Di me, si prendono cura le mie amiche. Una giornata manifesto a favore della “rabia digna” e la cura femminista collettiva
Finalmente, finalmente la rabbia esplode e smettiamo per un momento di portarcela addosso, dentro, negli anfratti invisibili del corpo. Finalmente la rabbia esplode collettivamente e si scaglia contro luoghi simbolo della città, di questa città che non sembra vedere la violenza che quotidianamente produce. Ora le pareti parlano più di prima, la stazione di polizia è in fiamme, la fermata del metrobus distrutta, lo spazio della Glorieta de los Insurgentes parla, grida e vibra. La violenza che quotidianamente viviamo, ora finalmente, la tiriamo addosso a chi la ignora, come un pugno di glitter fucsia che ti si appiccica sulla pelle sudata.
L’appuntamento è per le 18.30 a Città del Messico e in altre 39 città di tutto il paese. È stata una protesta convocata in maniera rapida perché i fatti scatenanti sono successi appena qualche giorno prima. Il 12 agosto varie compagne e collettivi femministi hanno organizzato una manifestazione che partiva dagli uffici della Secretaría de Seguridad Ciudadana ed arrivava alla sede della Procura della capitale per chiedere giustizia per il caso di un’adolescente di 17 anni violentata da 4 poliziotti nel municipio di Azcapotzalco. Al momento di ricevere la denuncia di violenza, il Pubblico Ministero non ha applicato il protocollo stabilito per le violenze sessuali e le prove, realizzate giorni dopo, non hanno prodotto risultati; l’indagine è stata resa meschinamente pubblica e dunque la giovane è stata bersagliata da minacce che l’hanno costretta a ritirare la denuncia. I 4 poliziotti sono stati sospesi dall’incarico ma nessun’ altra misura è stata applicata, né nessun’altra prova cercata. La manifestazione del 12 agosto ha visto decine di donne scagliarsi contro le la sede della Procura e tirare del glitter fucsia contro il capo della polizia. In battuta finale Claudia Sheinbaum, governatrice della capitale ed eletta tra le fila del partito “progressista” del presidente federale Andrés Manuel López Obrador e rappresentante di un presunto cambiamento politico soprattutto in quanto attenzione al femminicidio e alla violenza di genere, afferma di “non voler cadere in provocazioni” e apre un’indagine contro le compagne femministe.
Ma come afferma lo slogan diffusosi, “Exigír justícia no es provocación” (Esigere giustizia non è una provocazione). In questi pochi giorni il web ed i social si sono riempiti di glitter rosa ed è stata sottolineata l’assurdità delle posizioni politiche di Sheinbaum e di tutto il governo della città. Le posizioni della governatrice sono state la goccia che ha fatto traboccare il vaso: invece di approfondire il caso della minore e sottolineare la gravità che dei rappresentanti dello Stato abbiano violentato invece di proteggere, ammettere che la situazione del femminicidio ormai è ingestibile – arrivata a 9 vittime al giorno, i fautori della sedicente Quarta Trasformazione si sono scagliati contro le mobilitazioni di protesta, screditandole e criminalizzandole.
La rabbia è cresciuta ed è tornata a fior di pelle, la rabbia si somma nuovamente al dolore quotidiano dei 9 femminicidi al giorno, delle violenze sessuali e dei sequestri.
La Glorieta de los Insurgentes alle 18.30 è piena. Ci si rincontra tra chi è da anni ed anni che partecipa alle manifestazioni contro i femminicidi, le lavoratrici delle organizzazioni, le compagne di una vita, e molte, moltissime ragazze giovani: “las morras”. Le universitarie e le ragazze delle scuole superiori sono energiche ed è loro la rivendicazione all’amicizia che ci protegge, è loro lo slogan “A mí, me cuidan mis amigas” (“Di me, si prendono cura le mie amiche”). E’ la generazione che è cresciuta con il femminicidio come esperienza quotidiana, con le istituzioni assenti o violentemente presenti, che non crede ad una sola parola da parte di queste stesse istituzioni e che per questo ha già messo in atto delle strategie alternative: prendersi cura le une delle altre “Hermana, yo si te creo. No estás sola” (“Sorella, io si ti credo. Non sei sola”). Pochi minuti dopo l’orario stabilito i volti si coprono perché dalla manifestazione precedente si è coscienti che si verrà schedate. Iniziano i cori, si alzano i cartelli, si accendono i fumogeni rosa e viola e iniziano le performances e si leggono manifesti.
Poco dopo si parte, chi in contingenti grandi, chi con il gruppo di amiche. Ad aprire è la batucada feminista. [1] La manifestazione esce dalla rotonda e ci rientra per occupare la zona riservata ad auto e trasporto pubblico e lì, di fronte alla Secretaría de Seguridad Ciudadana, si occupa la stazione del metrobus, si scrive sulle pareti e si abbattono i vetri e si grida, si gridano forte gli slogan di sempre e anche i nuovi. Una parte delle compagne si dirige alla Secretaria che, non casualmente, è protetta da cordoni di poliziotte in maggioranza donne. Poi si riprende a marciare verso l’Angel de la Independencia però sulla strada si trova la stazione di polizia ‘Florencia’, qui ci si ferma e si iniziano a rompere i vetri, le porte, incendiare i cartelli fino a provocare un incendio negli uffici interni. La rabbia è tanta e l’entusiasmo pure, la stazione di polizia è un luogo simbolico che rappresenta tutti quei processi di rivittimizzazione a cui si è sottoposte quando si decide denunciare, simbolizza la giustizia patriarcale che non protegge ma che violenta. Lo sforzo è estremo e le grida di slogan, continue. Un’altra parte degli spezzoni si dirige verso l’Angel che viene colorato dagli stessi slogan e su vari volti delle statue che lo sorreggono appare il pañuelo verde, simbolo della lotta alla depenalizzazione dell’aborto in America Latina e Caraibi.
Gli slogan che portano le donne, le femministe e compagnx alleatx enunciano e gridano la rabbia: “Si mañana soy yo, si mañana no vuelvo, destruyelo todo” (“Se domani tocca a me, se domani non torno, distruggi tutto”). È dagli anni ’90 che il Messico affronta ‘l’emergenza femminicidi’ e, nonostante le misure legali ed i cambi di governo, la situazione non fa che peggiorare. Così, non si appella più a un riconoscimento istituzionale, si risponde alla violenza quotidiana attraverso i gruppi di autodifesa che prendono sempre più piede e attraverso la ribellione, in piazza. Quella di venerdì 17 agosto è stata una manifestazione di autodifesa collettiva: se la violenza genera violenza, appunto aspettatevi una nostra risposta. La piazza e la strada ci hanno permesso di collettivizzare qualcosa che prima tenevamo dentro e che spesso nemmeno le parole che usiamo riescono ad esprimerlo a pieno. La piazza e la strada ci hanno permesso di rispondere pubblicamente alle violenze che in quanto donne viviamo in ogni spazio dall’università, all’ufficio, alla fabbrica, alla strada, alla scuola, al metro, all’ospedale, nei luoghi di lavoro, negli spazi pubblici, negli spazi politici, nei luoghi dove vogliamo solamente divertirci. “Agradezcan que queremos justicia y no venganza” (“Ringraziate che vogliamo giustizia e non vendetta”) recitava un cartello.
Anche in Messico, come in altre parti del mondo, anche oggi il femminismo ha dimostrato di essere uno dei movimenti che sa dare una risposta. Davanti alle violenze che provoca lo Stato neoliberale verso le donne e verso tutte le altre subalternità, si risponde arrabbiate e, come affermava Audre Lorde:
“Questo odio e la nostra rabbia sono molto diversi. L’odio è la rabbia di coloro che non condividono i nostri obiettivi, e il suo obiettivo è la morte e la distruzione. La rabbia è un dolore di distorsioni tra pari, e il suo oggetto è il cambiamento.”
Si risponde gridando forte, distruggendo i simboli della metropoli cosmopolita, apertamente, vivacemente, imbrattando e gridando soprattutto che non si crede più al loro sogno, che sappiamo da tempo di essere uno strumento e che nonostante ciò abbiamo voglia di prenderci cura le une delle altre in maniera collettiva, senza dimenticarci di nessuna.
E stanche, in piccoli gruppi, dopo essersi assicurate che nessuna era stata detenuta ingiustamente, verso le 22.30 si riprende la strada verso casa.
Il bollettino della notte è di due ragazze ferite, aggredite dentro una stazione del metro sulla strada verso casa. Le ragazze sono state portate in ospedale insieme ai loro aggressori e lì i poliziotti hanno tentato di farle desistere dal denunciare e a loro volta hanno alzato capi d’imputazione contro di loro per rissa. Fortunatamente le denunce e l’appoggio di compagne femministe le hanno fatte uscire senza carichi pendenti. A poche ore dalla fine della manifestazione i vetri della stazione del metrobus sono stati riparati, gli incendi spenti, rimangono scritte e graffiti sugli edifici dove è passata la manifestazione. Il web è indignato per le femministe che hanno vandalizzato la città, “Así no es la forma” (“Questo non è il modo”), nonostante gran parte dei ‘danni alle cose’ siano stati riparati in una sola notte. Quindi cos’è che scatena un odio profondo verso le manifestanti tanto da invocare femminicidi o stupri di massa? Tanto da non credere che un’azione di questo tipo possa provenire dalle donne organizzate? Che necessariamente debbano esserci infiltrati con un secondo fine? Quante vite di donne, bambine, ragazze servono per pagare dei vetri rotti?
Le violenze le viviamo tutti i giorni: sono necessari simboli e azioni, antimonumenti, scritte e giornate di lotta per ricordarci che:
“¡Ahora que estamos juntas! ¡Ahora que si nos ven! Se va a caer, se va a caer”
(“Ora che siamo inseme, ora che ci vedete, cadrà, cadrà… il patriarcato cadrà”)
[1] Gruppo generato per dare i ritmi degli slogan, si compone di strumenti autoprodotti ed ha le sue radici storico-politiche in America Latina, dove riprende i tamburi dei pueblos originarios.
di Roberta Granelli da lamericalitana.net
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