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Dissociati, delatori e minchioni

Il significato più profondo degli ultimi cinque anni di lotte in Val Susa è la riscoperta della genuinità dello stare assieme resistendo, e il contestuale rifiuto della speculazione politica come tale. L’autonomia del tutto è diventata più importante delle diverse, spesso patetiche autonomie del politico (e dell’ideologico), che pur hanno cercato e cercano di sostituirsi alla condivisione che si sedimenta sull’esperienza. Su questo, la valle non ha guardato in faccia nessuno. Ancora oggi torna ad affermare che un movimento non è la sommatoria di “componenti”, ma un insieme di persone che trasformano sé stesse trasformando il mondo. “No Tav”, di conseguenza, non è un brand che sia possibile usare sul mercato ambiguo della legittimazione politica, avvenga ciò per una lista elettorale o per privatizzare la pratica o l’idea della rivoluzione, dell’insurrezione o del sabotaggio. Il movimento ha i suoi comitati e le sue assemblee per guardarsi negli occhi tra pari e camminare lungo i sentieri della lotta in comune. Diffida di sette e fazioni ideologiche, o dei leaderini che lisciano il pelo a questo o a quel potenziale detrattore per (ri)abilitarsi, (ri)collocarsi, anche a costo di (ri)cacciarsi nel deprimente deserto del prevedibile e dell’inoffensivo.

Per questi individui un gesto politicamente del tutto innocuo, stabilito da un piccolo gruppo, dovrebbe annullare ogni sforzo d’interpretazione e qualsiasi tensione al dibattito. Valutare criticamente un’azione compiuta da qualcuno è per loro, infatti, “dissociazione”. Con questo inquinamento malsano del lessico, irrispettoso delle persone e della memoria rivoluzionaria, tentano di liquidare le critiche al loro punto di vista, cercando riparo da argomenti semplici e diffusi che non sono in grado di controbattere politicamente. Utilizzano un termine coniato dallo stato per gettare nel discredito, squalificandole in anticipo, le analisi altrui, partendo dal presupposto che non si critica pubblicamente un’azione “contro”; e il carattere “contro” (qualunque cosa ciò voglia dire, per loro) di un certo gesto sarebbe il loro intimo conciliabolo, naturalmente, a stabilirlo. Eccoli allora perimetrare la sfera del consentito e del non consentito in termini di espressione e discussione, brandendo la spada dell’insulto su chi ragiona, come ogni rivoluzionario dovrebbe fare, sulle pratiche e sulla loro efficacia. Credono ogni volta che sia il movimento a dissociarsi da loro, e non loro, nel tempo e nei fatti, a dissociarsi dal movimento – ammesso che vi si siano mai sinceramente associati, al netto di ogni mero intento parassitario.

Il dubbio è venuto a chi ha visto trasformare un’assemblea No Tav a Vaie, l’estate scorsa, in un improbabile congressino per disquisire delle fobie ideologiche di un ristretto gruppo di persone. Sguardi imbarazzati di valligiani e compagni. “E ‘sti gran cazzi” nelle menti di tutti noi. (Loro, però, l’ideologia – lo scrissero in quell’occasione – non sono disposti a sacrificarla “neanche alla rivoluzione sociale”: e questo, in effetti, è interessante). Pazienza ne abbiamo avuta tanta. Non è certo stata l’unica occasione. Abbiamo sempre preferito un bicchiere di vino e una fetta di polenta, riderci sopra e sdrammatizzare. Nessuno è perfetto e il movimento ci piace, talvolta, anche per il suo modo di essere un magnifico e simpatico concentrato di follia. Questa volta, però, non è il caso, se è vero che al posto della follia abbiamo trovato una brutta specie di furbizia, la peggiore. Alcuni degli stessi individui, infatti, sono passati da queste ad altre questioni, più delicate, che concernono altri principi. E hanno sostituito l’usuale, risibile insulto della “dissociazione” con un altro, che non fa ridere.

Approfittando cinicamente di un errore commesso per leggerezza, e senza intenzione, dal sito notav.info (che per criticare dei quaquaraqua, per disattenzione, ha potuto lasciar intendere di voler loro attribuire atti che si volevano ascrivere a una più generale attitudine all’insensato), ci hanno deliziati con una tiratina d’orecchie venuta male. Per accusare compagni e compagne (che tutti conoscono, e di cui nessuno ha mai messo in discussione l’integrità) di delazione, occorre presupporre quantomeno l’intenzione di qualcosa di innominabile, ingigantendo un episodio che, per quanto spiacevole, è stato chiuso dopo poche ore da una modifica del testo effettuata autonomamente, una volta che alla redazione è apparso chiaro il possibile fraintendimento del testo. I nostri non hanno invece esitato a giocare col fuoco, presentandosi a un paio di assemblee e insistendo in questa chiacchiera malevola, chiarendo confusamente che quel che avevano scritto non significa “infamia” e che, per carità, bisogna distinguere “delazione” da “delatori”. Alcuni loro amichetti, non volendo apparire da meno ma essendo un po’ timidi, hanno invano tentato di aprire un dibattito: dobbiamo accusarli per “dolo” o semplicemente per “colpa”?

Così, coprendosi di ridicolo senza far ridere nessuno, hanno oscillato per alcune ore tra il linguaggio giudiziario delle macerie di null’altro che della propria onestà intellettuale, e quello delle grottesche distinzioni metafisico-clericali poste a fondamento della scomunica del Concilio di Trento e di Rovereto. Risultato? Nessuno, se non l’invito a sciacquarsi la bocca prima di rivolgere accuse strumentali a comitati e compagni. Però si è immesso tra alcune persone, e tra chi si oppone all’alta velocità o al suo mondo, un insulto abnorme, una sparata abbastanza grossa da non poter essere considerata che una provocazione fuori misura. Perché? Ci dicono: è una questione etica. Allora, saremmo d’accordo. Però che fate, discutete con dei delatori nelle assemblee? Buffoni: sapete benissimo quanto disonesta sia stata questa cosa, e quanto certe barricate capziose voi le abbiate difese oggi strumentalmente, e ieri a intermittenza. Non parlate di principi o di etica perché grazie a questa azione schifosa avete dimostrato di non esserne capaci, subdoli calcolatori quali siete, ipocriti fatti e finiti, non anarchici, ma miserabili politicanti dell’anarchia.

Bravi, ditevi che non è così.

Di questa impresa, risponderete alla vostra storia personale, prima ancora che politica; ma evitate d’ora in poi di ammorbare i luoghi della lotta con le vostre pesantezze e le vostre paranoie, con le inclinazioni depressive del vostro devastante super-io e la vostra irrimediabile presa male. Perché in tanti, in troppi, abbiamo di meglio da fare; e per quanto nel superare il confine che separa il tragico dal ridicolo siate maestri, occorre sempre fare attenzione a non varcarlo al contrario. Minchioni.

 

                                                                                                                                                                            Csoa Askatasuna

 

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