Di una certa retorica sul ‘Sud’
di assemblea_autonoma_palermitana
Analisti tanto inetti quanto fantasiosi hanno provato a farci credere che questa fase recessiva avrebbe avuto sul Mezzogiorno, a causa della sua arretratezza economica cronica, una incidenza minore che in altre aree del paese. Ciò con cui invece ci confrontiamo quotidianamente è la capacità del capitale di localizzare proprio al Sud un’ingente fetta dei costi scaricabili della crisi.
I dati ci dicono come proprio al sud la disoccupazione sia in costante crescita, il potere d’acquisto si stia comprimendo, il livello di garanzie sociali e welfare sia in pesante ribasso. Oggi, una famiglia su cinque non riesce a sostentarsi né a coprire le sue spese fondamentali mentre il ricorso alla cassa integrazione si sta moltiplicando mese dopo mese.
Pare che mass-media ed esperti accademici si dimentichino di rendere pubblici numeri che la dicono lunga sulla situazione sociale del Sud; una statistica su tutte: il saldo negativo sulle emigrazioni dal Mezzogiorno, negli ultimi anni, è tornato ad avvicinarsi a percentuali di cinquant’anni fa, con decine di migliaia di persone (giovani soprattutto) che lasciano, ogni anno, la propria terra per studio o lavoro; solo dalla Sicilia emigrano ogni anno (dal 2001 in poi) circa 13.000 persone.
Se questi dati possono lasciare intendere anche ai più miopi il grado di disagio sociale vissuto su questi territori, l’impatto sul Sud delle politiche governative diviene più chiaro: i tagli a tutti i settori pubblici (scuola, università, sanità, enti locali) vanno ad incidere con un peso relativo molto maggiore in una terra il cui sviluppo economico ha seguito l’esclusiva linea direttrice dell’allargamento indiscriminato del settore terziario. Questo significa che i tagli a scuola e università, oltre ovviamente a precipitare le condizioni già precarie in cui versava tutto il sistema della formazione scolastica ed accademica, hanno anche una tragica incidenza sul livello occupazionale per le regioni del Sud da cui provengono il maggior numero di insegnanti precari e dove i pubblici impiegati sono percentualmente molto più numerosi che altrove. Questa condizione si affianca ad un tessuto sociale in cui la precarietà non è affatto un segno dei tempi moderni ma la frustra normalità. In cui lo stato continuo di ricatto e instabilità sono una realtà a cui si è creata negli anni abitudine. Le forme di lavoro della modernità appaiono come il riprodursi, senza alcuna soluzione di continuità, di quelle forme di lavoro che, solo apparentemente, si manifestano come relitti quasi feudali, che sono la normalità nel tessuto economico meridionale e che ne testimoniano una volta di più il ruolo pionieristico (come vedremo più avanti). Questa abitudine alle forme più abiette dello sfruttamento costituisce una delle gambe che ha permesso in questi mesi (anni) il governo della crisi al Sud, nonostante tutto.
Non è un caso che anche per quanto riguarda la geografia economica legata al riassetto produttivo della grande industria made in Italy, le fabbriche più penalizzate restano quelle del mezzogiorno. Che si parli di Fiat (Termini), o di Fincantieri (Palermo, Castellamare) i vari progetti industriali concordano tutti sulla necessità di chiudere gli stabilimenti del sud o di ridimensionarli sia sul piano dei posti di lavoro, sia su quello del rapporto produttività-costi attraverso la politica di smantellamento dei diritti e di subordinazione delle esistenze individuali degli operai ai tempi della produzione. Pomigliano docet (ed ha insegnato bene purtroppo. Prima sperimentazione, non a caso come vedremo, di un modello che vuol diventare nelle intenzioni di Marchionne, e non solo, la normalità)…
C’è però una caratteristica del mezzogiorno che resta immutabile: il sud come zona di sfruttamento e sperimentazione politica e sociale; il sud come soggetto subalterno su cui verificare la tenuta del sistema e l’efficacia delle pratiche di gestione della crisi. Basti guardare ai recenti accadimenti di Terzigno ed in generale all’emergenze rifiuti campana; basti guardare all’investimento economico e mediatico sulla “questione” della grandi opere come panacea a tutti i mali del sud; basti, per ultimo, guardare alla sistematicità con cui il nostro territorio è stato sfruttato e rapinato: discarica per le grandi industrie del nord (e se non bastano le discariche si pensi anche alle “navi dei veleni”) e luogo di eccezionale sfruttamento di risorse e beni comuni.
Alla base di tutto ciò è sempre la retorica sviluppista del progresso: il sud come luogo arretrato; il sud in ritardo; il sud e la mancata industrializzazione; il sud ingabbiato dalla dicotomia stato-criminalità.
Catene del pensiero e del dibattito queste, catene la cui unica funzione è sempre quella di narrare la necessaria subalternità del meridione; meridione che si deve autorappresentare come marginale e periferico, che deve accettare la sua condizione sottosviluppata e riprodurla all’infinito in ogni schema sociale.
Criticare questo discorso vuol dire combattere l’impostazione di chi – sia nell’ottica (sempre più spesso razzista) del necessario governo del Nord, sia in quella del bene della nazione (nozione pasciuta dall’idiota mistica patriottarda, sempre più bipartisan e scientificamente propagandata) – costruisce la legittimità al saccheggio e alla subordinazione.
Combattere tale impostazione significa darci gli strumenti di analisi della composizione reale della nostra terra, del suo lavoro vivo, delle sue forme di insorgenza e resistenza; forme che divengono intellegibili solo sovvertendo i classici schemi dicotomici nord-sud, legalità-criminalità, progresso-arretratezza, lavoro-non lavoro.
Senza questa tensione analitica saremmo impossibilitati a compiere ogni tentativo ricompositivo di tutte quelle lotte che nei nostri territori si danno: non solo, quindi, operai e lavoratori salariati in genere, ma anche e soprattutto quella marea di precari e soggettività estranee al sistema di welfare basato sul lavoro a tempo indeterminato rappresentata, per esempio, da disoccupati e studenti. Figure queste le cui rivendicazioni ma, soprattutto, le cui pratiche di lotta esprimono con forza la necessaria costruzione di un nuovo modello di welfare e garanzie, un nuovo sistema di diritti imperniato sul reddito garantito a tutti e a ciascuno e che possa così andare ben oltre ogni visione industrialista del lavoro e della produzione.
Uno sforzo intellettuale ma soprattutto politico che non vuole essere né una critica semplicemente antimodernista né la difesa della tradizione, bensì il presupposto unico per permettere al Sud di tornare ad essere “soggetto pensante” (e non pensato) e attore principale (e non marginale) della costruzione di un piano rivendicativo che metta al centro le specificità della propria meridionalità. Risiedono in questo ribaltamento le uniche possibilità di riscatto della nostra terra.
Le esperienze recenti di conflitto nel Mezzogiorno parlano il linguaggio del territorio in cui si sono sviluppate, ci dicono come la rottura delle pressanti gerarchie di comando si stiano dando senza alcuna possibilità di mediazione tra le forze in campo: le storiche forze della mediazione della lotta di classe stanno, per motivi differenti, ovviamente, venendo meno sia sul fronte politico-istituzionale (forze di sinistra), sia su quello “popolare” (potentati criminali). L’alternativa politica riformista ha sempre meno possibilità di esistere ma soprattutto di arrivare alle masse popolari e di rispondere ai bisogni reali delle classi disagiate e sotto costante attacco nel Mezzogiorno.
Sta dunque costruendosi questo spazio meridionale del conflitto che, per quanto ancora non si sia dato, sta nel presente, aleggia nelle strade e nelle campagne del sud: se esplodesse sarebbe potenza non riassorbibile, forza non valorizzabile e non più assimilabile, lotta di classe in cerca di emancipazione.
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