Come resistere al golpe
Come resistere al golpe, Carlo Formenti
Nessuna regola costituzionale può impedire che una democrazia si converta in regime autoritario. Nessun soggetto istituzionale super partes (Corti costituzionali, Presidenti, sovrani) ha mai impedito l’ascesa del duce di turno: non ne furono capaci né lo vollero – fra gli altri – Vittorio Emanuele III e Hinderburg. Ecco perché ritengo impraticabile la soluzione ventilata da Asor Rosa, il quale, su un numero del «manifesto» di qualche settimana fa, ha auspicato la possibilità di porre fine al regime berlusconiano attraverso un imprecisato intervento dall’alto, cui spetterebbe il compito di proclamare una sorta di schmittiano «Stato di eccezione». Impraticabile ma non, come si è sproloquiato da destra e da sinistra, «sovversiva»: in primo luogo perché un processo sovversivo è già in atto da tempo, poi perché il discorso di Asor Rosa pecca, semmai, di moderazione.
Premetto che, a mio parere, la democrazia – non solo in Italia – è finita da un pezzo, ma non credo che ciò significhi che assisteremo di nuovo ad arresti di massa, campi di concentramento e altri orrori di novecentesca memoria. È vero che la logica del regime richiede da un lato l’emarginazione di giornalisti, giudici e professori «comunisti» (qualifica attribuita a chiunque manifesti il proprio dissenso), dall’altro lato la manipolazione delle regole del gioco e la corruzione sistematica per rendere impossibile ogni forma di alternanza; tuttavia, in un’era caratterizzata dalla governance e dal soft power, è improbabile che si arrivi all’eliminazione fisica dei nemici: basta neutralizzarli. Gli unici a vedersi negare anche i più elementari diritti civili saranno – già sono – i migranti, eletti a capro espiatorio della frustrazione e della rabbia delle popolazioni autoctone immiserite dalla crisi.
Ho appena affermato che la sovversione è in atto da tempo, quindi mi tocca precisare da quando. Il suo inizio coincide con quella che chiamano «rivoluzione liberale», ma che andrebbe piuttosto definita controrivoluzione liberista. Parliamo cioè, degli anni Ottanta del secolo scorso, allorché i governi Tatcher e Reagan avviarono la campagna di annientamento del potere contrattuale dei lavoratori inglesi e americani – campagna poi estesa al resto del mondo occidentale ed esportata – dopo il crollo del Muro di Berlino – nei paesi dell’Europa orientale. Deregulation dei mercati finanziari, smantellamento del welfare attraverso tagli alla spesa pubblica e privatizzazione dei servizi, attacco frontale ai sindacati e alle altre istituzioni politiche delle classi subalterne hanno provocato gli effetti che sono sotto gli occhi di tutti: drammatica crescita delle differenze di reddito fra ricchi e poveri, accelerazione del ciclo economico con rapido alternarsi di boom e crisi, concentrazioni monopolistiche, crescita dei profitti e crollo dei salari e dei livelli occupazionali. Il tutto con la piena collaborazione delle sinistre: vedi le politiche fiscali delle amministrazioni democratiche negli Stati Uniti (ancora più solerti di quelle repubblicane nel tagliare le tasse ai ricchi e nel venire in soccorso del capitale finanziario nei momenti di crisi) o le privatizzazioni promosse dal New Labour di Tony Blair in Inghilterra.
Liquidato il compromesso fra capitale e lavoro, fondato sulle politiche keynesiane di ridistribuzione della ricchezza a opera dello Stato nazione, la controrivoluzione è entrata nella seconda fase, che mira a «riformare» la politica per renderla funzionale agli interessi di un mercato globale unificato, dominato da imprese e agenzie economiche transnazionali. La riforma consiste nell’instaurazione di regimi locali postdemocratici, in cui la «democrazia» si riduce a variante postmoderna di quella ottocentesca democrazia liberale che prevedeva il diritto (limitato) di voto quale unica forma di partecipazione politica delle masse popolari. Un diritto svuotato di senso a mano a mano che i processi di mediatizzazione, spettacolarizzazione e personalizzazione della politica, il potere soverchiante delle lobby e l’integrazione fra élite politiche ed economiche (ben incarnata dal caso Berlusconi) privatizzano la sfera pubblica e riducono il cittadino a consumatore/spettatore.
Ecco perché è sbagliato analizzare il regime berlusconiano in base alle sue presunte «anomalie», concentrando l’attenzione sul carattere grottesco del personaggio e del suo variopinto seguito. Berlusconi è una variante locale di una strategia globale: il suo attacco a Scuola e Università pubbliche fa il paio con quello del governo conservatore in Inghilterra, e le motivazioni ideologiche contano meno di quelle economiche: l’epoca della scolarizzazione di massa volge al termine perché oggi le multinazionali possono soddisfare le proprie esigenze di arruolamento di knowledge workers a basso costo nei paesi in via di sviluppo. La sua indulgenza nei confronti del localismo xenofobo e razzista della Lega è condivisa da altri governi europei di destra, a partire da quelli di alcune civilissime svizzere nordiche. Infine la sua insofferenza nei confronti degli organi di garanzia e del principio di separazione fra i poteri trova riscontro in altri paesi occidentali, preda di analoghe derive populiste e plebiscitarie. Questo rende meno grave il pericolo denunciato da Asor Rosa? Ovviamente no. È indubbio che la situazione italiana è particolarmente seria e che la postdemocrazia italiana si avvia a somigliare alle pseudodemocrazie postsovietiche: dalla Russia di Putin, alla Polonia dei gemelli Kaczynski, all’Ungheria dell’ultraconservatore Orban. Ma proprio per questo occorre immaginare forme di resistenza più efficaci dell’appello a un improbabile deus ex machina istituzionale, anche se Asor Rosa sostiene che la sua uscita disperata è motivata, da un lato, dalla debolezza dell’opposizione di sinistra, dall’altro, dal rischio che eventuali appelli alla mobilitazione di massa suscitino velleità avventuriste.
Definire debole l’opposizione di sinistra è eufemistico. Oggi, in Italia, esiste forse ancora un’opposizione, ma non è di sinistra. Per rendersene conto, basta leggere la stampa radicale angloamericana (penso al «Guardian» o allo «Huffington Post»), la quale, benché scevra da influenze marxiste, analizza senza peli sulla lingua il conflitto sociale in quanto lotta di classe: repubblicani e conservatori vengono descritti come comitati d’affari del capitale finanziario, espressioni dirette delle lobby che ne ispirano le politiche; Obama viene ferocemente criticato per i suoi compromessi in materia di politica fiscale e tagli al welfare e incalzato perché mantenga le promesse elettorali; si calcola quante persone moriranno a causa dei tagli del governo Cameron alla sanità pubblica; si invoca il ritorno di politiche keynesiane per tutelare gli interessi di una middle class in via di estinzione, denunciando il folle tentativo di fronteggiare una crisi provocata dal fallimento del mercato somministrando al malato massicce dosi del farmaco che ne ha provocato la malattia. In Italia l’opposizione di centro – l’unica che conti – spalleggiata da una Confindustria che comincia a pentirsi dell’appoggio offerto a Berlusconi, accusa il governo di non percorrere coerentemente la strada della «rivoluzione liberale» (c’è addirittura chi arriva ad accusare il ministro Tremonti di «socialismo») mentre l’opposizione «di sinistra», terrorizzata dalla possibilità di essere accusata di nostalgie veteromarxiste, si muove a rimorchio, offrendo alleanza alle forze che esaltano Marchionne, il manager che ha importato in Italia le strategie antisindacali made in Usa. Quanto ai resti della sinistra radicale, che pure hanno il merito di tenere in piedi un minimo di attenzione nei confronti delle classi subordinate, sembrano incapaci di immaginare progetti che vadano al di là della costruzione di alleanze elettorali «alternative». Per farla breve, e per utilizzare la formula coniata qualche anno fa da Marco Revelli, nel nostro paese la competizione politica non si svolge fra una destra e una sinistra, bensì fra due destre.
Nessuna speranza? No, se guardiamo solo al quadro istituzionale; sì se spostiamo l’attenzione sulla società civile. La resistenza alla controrivoluzione liberista sta crescendo in tutto il mondo: dalle lotte degli operai cinesi della Toyota e della Foxconn, alla mobilitazione del popolo francese contro la riforma delle pensioni del governo Sarkozy, alla rivolta degli studenti inglesi contro l’aumento delle tasse universitarie decretato dal governo Cameron, alle insurrezioni che stanno cambiando la geografia politica dell’Africa del Nord e del Medio Oriente, alla ripresa della lotta globale contro il nucleare dopo la catastrofe delle centrali giapponesi. E in Italia? Anche da noi non mancano i segnali di risveglio. Conclusa la stagione no global – con la selvaggia repressione di Genova 2001– e dopo una lunga fase di stasi, abbiamo assistito alle lotte di studenti e precari contro la riforma Gelmini, al rifiuto Fiom di siglare la pace sociale imposta dagli accordi fra padroni e sindacati corporativi, alle mobilitazioni spontanee del popolo viola e delle donne contro il governo Berlusconi. L’elenco potrebbe proseguire, ma è più importante sottolineare ciò che accomuna, al di là delle differenze, queste esperienze di lotta: si tratta perlopiù di movimenti autoorganizzati che sfruttano la rete come strumento di propaganda e mobilitazione.
Chiarisco due cose: non credo alle «rivoluzioni di twitter», né alla capacità dei movimenti sociali spontanei di innescare cambiamenti strutturali in assenza di leadership politica. La rete non è di per sé rivoluzionaria né democratica: la sua colonizzazione commerciale da parte delle Internet Company e la sua normalizzazione politica da parte dei governi è un fatto compiuto. E la rete non è uno strumento «neutro»: il software è un vettore di egemonia culturale delle classi dominanti non meno efficace dei tradizionali media broadcast. Ciò non impedisce ai movimenti di utilizzare i social media come inedito, potente terreno di crescita e aggregazione. Internet non ha «provocato» gli scioperi in Cina o le rivolte in Nordafrica, ma ha agito da catalizzatore di energie latenti pronte a esplodere, come la rabbia delle masse giovanili scolarizzate ma private dell’opportunità di trovare lavori decenti e di partecipare delle ricchezze accumulate da regimi corrotti e autoritari (per questo le loro esperienze possono fungere da modello agli studenti e ai giovani precari europei, a loro volta vittime del processo di «brasilianizzazione» dell’Occidente descritto da Saskia Sassen). La domanda di democrazia che scaturisce da queste lotte non ha nulla da spartire con la «democrazia» liberale: è richiesta di democrazia diretta, partecipativa e deliberativa, il che rappresenta, paradossalmente, il loro punto di forza e di debolezza al tempo stesso. Forza perché propaga la rivolta con velocità fantastica, debolezza perché non genera continuità organizzativa, tradizione e progetti politici di medio-lungo termine. Ma di fronte alla catastrofe delle sinistre tradizionali, è solo da qui che si può passare per selezionare élite capaci di trasformare in progetto politico lo slogan «Un altro mondo è possibile». E, per tornare a noi, è solo così, e non costruendo alleanze elettorali, che si potrà porre fine al regime berlusconiano.
Infine un appello: facciamola finita con lo spettro degli «anni di piombo», che le due destre evocano ogni volta che si parla di lotta di classe. Anche su questo piano l’insegnamento che arriva dalle rivolte arabe è prezioso: la forma più efficace di resistenza alla controrivoluzione liberista è la disobbedienza civile di massa, non l’insurrezione armata: occupare gli spazi pubblici – piazze, università, luoghi di lavoro – e non mollare fino alla vittoria; oppure fare esodo, non collaborare, sabotare. Per assediare il nemico e indurlo alla capitolazione non è indispensabile vincere le elezioni né dare l’assalto al palazzo.
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