporta, insieme ad altri dati e considerazioni molto interessanti, che stando a un recente studio della Social Academic Press, la maggior parte dei camionisti cinesi lavora fino a 12 ore al giorno e oltre il 70% non è in grado di assumere un autista di sostegno. La paura dei lavoratori è quella di un aumento enorme del carico di lavoro per poter resistere ad una concorrenza sempre più grande e che comporta difficoltà a sbarcare il lunario.

Infatti tra le motivazioni alla base della protesta c’è il lancio da parte della compagnia logistica Manbang Group di una app simile a Uber, la quale mette però in collegamento aziende e trasportatori. Questa app ha portato ad un abbassamento dei compensi medi, che ha aggravato una situazione già complicata per gli autisti. Va aggiunto che l’innovazione tecnologica nel settore inizia a interrogarsi in maniera costante sulla possibilità di produrre veicoli automatizzati senza bisogno di autista umano, in uno sforzo di innovazione che sul lungo periodo metterebbe a serio rischio sia i posti di lavoro sia le condizioni dello stesso.

La novità interessante sta nel fatto che la protesta ha utilizzato metodi nuovi, come ad esempio l’assunzione su larga scala della pratica del blocco come arma per imporre il riconoscimento della mobilitazione da parte delle autorità (sul modello già visto ad esempio in Brasile contro le riforme di Temer, anche esse iniziate con proteste contro i rincari dei carburanti). Rallentamenti, code create intenzionalmente, proteste spontanee agli svincoli autostradali: di tutto questo si sta nutrendo la protesta, capace di diffondersi anche grazie alla natura altamente mobile del lavoro in questione e delle connessioni che si sono create nel tempo tra autisti di tutto il paese.

Si sono date infatti modalità di connessione a livello interprovinciale delle mobilitazioni, una delle cose più temute dal governo dato che da sempre la strategia politica è stata quella di cercare di isolare e risolvere singolarmente le proteste (con le buone o con le cattive) per evitare che dal terreno economico potessero espandersi sul terreno politico.

In particolare sono state le province dello Shandong e dello Shaanxi, due di quelle facenti parte della Rust Belt manifatturiera cinese in via di smantellamento per cause ambientali e della transizione cinese rispetto alle catene del valore globali, ad avere un ruolo fondamentale, riflettendo la tensione sociale nell’area. Ma anche metropoli come Shanghai e Chongqing sono state interessate dalle code sui tratti autostradali che conducono alle città.

Inoltre, in questo ambito il tentativo di “cattura” del governo sul lavoro, effettuato tramite l’adesione ai contratti nazionali, non riesce ad affrontare la sfida portata dai camionisti, che sono lavoratori autonomi a tutti gli effetti. Più vicini quindi al settore dei servizi che a quello del manifatturiero, su cui si basa in larga parte la disciplina del lavoro in Cina.

Negli ultimi anni la sharing economy, che non è come si vede patrimonio solo occidentale, si è diffusa enormemente in Cina, creando anche nel vecchio Regno di Mezzo una molteplicità di lavoratori atipici e spesso supersfruttati o working poor che sfugge dalle maglie della regolazione sociale. Questa diffusione si è legata anche ad una pratica sempre più “nazionalista” del governo che spesso chiude i varchi ad aziende occidentali permettendo a quelle locali di accaparrarsi le quote di mercato (Didi Chuxing e non Uber, WeChat e non Facebook..).

Ad ogni modo, questa contraddizione molto forte tra vecchie e nuove forme del lavoro e della loro regolazione mette in difficoltà l’imperativo della stabilità sociale da sempre primo obiettivo politico del PCC. Che vede inoltre nella stabilità della logistica interna una delle vie principali per continuare nel suo progetto di trasformazione dell’economia del paese nella direzione del traino dei consumi interni piuttosto che dell’export.

Le conseguenze sono rilevanti soprattutto per le aziende dell’ecommerce che una certa velocità e affidabilità delle consegne puntano tutta la loro credibilità: i camionisti sembrano insomma aver colpito un nervo scoperto, posizionandosi nel punto giusto di attacco, mettendo in grossa difficoltà il governo che al momento ha reagito più con il bastone (alcuni fermi, censura in Rete) che con la carota (nuovi tentativi di regolazione del settore). Nelle prossime settimane continueremo a seguire e ad aggiornare su una protesta che sembra mettere in discussione uno dei principali nodi dell’economia globale.

 

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