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Dove siamo? Tra disordine e responsabilità – Parte 2

Continua irresistibile il degradarsi dell’ordine globale antecedente e si manifestano attori, burattini e teatranti della tempesta che viene. Non abbiamo ancora visto niente, ma è la storia che si è rimessa in moto e questa è gravida di possibilità, nei brevi termini non per forza di buone notizie. Alcune riflessioni per puntate in vista dell’anno che viene.

Leggi qui la prima parte.

Un nodo di fondo

Chiunque abbia letto “Le vene aperte dell’America Latina”di Eduardo Galeano ha ben presente qual’è la relazione tra la concezione capitalista della natura ed il colonialismo, vecchio e nuovo.

Una delle condizioni costituenti  del capitalismo è l’accaparramento di risorse naturali, cioè l’estrattivismo. Tra gli altri questo è stato un fenomeno fondante dell’accumulazione originaria e rimane uno degli elementi strategici ed inaggirabili di questo sistema di sviluppo. Chi ha il controllo sulle materie prime strategiche ha un vantaggio enorme orizzontalmente rispetto ad i concorrenti ed in parte verticalmente sulla catena del valore. Non è un caso che spesso le aziende che trattano materie prime siano oligopoli o monopoli. Se il “movente economico” non è l’unico proprio del colonialismo (vi sono moventi strategici ed addirittura moventi di politica internazionale ed interna, si veda la ridicola campagna coloniale italiana per avere un “posto al sole”), le peculiari forme del capitalismo estrattivista hanno bisogno dell’enorme disponibilità di manodopera schiavile e semi-schiavile governata da pochi e ricchi possidenti, autoctoni o/e coloniali docili e meglio se facilmente corruttibili.

Se le lotte anticoloniali del ‘900 non hanno interrotto del tutto questa dinamica, che anzi in alcuni territori si è approfondita grazie a forme di soggezione e dipendenza più subdole,  la globalizzazione (con gli Stati Uniti nel doppio ruolo di soft governance attraverso l’impero del debito e di comando hard attraverso la supremazia militare) dislocando il lavoro operaio in paesi del cosiddetto “terzo mondo” ha avuto l’effetto “collaterale” di ridurre la dipendenza. L’ascesa della Cina, dell’India, del Brasile e più in generale di grandi e medie potenze un tempo più o meno soggiogate al colonialismo occidentale o ad artefatte condizioni di sottosviluppo sta portando inevitabilmente ad una ridefinizione degli assetti globali. Naturalmente anche il colonialismo è cambiato ulteriormente nel frattempo, lo sviluppo di nuove tecnologie di estrazione che richiedono meno lavoro umano  (almeno in alcuni settori) permette in linea teorica al colonizzatore di non dover necessariamente sobbarcarsi la tenuta della società e la riproduzione della manodopera colonizzata: basta mantenere il controllo delle materie prime ed evitare militarmente che le popolazioni autoctone si alleino per cacciare l’invasore e rivendicare il proprio territorio. E’ il caos controllato: quanto accaduto in Libia, Siria ed Iraq, dove l’obbiettivo principale dell’Occidente non era produrre un qualche regime change, ma precipitare nella più totale barbarie le società di questi paesi per mantenere militarmente il controllo del petrolio. Il sogno proibito degli Stati Uniti è il collasso sociale della Cina o/e della Russia per poter accedere liberamente agli enormi giacimenti di materie prime, tra cui per quanto riguarda la Cina le fondamentali terre rare.

La strategia del caos controllato si è dimostrata di corto respiro, come avevano fatto i più convenzionali impegni in Afghanistan ed Iraq in nome della guerra al terrore. Proprio il ritiro dall’Afghanistan degli Stati Uniti ha rappresentato il punto di svolta. La Russia di Puntin ha immediatamente saggiato la capacità di risposta di un paese sempre meno entusiasta di farsi garante dell’ordine globale ed a tratti sull’orlo di una guerra civile al suo interno invadendo l’Ucraina. A quasi due anni dall’invasione, con il fallimento della controffensiva ucraina e il devastante tritacarne di uomini, risorse e mezzi derivati dall’impantanamento del conflitto in guerra di attrito Putin non può festeggiare una vittoria completa, ma gli Stati Uniti stanno sostanzialmente ammettendo la sconfitta, abbandonando il burattino Zelensky al proprio triste destino e preparandosi a consolarsi cibandosi al trogolo della ricostruzione.

Decolonize it!

Accanto alla progressiva esplosione dei conflitti geopolitici e geoeconomici conseguenti alla centralizzazione delle risorse assistiamo alla ripresa di lotte anticoloniali che sfruttando questo quadro di caos generale provano a chiudere (o meglio riaprire) i conti con l’Occidente. Niger, Burkina Faso e in generale l’area del Shael ha aperto le danze. Come scrivevamo subito dopo il colpo di stato: il Niger è il sesto paese esportatore di uranio nel mondo, ed il primo per quanto riguarda gli approviggionamenti europei, UE che ha inserito sciaguratamente il nucleare nella tassonomia verde. In ballo c’è di nuovo il comando sull’estrazione e la distribuzione delle risorse energetiche e si sa, l’energia nucleare per sua natura si presta dall’inizio alla fine del processo di lavorazione ad essere un vettore coloniale.”

Poco ha potuto fare, almeno al momento, la Francia di fronte a questa ribellione in una delle sue più importanti aree di influenza. Appena sette giorni fa è stato completato il ritiro dell’esercito francese dal territorio nigerino. Macron deve fare i conti con ben altri problemi interni ed esteri.

Ma è in Palestina oggi che lo scontro tra popoli colonizzati e colonizzatori è precipitato nella maniera più violenta e perturbante per gli assetti globali. Dopo quasi tre mesi sono oltre 21mila le vittime palestinesi dell’assedio genocida lanciato su Gaza dall’esercito israeliano dopo il 7 ottobre. In questi giorni sono sempre più evidenti i tentativi del governo di Netanyahu di allargare il conflitto al Libano se non direttamente all’Iran. L’intenzione di Netanyahu ora è quella di trasformare lo scontro tra la resistenza palestinese ed il regime di apharteid israeliano in uno scontro geopolitico in cui trascinare per la collottola gli USA restii a scendere in campo direttamente. Ma per la prima volta da decenni la natura di Israele è di fronte al mondo senza maschera. Cuneo geopolitico occidentale in Medioriente intriso di suprematismo e fanatismo.

Israele è una delle sintesi più calzanti delle contraddizioni del capitalismo contemporaneo, ed allo stesso tempo in temini immaginari in questo momento il fronte, la linea di contatto tra gli oppressi e gli oppressori. Milioni di persone in tutto il mondo hanno ben chiaro questo quadro e si sono mobilitate a fianco del popolo palestinese. Come scrivevamo qui: La questione palestinese diviene così centrale per mondi così diversi perché è cartina di tornasole dell’ormai infinito repertorio di contraddizioni che porta con sé il sistema economico e di dominio vigente. Non si tratta “solo” di una solidarietà umanitaria, che comunque non è da disdegnare, ma di un riconoscersi in gradi diversi in quella insopportabilità delle condizioni di vita che i palestinesi sperimentano da decenni nella sua versione più brutale e cinica: ecco dunque la sostanza di un nuovo possibile internazionalismo in fase di maturazione”.

Se parliamo di responsabilità non possiamo non porci il problema di come sviluppare questa tensione internazionalista senza snaturarne il suo carattere più profondo. Su quale sentire comune, su quali esperienze e su quali aspettative è possibile fondare un nuovo universale capace di offrire un orizzonte comune agli oppressi?

Non dobbiamo inoltre dimenticare che le periferie dell’Europa e degli Stati Uniti vivono una condizione di segregazione, controllo e inclusione differenziale che differisce da quella palestinese quasi solo per l’intensità della violenza che viene somministrata. Se non si può parlare esattamente di “colonialismo interno” è evidente un espandersi della condizione di subalternità e dipendenza. La resistenza palestinese ha rappresentato un lampo di luce, un riferimento possibile per chi vive in queste condizioni nel nostro paese: uno spunto tutto da inchiestare e comprendere.

E’ una trama intrecciata: crisi climatica, colonialismo, globalizzazione, condizioni di vita. Riprendiamo il bandolo della matassa…

Prosegue nella prossima puntata…

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