Cosa è andato storto nel capitalismo?
Ruchir Sharma ha pubblicato un libro dal titolo What went wrong with capitalism? [Cosa è andato storto nel capitalismo?]. Ruchir Sharma è un investitore, gestore di fondi, autore ed editorialista del Financial Times. È a capo delle attività internazionali di Rockefeller Capital Management ed è stato investitore nei mercati emergenti presso Morgan Stanley Investment Management.
di Michael Roberts, da Antropocene.org
Con queste credenziali, di essere “organico alla bestia” o addirittura “una delle bestie”, dovrebbe conoscere la risposta alla sua domanda. In una recensione del suo libro sul Financial Times, Sharma delinea la sua argomentazione. In primo luogo, ci dice: «mi preoccupa la posizione degli Stati Uniti alla guida del mondo. La fiducia nel capitalismo americano, costruito su un governo limitato, che lascia spazio alla libertà e all’iniziativa individuale, è crollata». Egli osserva che ora, la maggior parte degli americani non si aspetta di «stare meglio tra cinque anni» – un minimo storico da quando l’Edelman Trust Barometer ha posto questa domanda per la prima volta, più di due decenni fa. Quattro americani su cinque dubitano che la vita per la generazione dei loro figli sarà migliore di quanto lo sia stata per loro. Secondo gli ultimi sondaggi Pew, la fiducia nel capitalismo è diminuita tra tutti gli americani, in particolare tra i democratici e i giovani. Infatti, tra i democratici sotto i trent’anni, il 58% ha ora un’«impressione positiva» del socialismo; solo il 29% dice la stessa cosa del capitalismo.
Questa è una brutta notizia per Sharma, forte sostenitore del capitalismo. Cosa è andato storto? Secondo Sharma, è l’ascesa del big government[1], del potere monopolistico e del denaro facile per salvare le imprese più grandi. Ciò ha portato alla stagnazione, alla bassa crescita della produttività e all’aumento delle disuguaglianze.
Sharma sostiene che la cosiddetta rivoluzione neoliberale degli anni ’80, che avrebbe sostituito l’economia keynesiana, ridotto le dimensioni dello Stato e deregolamentato i mercati, fosse in realtà un mito. Sharma: «L’era dello small government [piccolo governo] non è mai esistita», e sottolinea che negli Stati Uniti la spesa pubblica è aumentata di otto volte dal 1930 ad oggi, passando da meno del 4% al 24% del PIL – e al 36% se si include la spesa statale e locale. Insieme ai tagli alle tasse, i deficit pubblici sono aumentati e il debito pubblico è salito alle stelle.
Per quanto riguarda la deregolamentazione, il risultato, in realtà, è stato quello di «regole più complesse e costose, che solo i ricchi e i potenti erano in grado di affrontare». La norme di regolamentazione sono effettivamente aumentate. Per quanto riguarda il denaro facile, «temendo che l’aumento del debito potesse sfociare in un’altra depressione stile anni ’30, le banche centrali hanno iniziato a lavorare a fianco dei governi per sostenere le grandi aziende, le banche e persino i paesi stranieri, ogni volta che i mercati finanziari vacillavano». Quindi non c’è stata alcuna trasformazione neoliberale che ha liberato il capitalismo per farlo espandere, tutto il contrario.
Ma la storia economica del periodo successivo agli anni Ottanta descritta da Sharma, è davvero corretta? Sharma cerca di dipingere il periodo successivo agli anni Ottanta come un periodo di salvataggi di banche e aziende durante le crisi, in contrasto con gli anni Trenta, quando le banche centrali e i governi “liquidavano” chi si trovava in difficoltà. In realtà, questo non è corretto: il salvataggio del capitale delle imprese e delle banche è stata la forza trainante del New Deal di Roosevelt; la “liquidazione” non è mai stata adottata come politica governativa. Inoltre, gli anni ’80 sono stati per lo più un decennio di alti tassi di interesse e di politica monetaria restrittiva, imposta da banchieri centrali come Volcker, che cercavano di ridurre l’inflazione degli anni ’70. In effetti, Sharma non ha nulla da dire sulla “stagflazione” degli anni ’70 – un decennio, secondo lui, in cui il capitalismo aveva uno small government e una bassa regolamentazione.
Sharma si dilunga molto sull’aumento della spesa pubblica, compresa la «spesa per il welfare», negli ultimi quarant’anni. Ma non ne spiega il motivo. Dopo l’aumento della spesa e del debito durante la guerra, gran parte dell’aumento successivo della spesa è dovuto all’aumento della popolazione, in particolare degli anziani, che ha portato a un aumento della spesa (improduttiva per il capitalismo) per la sicurezza sociale e le pensioni. Ma l’aumento della spesa pubblica è dovuto anche all’indebolimento della crescita economica e degli investimenti in capitale produttivo, a partire dagli anni Settanta. Poiché il PIL è cresciuto più lentamente e la spesa previdenziale è cresciuta più rapidamente, la spesa pubblica, in rapporto al PIL, è aumentata.
Sharma non dice nulla su altri aspetti del periodo neoliberista. La privatizzazione è stata una politica chiave degli anni di Reagan e della Thatcher. I beni pubblici sono stati venduti per aumentare la redditività del settore privato. In questo senso c’è stata una riduzione del “grande Stato”, contrariamente a quanto sostiene Sharma. In effetti, già a partire dalla metà degli anni ’70, il capitale azionario del settore pubblico è stato svenduto. Negli Stati Uniti, la sua quota di PIL è stata dimezzata.
Fonte: Banca dati degli investimenti e dello stock di capitale del FMI, 2021
Allo stesso modo, dopo gli anni ’80, gli investimenti del settore pubblico, in percentuale del PIL, si sono quasi dimezzati, mentre la quota del settore privato è aumentata del 70%.
Non è il “grande Stato” ad avere il controllo delle decisioni sugli investimenti e sulla produzione, ma il settore capitalistico. Ciò suggerisce il perché della riduzione del ruolo del settore pubblico. Il problema del capitalismo alla fine degli anni ’60 e ’70 fu il drastico calo della redditività del capitale nelle principali economie capitalistiche avanzate. Questa caduta doveva essere fermata. Un primo intervento fu la privatizzazione. Un altro fu quello di schiacciare i sindacati attraverso leggi e regolamenti volti a rendere difficile, se non impossibile, la costituzione di sindacati o l’avvio di azioni sindacali. Poi ci fu la delocalizzazione dell’attività produttiva dal “Nord globale” verso le regioni a basso costo di manodopera del Sud globale, la cosiddetta “globalizzazione”. In combinazione con l’indebolimento dei sindacati in patria, il risultato è stato un forte calo della quota di PIL destinata alla manodopera, insieme alla manodopera a basso costo all’estero, e un (modesto) aumento della redditività del capitale.[2]
Sharma confessa che «la globalizzazione ha portato più concorrenza, tenendo sotto controllo l’inflazione dei prezzi al consumo» in opposizione alla sua tesi della stagnazione monopolistica, ma poi sostiene che la globalizzazione e i bassi prezzi dei beni importati «hanno reso solida la convinzione che i deficit e il debito pubblico non contano». Davvero? Dagli anni ’90 in poi, i governi hanno cercato di imporre l’“austerità” in nome del pareggio di bilancio e della riduzione del debito pubblico. Hanno fallito, non perché pensassero che «deficit e debito non contano», ma perché la crescita economica e gli investimenti produttivi sono rallentati. I tagli alla spesa del settore pubblico sono stati significativi, ma il rapporto con il PIL non si è ridotto.
Sharma ritiene che «le recessioni sono state meno numerose e più distanti» nel periodo successivo agli anni Ottanta. Hmm… Tralasciando l’enorme doppio crollo dei primi anni ’80 (un altro fattore determinante nel ridurre la forza-lavoro), ci sono state le recessioni del 1990-91, del 2001 e poi la Grande Recessione del 2008-09, culminata nel crollo pandemico del 2020, il peggior crollo nella storia del capitalismo. Forse meno numerose e più distanti tra loro, ma sempre più dannose.
Sharma nota che dopo ogni crollo dagli anni ’80, l’espansione economica è stata sempre più debole. Questo appare come un mistero per i sostenitori del capitalismo. «Dietro il rallentamento della ripresa c’era il mistero centrale del capitalismo moderno: il crollo del tasso di crescita della produttività, o produzione per lavoratore. All’inizio della pandemia, si era ridotto di oltre la metà rispetto agli anni ’60».
Sharma propone la sua spiegazione: «una crescente quantità di prove indica come causa un ambiente imprenditoriale denso di regolamentazioni governative e di debiti, in cui le mega-aziende prosperano e un numero sempre maggiore di aziende morte sopravvive a ogni crisi». I salvataggi dei grandi monopoli («tre industrie statunitensi su quattro si sono fossilizzate in oligopoli») e il «denaro facile» hanno mantenuto in vita un capitalismo stagnante, generando aziende «zombie» che sopravvivono solo grazie ai prestiti.
Sharma mette il cavallo davanti al carro. La crescita della produttività è rallentata in tutti i settori perché la crescita degli investimenti produttivi è diminuita. E nelle economie capitalistiche, gli investimenti produttivi sono guidati dalla redditività. Il tentativo neoliberista di aumentare la redditività dopo la crisi di redditività degli anni ’70 è riuscito solo in parte e si è concluso con l’inizio del nuovo secolo. La stagnazione e la “lunga depressione” del XXI secolo si manifestano con l’aumento del debito pubblico e privato, poiché i governi e le imprese cercano di superare la stagnazione e la bassa redditività aumentando i prestiti.
Sharma proclama che «l’immobilità sociale sta soffocando il sogno americano», e mentre nel roseo passato del «capitalismo competitivo», grazie al duro lavoro e allo slancio imprenditoriale, si poteva passare dagli stracci alla ricchezza, oggi questo non è più possibile. Ma il “sogno americano” è sempre stato un mito. La maggior parte dei miliardari e dei ricchi, negli Stati Uniti e altrove, hanno ereditato la loro ricchezza e quelli che sono diventati miliardari nel corso della loro vita non lo hanno fatto senza ingenti fondi di avviamento da parte dei genitori, ecc.
E vorrei aggiungere che la tesi di Sharma si basa interamente sulle economie capitalistiche avanzate del Nord globale. Ha poco da dire sul resto del mondo, dove vive la maggior parte delle persone. La mobilità sociale è stata ostacolata o non è mai esistita? In questi paesi c’è un grande Stato che spende massicciamente per il welfare? Le imprese hanno facile accesso a prestiti? Ci sono monopoli nazionali che schiacciano la concorrenza? Ci sono salvataggi a bizzeffe?
Questo ci porta al messaggio principale di Sharma su ciò che non va nel capitalismo. Vedete, per Sharma, il capitalismo, come lui lo concepisce, non esiste più. Al contrario, il capitalismo competitivo si è trasformato in monopoli sostenuti da un grande Stato. «La premessa del capitalismo, secondo cui un governo limitato è una condizione necessaria per la libertà e le opportunità individuali, non è stata messa in pratica per decenni».
Il mito di un capitalismo competitivo secondo Sharma, assomiglia a quello di Grace Blakeley nel suo recente libro, Vulture Capitalism, in cui sostiene che in realtà, il capitalismo non è mai stato un violento scontro tra capitalisti in competizione per una parte dei profitti estratti dal lavoro, ma piuttosto un’economia ben concordata e pianificata controllata da grandi monopoli e sostenuta dallo Stato.
In effetti, sia Sharma che Blakeley concordano sull’ascesa del «capitalismo monopolistico di Stato» (SMC) come causa di ciò che è andato storto nel capitalismo. Naturalmente, differiscono sulla soluzione. Blakeley, essendo un socialista, vuole sostituire il SMC con la pianificazione democratica e le cooperative di lavoratori. Invece Sharma, essendo “una delle bestie”, vuole porre fine ai monopoli, ridurre lo Stato e riportare il «capitalismo competitivo» sul suo «percorso naturale» per fornire prosperità a tutti. Sharma: «Il capitalismo ha bisogno di un campo di gioco in cui i piccoli e i nuovi abbiano la possibilità di sfidare – distruggendole creativamente – le vecchie concentrazioni di ricchezza e potere».
Vedete, i capitalisti, se lasciati liberi di sfruttare la forza lavoro, senza il fardello dei regolamenti e il pagamento del welfare, fioriranno naturalmente. «Le vere scienze spiegano la vita come un ciclo di trasformazione, da cenere a cenere, eppure i leader politici continuano ad ascoltare i consulenti che sostengono di sapere come generare una crescita costante. L’eccessiva fiducia in loro deve essere contenuta prima che faccia altri danni». Quindi, secondo Sharma, il capitalismo tornerà ad andare bene, se lasceremo che i cicli capitalistici di boom e crollo si svolgano naturalmente senza cercare di gestirli.
«Il capitalismo è ancora il miglior auspicio per il progresso umano, ma solo se ha abbastanza spazio per operare». Ebbene, il capitalismo ha avuto abbastanza spazio per operare per oltre duecentocinquant’anni con i suoi boom e i suoi crolli; le sue crescenti disuguaglianze a livello mondiale; e ora con la sua minaccia all’ambiente del pianeta e il crescente rischio di conflitti geopolitici. Non c’è da stupirsi che il 58% dei giovani democratici negli Stati Uniti preferisca il socialismo.
Note
[1] N.d.T. Con la locuzione «Big Government» ci si riferisce «al governo o al settore pubblico considerato eccessivamente grande o coinvolto incostituzionalmente in determinati settori della politica pubblica o del settore privato. Il termine è stato utilizzato anche nel contesto degli Stati Uniti per definire un governo federale dominante che cerca di controllare l’autorità delle istituzioni locali – un esempio è il prevalere dell’autorità statale a favore della legislazione federale». (Wikipedia). Il significato risulta più chiaro nel periodo successivo, dove si introduce anche la locuzione di segno opposto di «small government».
[2] N.d.T. Quest’ultima affermazione non è proprio esatta se si considera come la redditività degli investimenti negli anni ’90, se inferiore al saggio del profitto degli anni ’60 aveva però superato quella degli anni ’70, come l’ultimo grafico di questo articolo mostra chiaramente. A tale riguardo si rimanda agli studi di Paolo Giussani. Uno tra tutti: https://www.sinistrainrete.info/marxismo/1847.html.
Michael Roberts
Traduzione di Alessandro Cocuzza
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