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Dentro le rivolte negli Usa. Intervista a Felice Mometti

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Per provare a tracciare un’analisi di quanto è avvenuto/sta avvenendo negli Usa abbiamo fatto una chiacchierata con Felice Mometti, ricercatore indipendente e attento osservatore delle vicende statunitensi. Abbiamo provato a toccare i temi più pregnanti delle rivolte, dal ruolo della polizia nel difendere il razzismo sistemico all’esplosione del protagonismo femminile nei riots. Buona lettura.

Alla base di questi momenti di rivolta molto duri che ci sono da un mese negli Stati Uniti sicuramente c’è la rabbia per il brutale assassinio di George Floyd, ma l’impressione che si ha dall’esterno è che questa volta sia in qualche modo diverso, molti parlano anche di moti di scontento e di rabbia sociale legati a una crisi economica che si sta riversando soprattutto sulle classi sociali più basse, che sono composte in gran parte da afroamericani e latinoamericani. Cosa c’è davvero nella pancia di queste rivolte?

 

Innanzitutto bisogna dire che il movimento sociale che si è sviluppato negli Stati Uniti, da un mese a questa parte, ha dei tratti diversi rispetto ai movimenti che abbiamo visto ad esempio a Ferguson nel 2014 o a Baltimora nel 2015. Anche in quelle due città i movimenti erano nati sull’onda di una rivolta per degli omicidi di afroamericani commessi da agenti di polizia. In questo caso è un movimento che nasce dopo un paio mesi di parziale lockdown dove la pandemia ha letteralmente falciato la popolazione afroamericana e latina. La diffusione del contagio, i tassi di mortalità in queste comunità sono molto più elevati in confronto alla popolazione bianca. Guardando, ad esempio, la mappa di New York si rimane impressionati da quelle che sono le zone più colpite. Si tratta di quartieri a basso reddito, densamente popolati soprattutto da comunità afroamericane e latine. Al contrario della parte centro-meridionale di Manhattan, che è la zona più ricca e bianca di New York, dove il contagio e il tasso di mortalità sono decisamente inferiori. A questo si aggiunga un sistema sanitario, essenzialmente privato, che discrimina l’accesso al pronto soccorso e le degenze in base al reddito e al tipo di assicurazione sanitaria pagata. A partire dagli ultimi mesi dello scorso anno si potevano già intravedere alcuni segnali di crisi del sistema economico. La pandemia li ha amplificati e accelerati tanto da arrivare a più di 40 milioni di domande per il sussidio di disoccupazione. Tuttavia, presi di per sé, tutti questi fattori non sarebbero stati sufficienti a far esplodere l’insorgenza che stiamo vedendo. Tra l’inizio di marzo e la metà di maggio negli Stati Uniti ci sono stati 220 scioperi a gatto selvaggio – per la sicurezza e migliori condizioni sui posti di lavoro, contro i licenziamenti – organizzati, in gran parte, al di fuori dei sindacati. Scioperi che hanno riguardato settori industriali, agroalimentari, dei servizi e della grande distribuzione, con un picco significativo il Primo maggio. In cui due coalizioni, su base interstatale, di lavoratori autorganizzati hanno promosso e attuato un’astensione dal lavoro di un’ampiezza che non si vedeva dallo sciopero generale proclamato dal movimento Occupy il Primo maggio del 2012. Dalla fine di marzo in poi, in alcune grandi metropoli come New York, Chicago, Los Angeles, sono stati organizzati degli scioperi degli affitti che hanno coinvolto settori non trascurabili di inquilini a basso reddito. Senza dimenticare che le mobilitazioni sono state favorite anche dalle esperienze di mutualismo conflittuale che sono nate e si sono affermate nei primi mesi della pandemia.

Si sta andando oltre a una rabbia per le violenze razziste da parte delle forze dell’ordine? Secondo te ci sarà la capacità di andare ad organizzare poi politicamente questi momenti di rabbia e tensione sociale?

La drammaticità e la brutalità dell’omicidio di George Floyd ha riportato in primo piano il razzismo istituzionale della polizia. Un omicidio che penso si possa dire sia stato l’elemento catalizzatore di tutti i motivi prima detti. Pandemia, crisi, scioperi, razzismo istituzionale, esperienze di mutualismo si sono ricombinati, in modo forse inevitabile ma sicuramente imprevisto, nell’azione collettiva della protesta e del conflitto. Questo ha fatto sì che il movimento diventasse il luogo d’incontro di giovani afroamericani, giovani bianchi, giovani latini con un grande protagonismo delle giovani donne afroamericane. Tutti questi soggetti insieme, con modalità ed espressioni in parte diverse, hanno messo in campo forme di riappropriazione dello spazio urbano, della socialità, delle merci e un’intensità del conflitto che hanno riportato al centro il razzismo istituzionale come elemento costitutivo della società. Un movimento sociale che nel suo dispiegarsi ha anche rallentato le catene globali del valore. In altri termini si è prodotto un grande processo di soggettivazione che si differenzia rispetto ai movimenti e alle rivolte precedenti. Si sono risignificati immaginari e simboli, come quello di Black Lives Matter, andando oltre le forme e i contenuti originari. E’ a questo livello che si pone la questione della durata e dell’organizzazione del movimento.

Tenendo in considerazione che a novembre si ritornerà a votare e che gli effetti del lockdown sull’economia rischiano di assumere contorni catastrofici, la posizione di Donald Trump è già compromessa? Oppure la partita per le presidenziali è ancora del tutto aperta?

Si potrebbe rispondere con una battuta piuttosto diffusa, che però contiene un elemento di verità: Trump non può vincere le prossime elezioni, le possono perdere solo i Democratici. Trump è oggettivamente in difficoltà, probabilmente la maggiore dall’agosto 2017 quando ruppe con il teorico dell’estrema destra Steve Bannon. Trump agisce giorno per giorno per fare in modo che i suoi tweet siano sistematicamente al centro del dibattito mediatico, così da condizionare il discorso pubblico. Tutti sanno che la prossima presidenza degli Stati Uniti, per il tipo di sistema elettorale, si giocherà sul risultato di quattro o cinque stati, quelli che sono definiti “swing state” poiché oscillano tra Repubblicani e Democratici. Trump sta ovviamente cercando di consolidare la propria base elettorale attraverso il continuo sostegno alle forze dell’ordine, la banalizzazione della pandemia e l’accentuazione dei tratti populisti. Un ulteriore elemento di crisi della presidenza Trump riguarda la contrapposizione e i rapporti logorati con settori consistenti degli apparati dello Stato. Un presidente degli Stati Uniti che è in rotta di collisione con l’FBI, una parte della CIA e ultimamente anche con settori importanti del Pentagono non si trova certo in una posizione di vantaggio. Ma d’altro canto a Trump, per avere la possibilità di essere rieletto, non resta che alimentare costantemente la tensione politica e istituzionale. I Democratici, forti dei sondaggi, stanno cercando di recuperare terreno usando anche alcuni settori del movimento legati soprattutto alle Ong. Ma il candidato dei Democratici, Joe Biden, non è particolarmente popolare e nemmeno incisivo. La sua idea si può riassumere in questo modo: Trump è stato una parentesi, bisogna tornare al periodo migliore della presidenza Obama ristabilendo il “corretto” funzionamento delle istituzioni e degli apparati dello Stato. Come si vede non rappresenta una grande alternativa a Trump. La vera forza, se così si può dire, di Biden è l’anti-trumpismo diffuso che ripete come un mantra “chiunque ma non Trump”. Alcune sue dichiarazioni riferite al movimento in atto sono state piuttosto inquietanti. Una su tutte ha fatto infuriare settori del movimento in varie città. A un tweet di Trump che sollecitava la polizia e la Guardia Nazionale a sparare sui manifestanti in quanto terroristi ha risposto con una dichiarazione dicendo: “sparare alla testa proprio no, ma si può sparare alle gambe”. Tutto questo per dire che la palla è in mano ai democratici e come affronteranno il prossimo periodo risulterà decisivo per l’eventuale sconfitta di Trump. Quel che si vede, a 5 mesi dalle elezioni del Presidente, dell’intera Camera dei Rappresentanti e di un terzo del Senato, è un partito Democratico sempre espressione di un establishment che mette insieme figure istituzionali, apparati dello Stato, consigli di amministrazione di grandi multinazionali e società finanziarie, sindacati e grandi Ong.

Hai detto che Trump per cercare di consolidare la sua base elettorale continua a lanciarsi in commenti anche molto estremi, come ad esempio il sostegno incondizionato all’operato delle forze dell’ordine, dal lato dei democratici invece vediamo un tentativo di porsi in opposizione alle violenze poliziesche e farsi punto di riferimento. In un tuo articolo sostieni che, nonostante il Consiglio comunale di Minneapolis sia composto da 12 democratici di cui due transgender afroamericani e un Verde, comunque quell’istituzione non avrebbe avuto intenzione di smantellare le forze di polizia. Abbiamo letto che la città di Minneapolis ha deciso di smantellare i distretti di polizia e che il New York Police Department ha tagliato di sei miliardi i fondi. Cosa si può leggere all’interno di queste decisioni politiche che sono state prese?

Penso che bisogna distinguere gli annunci dalle reali scelte politiche. A un paio di settimane dalle promesse dei sindaci di New York, Los Angeles, Washington di ridurre i finanziamenti ai Dipartimenti di polizia ci sono già i primi distinguo e le prime cautele. La polizia è la “macchina” istituzionale che mette in pratica il “monopolio della violenza legittima” per disciplinare i comportamenti sociali ed esercitare il controllo del territorio. Ridurre drasticamente i finanziamenti o smantellare i Dipartimenti di polizia significa rimettere in discussione l’intero sistema politico, istituzionale e rappresentativo. Se guardiamo allo stesso Consiglio Comunale di Minneapolis vediamo che non ha assunto la decisione di smantellare il locale Dipartimento di polizia. La risoluzione adottata, dopo aver riconosciuto la “buona fede” e il ruolo positivo che ha svolto e svolge l’attuale capo della polizia, prevede la costituzione di un gruppo di lavoro che ha tempo un anno per produrre un dossier con delle raccomandazioni che dovrebbero servire per andare verso un sistema di sicurezza diverso. Non a caso nel titolo della risoluzione votata si parla di una dichiarazione di intenti per un nuovo modello di sicurezza della città. Il linguaggio è molto vago e di scelte politiche concrete non ce ne sono. Non siamo di fronte al primo caso di questo tipo, infatti ci sono dei precedenti che sono a loro modo storici. Nel 2012 a Camden, nel New Jersey, il dipartimento di una polizia particolarmente razzista fu realmente smantellato. Quella che è venuta dopo non è stata un’alternativa a quel dipartimento, ma una sorta di riorganizzazione per quanto riguarda la gestione dell’ordine pubblico che non ha cambiato le cose. Andando ancora più indietro nel tempo. Una ventina di anni fa fu sciolto il commissariato di Polizia di Compton, un zona di Los Angeles, ma i risultati furono gli stessi: non ci fu un cambiamento significativo. Da questo punto di vista si possono comprendere i motivi perché il movimento abbia incendiato il terzo distretto di polizia di Minneapolis.

Perché è difficile smantellare i dipartimenti di polizia e ridurre il loro budget ?

Per il tipo di funzione, di organizzazione, di relazioni politiche che hanno i dipartimenti di polizia negli Stati Uniti. Vi sono infatti strette relazioni con l’intero establishment politico istituzionale, sia Democratico che Repubblicano. Se si guarda al funzionamento dei dipartimenti di polizia, soprattutto delle grandi città, vediamo che c’è stata dal 1997 in poi, quando Bill Clinton varò il Programma 1033 in cui si stabilisce che mezzi, armi, logistica, tecnologie dell’esercito possono essere trasferiti nei dipartimenti locali, una crescente militarizzazione gerarchica e operativa della polizia. Esistono infatti corsie preferenziali per le assunzioni degli agenti dedicate agli ex militari in Iraq e Afghanistan. I sindacati di polizia si reggono su una sorta di spirito di corpo simile a un clan e fanno sistematicamente ricorso all’immunità qualificata dei loro iscritti, una sorta di immunità di cui usufruiscono gli agenti di polizia qualunque cosa facciano. Dal 2013 al 2019 la polizia negli Stati Uniti ha ucciso 7650 persone in grande maggiorana afroamericani e latini, gli agenti incriminati per queste uccisioni sono stati meno dell’1%. Questo significa che esiste un razzismo istituzionale che sta alla base del funzionamento della società in quanto tale. Ed è anche uno degli elementi costitutivi del sistema politico. Il quadro che si può dare del funzionamento della polizia negli Stati Uniti riflette una concezione dello spazio urbano come se fosse uno scenario di guerra a bassa intensità da affrontare con tattiche militari, software predittivi e profilazione razziale. Il partito Democratico ha presentato un disegno di legge alla Camera di rappresentanti per ridurre gli eccessi nell’uso della forza da parte della polizia. Aspetterei qualche mese per esprimere un’opinione su quello che sta accadendo in merito a tutte queste iniziative. Ho dei dubbi consistenti in riferimento anche a quello che è successo in passato soprattutto a Ferguson. Quando un mese dopo la rivolta il procuratore generale Eric Holder promosse una grande inchiesta sul funzionamento di quel dipartimento. I primi risultati andavano alla radice dei problemi: fecero scandalo negli Stati Uniti perché si vedeva chiaramente in che modo funzionava quel dipartimento, quali erano i reali comportamenti della polizia e quali gli intrecci con il sistema politico istituzionale Sei mesi dopo il Dipartimento di Giustizia fece un altro report che sconfessava quello precedente e la situazione a Ferguson, nella sostanza, non cambiò.

All’interno delle proteste stiamo vedendo un forte protagonismo di tantissime donne afroamericane che scendono in piazza e guidano questi momenti di rivolta. Questo è sicuramente legato da un lato al periodo storico di crisi dall’altro al fatto che i movimenti da anni sono animati da un protagonismo femminile altissimo. Sicuramente la pandemia da Covid-19 e il conseguente lockdown è andata a stressare tutta una serie di contraddizioni intrinseche alla società americana, ma non solo. Abbiamo visto anche in Italia che con le scuole e gli asili chiusi e con lo smart working, le donne si sono dovute sobbarcare tutta una serie di responsabilità e compiti. In una società sicuramente differente da quella italiana come quella statunitense, all’interno di quartieri con situazioni già complesse, tutto questo ha sicuramente assunto contorni ancora più pesanti e difficili. Abbiamo già detto che le settimane di lockdown hanno sicuramente inciso sull’esplodere di questi momenti di rivolta, quanto tutto questo incide su quest’esplosione di protagonismo femminile nelle strade statunitensi, quali altri fattori lo stanno alimentando?

Penso che ci siano più motivi. Sicuramente l’onda femminista che ha investito anche gli Stati Uniti in questi ultimi anni ha inciso mettendo al centro il ruolo e la condizione delle donne nella riproduzione sociale. Il protagonismo nei movimenti delle giovani donne soprattutto afroamericane è l’effetto di grande processo di soggettivazione da parte di queste perchè vivono contemporaneamente più contraddizioni che hanno un’indubbia specificità ma in grado di parlare socialmente in termini generali. Molte di loro hanno lavori precari che non hanno potuto sospendere durante il lockdown pena l’azzeramento anche dello scarso reddito. Ad esempio a New York lavorare durante il lockdown ha significato prendere la metropolitana ogni giorno, un luogo in cui il pericolo di contagio è altissimo. Molte sono andate al lavoro senza dispositivi di protezione individuale. Vivono e svolgono il lavoro domestico in appartamenti molto piccoli in cui non è possibile distanziarsi. Tutti questi elementi messi assieme hanno sicuramente contribuito al protagonismo e alla presa di parola. Tuttavia vi è però un altro aspetto che dà la cifra di questo processo di soggettivazione femminista. Facendo riferimento ad Angela Davis quando parla dell’intersezionalità di genere, classe e razza che si produce solamente all’interno delle lotte, le giovani donne afroamericane sono l’esempio di questo processo. Un’intersezionalità sociale, che guarda a una nuova composizione di classe, diversa da quella astratta proposta nelle varie accademie. Diventando quindi protagoniste, in questo movimento, insieme a giovani afroamericani latini e bianchi, non lottano per solidarietà o per condividere l’indignazione, ma protestano e si rivoltano per la loro condizione sociale e di genere. Gli elementi in comune, tra questi soggetti, preoccupano non poco l’establishment sia Democratico che Repubblicano. Cosi come l’esperienza della zona autonoma autogestita Chaz/Chop di Seattle di cui si teme la diffusione in altre città. Nelle ultime due settimane si è accentuato l’intervento da parte di una task force democratica composta da Obama, i governatori dello Stato di New York e della California, le sindache afroamericane di Chicago, Washington e Atlanta, il reverendo Al Sharpton, leader del National Action Network, una delle grandi organizzazioni per i diritti civili degli afroamericani. Questa task force sta tentando un recupero del movimento che consiste nell’annunciare una serie di misure e leggi “cosmetiche” e di far passare l’idea che fondamentalmente gli episodi razzisti della polizia sono dovuti a delle mele marce interne oppure a dei dipartimenti particolarmente compromessi. In sostanza vogliono evitare la saldatura tra la questione sociale, la questione razziale e quella di genere. Rispondere in modo politico a questo tipo di iniziativa è il terreno della sfida che ha davanti il movimento. Sono convinto che, in ultima analisi, questo sia movimento di classe, se per classe intendiamo un concetto politico e non meramente sociologico o nostalgico. I prossimi giorni, le prossime settimane saranno decisivi per quanto riguarda lo sviluppo del movimento che fino ad ora ha avuto un andamento tumultuoso. E’ un movimento che si è sviluppato in modo orizzontale, fatto in gran parte da collettivi, associazioni e gruppi di affinità. Che ha fatto un efficace uso sia dei social network che delle relazioni sociali. Che nell’azione nello spazio urbano mette insieme produzione e riproduzione sociale. Guardare all’esplosione di questa grande rabbia, alla grande voglia di protagonismo sociale, alla consapevolezza dell’incompatibilità dei propri comportamenti delle proprie aspirazioni con un modo di produzione sociale e con un sistema politico, con gli occhi di una nuova composizione di classe potrebbe essere il modo per anticipare il futuro.

 

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