Ecologia marxiana, dialettica e gerarchia dei bisogni
Pubblichiamo questa intervista a John Bellamy Foster, apparsa per la prima volta sulla rivista ceca Contradictions, numero 6 (2022), in seguito adattata per Monthly Review.
Traduzione di Antropocene.org
Dan Swain e Monika Woźniak: Più di due decenni fa, nel suo libro Marx’s Ecology, lei ha confutato le ipotesi popolari sul rapporto di Karl Marx con le questioni ecologiche. Nel suo recente libro, The Return of Nature, ha intrapreso un compito simile nei confronti dell’altra figura fondante del marxismo, Friedrich Engels. Perché ritiene così importante fare chiarezza sulle opinioni popolari di Engels?
John Bellamy Foster: In Marx’s Ecology e in The Return of Nature, il mio interesse principale non era quello di confutare le «convinzioni più diffuse» sull’ecologia di Marx ed Engels che erano, ovviamente, principalmente il prodotto di una profonda mancanza di conoscenza del loro pensiero in questo campo. Come disse Baruch Spinoza, «L’ignoranza non è un argomento». Pertanto difficilmente merita una confutazione diretta. Piuttosto, la preoccupazione era quella più affermativa di portare alla luce le classiche critiche ecologiche storico-materialistiche sviluppate da Marx ed Engels, così come dai successivi pensatori socialisti che ne furono influenzati, come base metodologica su cui sviluppare un’ecologia socialista per il XXI secolo.
Marx, come sappiamo oggi, è stato un fondamentale pensatore ecologico, non solo in relazione al suo tempo ma anche rispetto al nostro, dal momento che aspetti cruciali del suo metodo non sono mai stati superati. Questa acuta comprensione delle contraddizioni ecologiche scaturì dal suo fondamentale metodo materialista ed era evidente nei suoi concetti di «metabolismo universale della natura», «metabolismo sociale» e «incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale» (o frattura metabolica). Ciò gli ha permesso, in un modo unico nel pensiero ecologico fino ad oggi, di sviluppare una critica dell’economia politica del capitale che si è concentrata sulle contraddizioni sia sociali che ambientali del modo di produzione. La sua analisi in questo senso ha anticipato e, per certi versi, influenzato il successivo sviluppo del pensiero ecologista.
Engels adottò lo stesso fondamentale metodo materialista (anche se meno filosoficamente sofisticato) di Marx, ma le loro analisi assunsero un’enfasi alquanto diversa, radicata nella divisione del lavoro adottata nel loro lavoro. Sebbene Marx fosse completamente immerso nella scienza naturale del suo tempo, e la introducesse in numerosi punti nel Capitale, fu Engels che si occupò più direttamente della scienza naturale nella sua Situazione della classe operaia in Inghilterra (che fu un’opera pionieristica nel campo dell’epidemiologia) e più tardi nella sua Dialettica della natura e nell’Anti-Dühring. Il materialismo di Engels, insieme al suo approccio alla dialettica della natura, spinse il suo lavoro in una direzione ecologica. Come notoriamente disse «La natura è il banco di prova della dialettica». Sebbene ciò sia stato spesso criticato, ciò che intendeva chiaramente, in termini odierni, era che “l’ecologia è il banco di prova della dialettica”, una visione che assume un nuovo significato nel XXI secolo. In Parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia (capitolo della Dialettica della natura), Engels non solo fornì quella che Stephen Jay Gould chiamò il miglior esempio di teoria fondata su una coevoluzione gene-cultura, e quindi la comprensione più avanzata dell’evoluzione umana, apparsa nel XIX secolo, ma fornì anche una delle più potenti critiche alla distruzione ecologica che siano state sviluppate nel suo tempo e fino ai giorni nostri.
L’incorporazione da parte di Engels della teoria evolutiva di Darwin all’interno dell’analisi marxista avrebbe influenzato le successive analisi socialiste. La sua teoria della dialettica, come costitutiva di ciò che oggi chiamiamo l’“emergere” di nuove forze materiali attraverso il cambiamento delle forme di organizzazione, o ciò che Joseph Needham chiamava “livelli integrativi”, è stata cruciale per il lavoro successivo degli scienziati socialisti e ha anticipato gli sviluppi chiave della scienza in generale. Anche le sue speculazioni sulle origini dell’universo, sulle origini della vita, sulle origini della specie umana attraverso il lavoro e sulle origini della famiglia hanno avuto un’enorme importanza per gli sviluppi teorici successivi.
Nel capitolo di The Return of Nature che si concentra sul significato della tradizione marxista scientifico-naturalistica, evolutiva ed ecologica, incarnata dal lavoro di pensatori come J.B.S. Haldane, J.D. Bernal, Joseph Needham, Lancelot Hogben e Hyman Levy nel 1930 e ’40, è intitolato The Return of Engels, in quanto fu la riscoperta della dialettica della natura di Engels a costituire la base iniziale di molte delle scoperte rivoluzionarie del periodo, influenzando il moderno movimento ambientalista.
DS e MW: In che modo questo recupero del pensiero ecologico di Engels può cambiare il modo in cui comprendiamo il destino della dialettica della natura in Unione Sovietica? La convinzione di una presunta linea di continuità ininterrotta tra Engels e lo stalinismo influenza ancora il modo in cui molte persone nell’Europa centrale e orientale sembrano pensare a questo tema.
JBF: La questione del materialismo dialettico sovietico è complessa. E anche se potrei discuterne a lungo, credo che in questo contesto sia più utile – dal momento che una lunga disquisizione non sarebbe opportuna – concentrarsi sugli aspetti ecologici, che permettono di affrontare molte delle questioni salienti.
Non dovrebbe sorprenderci che negli anni ’20 fino alla metà degli anni ’30 l’Unione Sovietica avesse la scienza ecologica più avanzata del mondo, incoraggiata inizialmente dallo stesso V.I. Lenin. Inoltre, si ispirava in gran parte alla dialettica della natura di Engels e all’ampio materialismo dialettico e storico di Marx. Anche i pensatori dell’epoca sovietica che non erano marxisti furono influenzati dalle concezioni dialettiche emergenti in quel momento. Il geofisico Vladimir Vernadsky sviluppò la nozione di biosfera e cicli biogeochimici; il geologo Aleksei Pavlov introdusse la categoria di periodo antropogenico (noto anche come antropocene); il leader e teorico rivoluzionario bolscevico Nikolai Bukharin applicò il concetto di biosfera di Vernadsky al materialismo storico ed esplorò il metabolismo come base dell’equilibrio sociale ed ecologico (sebbene originariamente visto da lui in termini piuttosto meccanicistici); il biologo Alexander Oparin introdusse la moderna teoria materialista delle origini della vita (sviluppata contemporaneamente anche da Haldane in Inghilterra, influenzato da Engels e dal pensiero sovietico); il genetista Nikolai Vavilov mappò le fonti globali di germoplasma alla base delle principali colture; lo zoologo Vladimir Stanchinskii fu il primo a sviluppare un’analisi energetica rigorosa delle comunità ecologiche e dei livelli trofici, fu redattore della prima rivista ufficiale di ecologia dell’URSS e il principale sostenitore degli zapovedniki sovietici, o riserve naturali scientifiche; il fisico Boris Hessen introdusse la sociologia della scienza ed esplorò il significato dell’attenzione riservata da Engels alle relazioni tra la trasmutazione della materia e la trasformazione dell’energia; il fisico B. Zavadovsky sviluppò una potente critica del vitalismo nella scienza; Nikolaevich Sukachev fu il pioniere dell’analisi degli ecosistemi palustri che impressionò Lenin a questo riguardo. Tutto ciò si basava sui concetti marxiani di naturalismo/materialismo dialettico.
Un certo numero di queste figure, vale a dire Bukharin, Vavilov, Zavadovsky e Hessen, volarono da Mosca a Londra nel 1931 per la seconda conferenza internazionale sulla storia della scienza e della tecnologia, dove ebbero un’enorme influenza sugli scienziati socialisti in Gran Bretagna come Bernal, Needham, Hogben, Levy e Haldane, contribuendo alla nascita della “scienza rossa” in Gran Bretagna presentata in The Return of Nature. Tuttavia, l’impatto dello stalinismo (e del lysenkoismo) si riflesse nel fatto che Bukharin, Vavilov, Zavadovsky, Hessen e Stanchinskii furono tutti eliminati nelle purghe di Stalin. La loro tradizione di scienza dialettico-materialista sopravvisse principalmente nel lavoro degli scienziati rossi britannici che furono direttamente influenzati da loro e che divennero l’emblema di ciò che ho chiamato un “secondo fondamento” all’interno della scienza naturale marxiana.
Nel periodo di Stalin, il materialismo dialettico in Unione Sovietica si ridusse a un insieme di formule vuote e assunse varie forme grossolane, compreso il positivismo. Tuttavia rimasero, riuscendo a sopravvivere, autentici pensatori dialettico-materialisti nelle scienze naturali (e nelle arti) interessati all’ecologia, come Sukachev, a cui si deve la nozione di biogeocenosi, che costituisce per molti versi un’alternativa più dialettica al concetto di ecosistema collegato alla biosfera. Sukachev, a capo della scienza sovietica, doveva dichiarare guerra a Trofim Lysenko e alla fine lo sconfisse, il che aprì la strada alla rinascita del pensiero ambientalista sovietico, alla resurrezione degli zapovednik, l’ascesa di quella che ho chiamato “ecologia tardo-sovietica” alla fine degli anni ’70 e ’80. È in questo periodo, a partire dagli anni ’60, che i climatologi sovietici, in particolare quelli che ruotavano intorno alla straordinaria figura di Mikhail Budyko, svolsero un ruolo di primo piano nell’introdurre la nozione di cambiamento climatico accelerato, assumendo anche un ruolo importante nello sviluppo dell’analisi dell’inverno nucleare [1]. Scienziati e filosofi sovietici si sono riuniti per sviluppare il concetto di “civiltà ecologica”, che è stato poi adottato in Cina. In tutto questo, possiamo vedere la forza del pensiero dialettico-materialista, nonostante i tentativi di ridurlo a un dogma positivistico, l’esatto contrario di sé stesso.
Tutto ciò non significa negare i fallimenti ecologici dello Stato sovietico. Ma così come non vorremmo giudicare il valore di tutto il pensiero critico e ambientalista dell’Occidente dai fallimenti del sistema capitalista, che oggi ci sta portando verso la completa distruzione del pianeta come casa sicura per l’umanità, mettendo in discussione la sopravvivenza di numerose specie, compresa la nostra, non dovremmo scartare i contributi di tutti i pensatori critici sovietici sulla base degli errori commessi al Cremlino.
DS e MW: In che modo questa complicata eredità sovietica può informare il nostro pensiero oggi?
JBF: La risposta sta nel suo riferimento alla «complicata eredità sovietica». L’Unione Sovietica (comprese le società di tipo sovietico in generale) non può essere trattata come una società monolitica, né la sua storia è stata semplice e continua. Piuttosto, ci sono state delle brusche interruzioni. Nello scrivere il mio articolo Late Soviet Ecology and the Planetary Crisis su «Monthly Review» del giugno 2015, ho esaminato i tre periodi della storia sovietica da una prospettiva ecologica: il periodo fino alla metà degli anni Trenta, il periodo centrale di Stalin a partire dalle grandi purghe, e poi quello dell’ecologia tardo sovietica a partire dal disgelo degli anni Sessanta. Ciò che mi interessava, come indicato in precedenza, era che non solo il primo decennio e mezzo dell’Unione Sovietica, come è ormai ben noto, è stato un periodo di progresso ecologico critico, ma anche che questo non è stato completamente distrutto nel periodo staliniano, e c’è stata una nuova fioritura dell’ecologia sovietica verso la fine, derivante principalmente dalle scienze. Inoltre, le forme di pensiero dialettico e materialista (nella misura in cui persistevano) portarono a intuizioni ambientali molto creative e molto diverse da quelle occidentali.
Nell’ecologia tardo-sovietica, si dava naturalmente una maggiore enfasi alle possibilità di pianificazione ambientale come parte del processo di pianificazione generale, cosa molto importante rispetto all’anarchico approccio di mercato del capitalismo. E si è assistito a un significativo recupero di alcune idee scientifico-naturalistiche di Marx. La nozione di creazione di una “civiltà ecologica” rappresentava un tipo di pensiero che ancora oggi è poco presente in Occidente. Negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta Budyko e i climatologi sovietici che gli ruotavano intorno erano il gruppo più numeroso di scienziati del clima e il più avanzato al mondo, anche se a metà degli anni Sessanta la situazione si era spostata decisamente verso gli Stati Uniti. L’enfasi sulla biosfera e su concetti come la biogeocenosi e i cicli biogeochimici ha dato agli ecologisti sovietici una visione più integrata del Sistema Terra. È notevole ancora oggi leggere l’opera Global Ecology di Budyko degli anni ’70 e confrontarla con quanto esisteva allora in Occidente. C’era una sorta di umanesimo ecologico socialista che emergeva in forma nascente in questo periodo.
Certo, c’erano delle contraddizioni, perché il dogmatismo persisteva ancora nelle aree centrali [del Partito], insieme alla fede in megaprogetti prometeici, come la deviazione dei fiumi. Ma molte delle figure ecologiche della scienza e della filosofia hanno rotto con decisione con questo atteggiamento. Il massiccio movimento di conservazione sovietico era un movimento dissidente guidato da scienziati che stava guadagnando terreno durante tutti gli anni ’70 e ’80 e che è sfociato nella più grande organizzazione di conservazione del mondo. Tutto questo, però, è scomparso con la dissoluzione dell’URSS stessa.
DS e MW: Lei critica il dualismo tra storia e natura nel marxismo occidentale e opta per una comprensione sfumata e nondimeno ontologica della dialettica della natura. Perché ritiene importante questa comprensione ontologica e come concettualizza il rapporto tra la dialettica della natura e la dialettica della società?
JBF: La differentia specifica del “marxismo occidentale” come tradizione filosofica, che lo separa da altre versioni del marxismo, è la sua adesione al neokantismo per quanto riguarda le questioni della natura e della società, nonché l’ontologia e l’epistemologia. Il marxismo occidentale ha avuto origine dalla nota 6 [2] di Storia e coscienza di classe di György Lukács, in cui si afferma che Engels, «seguendo il falso esempio di Hegel», aveva esteso la dialettica «alla [conoscenza della] natura», comprendendo non solo la società e la storia, ma anche la natura esterna. Tuttavia, le «determinazioni decisive della dialettica» in senso sociale, che richiedono la riflessività in relazione al soggetto umano, ha detto Lukács, «nella conoscenza della natura non sono presenti». Da qui nasce quella che è stata a lungo considerata la caratteristica distintiva del marxismo occidentale: l’abbandono, su basi neokantiane, della dialettica della natura. Ironia della sorte, Lukács stesso non rifiutò categoricamente la dialettica della natura. Infatti, in un capitolo successivo di Storia e coscienza di classe, egli sottolinea, con parole simili a quelle di Engels, la sua accettazione di una “dialettica della natura meramente oggettiva”, pur sottolineando che questa era limitata e che la dialettica nella sua forma più sviluppata era mediata socialmente e consisteva in una relazione soggetto-oggetto. Inoltre, uno dei temi principali del suo lavoro successivo a Storia e coscienza di classe, a partire dal manoscritto Tailism di pochi anni dopo e fino all’Ontologia dell’essere sociale alla fine della sua vita, era la concettualizzazione di una dialettica della natura e della società radicata nel concetto di metabolismo sociale di Marx.
Tuttavia, all’interno della stessa tradizione marxista occidentale, che si è evoluta da Storia e coscienza di classe ma che ha rifiutato la dialettica della natura in modo più radicale di Lukács, è emersa una visione dualistica in cui il metodo dialettico si applicava solo alla storia e alla società e non al regno della natura, che era interamente affidato alla scienza naturale e al positivismo. Il marxismo, quindi, si limitava a una “totalità” artificiale, interamente sociale e non naturale, avulsa dal mondo naturale-materiale, escludendo di fatto l’intero universo fisico. Ciò corrispondeva alla visione neokantiana in cui l’epistemologia (o la teoria della conoscenza) sussumeva l’ontologia (o la natura dell’essere), sulla base del fatto che potevamo conoscere realmente solo il regno del soggetto umano, e non in qualche misura il mondo/universo esterno non umano – una visione che il filosofo critico realista Roy Bhaskar ha chiamato «fallacia epistemica».
Una simile prospettiva, in cui l’epistemologia dominava completamente sull’ontologia, non era tuttavia più fondamentalmente materialista, ma tendeva sempre più a visioni idealiste. La concezione materialista della storia si distacca dalla concezione materialista della natura. La concezione vichiana secondo cui potevamo capire la storia perché l’avevamo fatta noi nascondeva un dualismo in cui il mondo materiale più ampio, al di fuori e addirittura prima della società umana, era caratterizzato come un altro, dominio del meccanicismo e del positivismo, non del marxismo e della dialettica. In questa visione, non c’era spazio all’interno del marxismo per un’analisi concreta della natura, dell’ecologia o persino dell’evoluzione darwiniana, che si trovavano tutte al di fuori della sua sfera di competenza. Di conseguenza, il marxismo occidentale non è stato in grado di produrre una vera analisi ecologica, ma solo un infinito rifiuto del positivismo e una critica astratta e ambigua del “dominio della natura”, che era poco più di una critica della tecnologia. Questo non significa affermare che la tradizione filosofica marxista occidentale non abbia ampliato la nostra conoscenza critica sotto molti aspetti. Ma è rimasta intrappolata nel suo stesso rifiuto del mondo materiale al di là dell’umanità come un altro universale, un noumeno o cosa-in-sé.
Per quanto riguarda il motivo per cui considero importante l’ontologia, dovrei risalire al mio primo riconoscimento consapevole di questo aspetto negli anni Settanta, grazie all’incontro con la Teoria dell’alienazione in Marx di István Mészáros, che affrontava l’ontologia sociale umana ponendo l’accento sull’essere umano come essere auto-mediatore della natura. Mészáros, naturalmente, ha tratto questo argomento dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx in cui egli, nella sua critica alla Fenomenologia di G. W. F. Hegel alla fine dei Manoscritti, spiega che gli esseri umani sono esseri corporei e quindi oggettivi, sensuali, materiali nella misura in cui gli oggetti dei loro bisogni si trovano al di fuori di loro stessi. Attraverso lo sviluppo storico della produzione, gli esseri umani diventano così esseri auto-medianti della natura, anche se comunque soggetti all’auto-alienazione.
Questo è il luogo in cui finiscono i Manoscritti economico-filosofici del 1844, ma anche quello in cui inizia effettivamente L’ideologia tedesca, suggerendo così l’assenza di una rottura epistemologica nel pensiero di Marx nel 1845-46. È questa visione ontologica, associata alla teoria dell’alienazione di Marx, il punto di partenza del materialismo storico. Ma essa emerge da un’ontologia materialista profonda. A partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento, sotto l’influenza del lavoro del suo amico e compagno rivoluzionario, il medico-scienziato Roland Daniels, autore di Mikrokosmos, Marx iniziò a concettualizzare questa relazione ontologica nella produzione come metabolismo sociale tra gli esseri umani e la natura, da cui alla fine nacquero le sue concezioni ecologiche più fondamentali e che si trova al centro dell’ontologia sociale di Lukács.
Sono arrivato a comprendere l’analisi ontologica di Marx in questo modo molto presto, negli anni Settanta, grazie allo studio dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx, della Teoria dell’alienazione in Marx di Mészáros, della prefazione di Lukács del 1967 a Storia e coscienza di classe e delle interviste a Lukács in Conversazioni con Lukács. Il mio studio successivo del materialismo di Marx, che risale alla sua tesi di dottorato su Epicuro, alla sua analisi del metabolismo ecologico e all’Ontologia dell’essere sociale di Lukács, ha semplicemente rafforzato queste opinioni. Ciò si sovrappone anche al recente lavoro di Joseph Fracchia nel suo Bodies and Artefacts su Marx come teorico della corporeità. Senza questa concezione ontologica radicata nel materialismo profondo di Marx non può esistere una critica marxista coerente.
DS e MW: Ma questo non potrebbe essere compatibile con un approccio che insiste sul fatto che la natura è conoscibile attraverso la dialettica (ad esempio, perché è parte della storia e della coscienza umana) senza insistere sul fatto che la dialettica è, per così dire, “là fuori” nella natura? Cosa pensa che si perderebbe con questo approccio?
JBF: Mi riferisco spesso allo specifico ambito della dialettica che coinvolge l’interazione diretta tra natura e società come dialettica della natura e della società, poiché è in qualche modo diverso dalla dialettica della natura o dalla dialettica della società considerate separatamente. Gran parte del pensiero critico che coinvolge sia il mondo naturale che quello sociale, come l’Ontologia dell’essere sociale di Lukács, può essere visto come una dialettica della natura e della società. Ma ci sono ovviamente aspetti della natura – che può essere considerata come l’insieme della storia naturale e dell’evoluzione dell’universo nel suo complesso – che sono esistiti prima e al di là della portata dell’umanità. Ontologicamente, l’umanità fa parte del «metabolismo universale della natura». La nostra conoscenza del mondo naturale esterno è il risultato delle nostre interazioni con (e all’interno di) questo metabolismo universale, principalmente attraverso il «metabolismo sociale» rappresentato dalla produzione umana. La comprensione materiale derivata da queste interazioni viene poi estesa attraverso inferenze scientifiche ad aspetti della natura extraumana che non sono immediatamente disponibili per noi. Così, se andiamo abbastanza indietro nella storia della fisica, fino all’antichità, scopriamo che i primi principi con cui i filosofi hanno compreso l’universo al di là di loro stessi erano tutti basati su inferenze scientifiche derivanti dalle nostre esperienze materiali immediate, così come le intendevano all’epoca, da cui deducevano la “natura delle cose” nell’universo nel suo complesso. Il fatto stesso che tale approccio all’inferenza scientifica abbia una validità generale dal punto di vista della logica esprime il fatto che la natura non è semplicemente “là fuori”, ma anche “qui dentro”, nel senso che noi siamo esseri naturali-materiali e quindi parte della natura, oltre che esseri sociali. Infatti, la società umana è una forma emergente della natura, con le sue leggi specifiche, ma sempre soggetta alle leggi più ampie della natura.
Basandosi sulla sua profonda conoscenza della filosofia epicurea, Marx ha sempre enfatizzato la relazione sensibile dell’uomo con la natura, in cui gli esseri umani erano concepiti come esseri oggettivi e quindi avevano i loro bisogni al di fuori di loro stessi. E, naturalmente, la nozione di Marx di metabolismo sociale dell’umanità e della natura attraverso la produzione sottolineava la dinamica di questa relazione all’interno della storia umana. Egli vedeva questa interazione sensibile con il mondo in continua espansione e la conoscenza che ne derivava raggiungere una forma razionale all’interno della scienza materiale. Lukács, nella sua prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, concorda con Engels (e Marx) sul fatto che, da un punto di vista epistemologico, l’umanità può conoscere la natura esterna anche attraverso esperimenti scientifici. Quindi, la cosa in sé kantiana tende a ridursi con il progredire della produzione umana, della conoscenza e della scienza. Tutto questo riflette la nostra crescente conoscenza materiale del mondo naturale di cui siamo parte, e in tutto questo una prospettiva dialettica e relazionale è cruciale.
Tuttavia, rimane una realtà che il metabolismo universale della natura si estenda necessariamente al di là dell’interazione umana con essa e quindi di qualsiasi conoscenza diretta da parte nostra. Sarebbe antropocentrico e non scientifico pensare il contrario. Gli Hominini hanno solo pochi milioni di anni, mentre la maggior parte della storia della vita e dell’universo ci precede e ci circonda, costituendo la base più ampia in cui esistiamo. Gli esseri umani esistono quindi accanto ad altre forme di vita e all’interno dei cicli biogeochimici del Sistema Terra nel suo complesso. La comprensione delle relazioni naturali – che devono essere affrontate dialetticamente e non in modo meccanico – richiede quindi una dialettica della natura, o quella che Engels e Lukács chiamavano la “dialettica meramente oggettiva”, separata dalla coscienza e dall’azione diretta dell’uomo e che fornisce la base per una dialettica più completa e riflessiva, che incarna la coscienza umana e le relazioni soggetto-oggetto.
Gli esseri umani sono allo stesso tempo un prodotto evolutivo della natura ed esseri auto-mediatori della natura, cosa che permette loro di percepire e agire sul mondo in modi significativi e trasformativi. Ma proprio per questo possiamo anche dire che gran parte del metabolismo universale della natura si trova al di là della nostra esistenza corporea, per cui è necessaria anche una “dialettica meramente oggettiva” della natura», in cui l’umanità stessa è decentrata. Le continue fluttuazioni, le interazioni dinamiche, i complessi processi evolutivi e i livelli integrativi che compongono il metabolismo universale della natura e che costituiscono il regno della dialettica meramente oggettiva, fanno sorgere all’interno della società umana – poiché l’umanità stessa è una parte emergente della natura – le capacità della ragione dialettica, che ci permettono di comprendere noi stessi in connessione con il mutevole mondo materiale che ci circonda. In quest’ottica, Marx nelle Lettere a Kugelmann si riferisce al «metodo dialettico», inteso nel suo senso più generale, come nient’altro che «il metodo di trattare la materia».
DS e MW: Nei dibattiti contemporanei, è molto comune assistere a discussioni secondo cui qualsiasi distinzione tra esseri umani e natura non umana è necessariamente dualistica e antropocentrica. Quali sono secondo lei i limiti di questo approccio? I suoi lavori suggeriscono una visione più dialettica.
JBF: Il tipo di critica che lei cita ha diverse forme. Una di queste riguarda la questione delle distinzioni tra animali umani e non umani. In questo caso, la posizione dominante in Occidente, originata dall’Illuminismo, era il famoso dualismo antropocentrico di René Descartes che separava da un lato gli esseri umani con un’anima/mente, dall’altro gli animali non umani che caratterizzava come semplici macchine. Descartes arrivò al punto di vivisezionare il cane di sua moglie per “dimostrare” che non aveva un’anima. Marx criticò aspramente la visione di Descartes, degli animali come macchine, insistendo sul fatto che questa rifletteva il punto di vista alienato e idealista dell’ordine borghese, sostenendo che nel mondo medievale gli animali non umani non erano visti come macchine ma come “aiutanti” degli esseri umani, un punto di vista con cui Marx si identificava.
Marx fu fortemente influenzato dalla tradizione materialista epicurea, dalla teoria delle pulsioni animali di Hermann Samuel Reimarus e dalla teoria dell’evoluzione di Darwin, che evidenziavano gli stretti legami tra gli esseri umani e gli animali non umani, discostandosi a questo riguardo dalla tradizione dualista cartesiana. In effetti, sia Marx che Engels attribuirono la maggior parte delle forme più elevate di coscienza e autocoscienza agli animali non umani, ma intesero il lavoro umano come una nuova forma emergente, in cui gli esseri umani, grazie alla loro organizzazione sociale, divennero gli esseri auto-mediatori della natura a un livello simile – ma qualitativamente distinto, in termini di società, linguaggio, tecnologia e storia – a quello degli animali non umani. Ciò era collegato alla teoria dell’evoluzione. In La parte avuta dal lavoro nel processo di umanizzazione della scimmia di Engels, si trova non solo la più alta stima concepibile dei poteri, compresi quelli intellettuali, degli animali non umani, ma anche, come accennato in precedenza, la più sofisticata visione ottocentesca della coevoluzione gene-cultura, che spiega l’evoluzione distintiva della specie umana. In questa prospettiva, ci sono rotture qualitative rappresentate dall’evoluzione umana, ma la parentela con gli animali non umani rimane centrale in quella che Darwin chiamava l’evolutiva “discendenza dell’uomo”.
Per quanto riguarda le critiche più generali che imputano al marxismo un dualismo tra esseri umani e natura, queste si basano spesso su un grossolano rifiuto post-umanista della dialettica marxiana in quanto essa stessa dualistica. In questo modo si dimentica che la dialettica, e in particolare la dialettica hegeliana, ha per oggetto il superamento del dualismo, fondato sulla comprensione della contraddizione, del cambiamento, della mediazione, della negazione, della trascendenza e della totalità. Al contrario, il tentativo altrettanto semplicistico (e non dialettico) di trattare la dialettica come semplice unità assoluta o visione monistica del mondo, si limita a rimuovere le contraddizioni. Come affermava Lukács, la dialettica marxiana si occupa di “identità dell’identità e della non-identità”, non della loro fusione assoluta. Nemmeno l’ibridismo popolare di oggi è un sostituto significativo della dialettica. Nel suo Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Marx ammoniva contro l’«ibrido infelice in cui la forma tradisce il significato e il significato la forma».
Alcuni pensatori si sono spinti a criticare la stessa teoria dialettica della frattura metabolica di Marx come dualistica, dimenticando che il fulcro dell’analisi di Marx, in questo caso, era il metabolismo sociale (il processo di lavoro e di produzione) che costituisce la mediazione tra l’umanità e il metabolismo universale della natura, che è, la natura nella sua totalità. La mediazione vista in relazione alla totalità è, ovviamente, al centro del metodo dialettico. Nel caso della frattura metabolica, stiamo parlando di un’interruzione del metabolismo, o di quella che Marx chiamava la “mediazione alienata” (e che Mészáros definiva “mediazioni di secondo ordine”) tra l’umanità storica e il resto della natura, costituendo una contraddizione ecologica fondamentale. È questo, infatti, il modo in cui Marx ha costruito la sua critica ecologica. Dire che è dualistico perché c’è l’umanità da una parte e la natura non umana dall’altra significa dimenticare che l’umanità è parte della natura e che la mediazione materiale di questa relazione, sotto forma di metabolismo/produzione, è sia l’essenza del legame umano con la terra sia la base della contraddizione e del cambiamento storico.
DS e MW: Come ha segnalato, la “frattura metabolica” è un concetto cruciale nel suo pensiero. Nel suo libro scritto con Brett Clark,The Robbery of Nature, lei lo collega a una “frattura corporea” all’interno del corpo umano stesso. Come interpreta la relazione tra queste due fratture? Perché rimangono centrali per comprendere il nostro mondo contemporaneo?
JBF: Il concetto di frattura metabolica di Marx è ora così ben noto ai pensatori e agli attivisti socialisti che non richiede un’analisi dettagliata in questa sede. Esso nasce dalla sua interpretazione del lavoro e del processo di produzione come costitutivi del metabolismo sociale, ovvero del rapporto specificamente umano con il metabolismo universale della natura. Tuttavia, poiché il capitalismo si basa fin dall’inizio sulla duplice alienazione della natura e del lavoro umano e ha come unico oggetto l’accumulazione del capitale, le fratture nel metabolismo umano della natura sono parte integrante del sistema. Marx concettualizzò per la prima volta la frattura metabolica in termini di crisi della fertilità del suolo nell’Inghilterra del XIX secolo, dove le sostanze nutritive del suolo venivano rimosse dalla terra in forma di cibo e fibre, inviate a centinaia e persino a migliaia di chilometri di distanza verso i nuovi centri urbani. Questi nutrienti non tornavano alla terra, ma diventavano rifiuti nelle città, il che ha portato a massicci tentativi di riparare al declino della fertilità del suolo importando fertilizzanti naturali come il guano dal Perù, a cui è seguito lo sviluppo di fertilizzanti artificiali. Fin dall’inizio, quindi, l’ecologia marxiana si è basata sulla nozione di continua interruzione dei cicli biogeochimici insita nel capitalismo.
La frattura metabolica è stata spesso interpretata semplicemente in termini di relazione umana con la natura non umana. Tuttavia gli esseri umani stessi, in quanto esseri corporei, sono una parte emergente della natura e la frattura metabolica si applica anche al corpo umano. Brett Clark e io abbiamo quindi introdotto il concetto di frattura corporea per affrontare questo problema. Ciò è infatti coerente con l’intero quadro concettuale di Marx. Così Marx, riferendosi a La condizione della classe operaia in Inghilterra di Engels, due decenni dopo nel Capitale, sosteneva che lo stesso fenomeno generale di interruzione del metabolismo della natura rappresentato dal commercio del guano fosse rappresentato anche dagli effetti sull’esistenza corporea umana da parte delle periodiche epidemie, facilitate dai rapporti di produzione capitalistici.
Abbiamo quindi sviluppato il concetto di frattura corporea per spiegare come il capitalismo crei fratture nell’esistenza corporea umana, come in ciò che Engels, nel suo La condizione della classe operaia, chiamava “omicidio sociale”. Questo ci ha permesso di studiare, in termini umano-ecologici, questioni storiche concrete quali: (1) lo sfruttamento estremo e la riduzione della vita dei lavoratori; (2) il ruolo della schiavitù (ad esempio, il fatto, discusso da Marx, che i contratti d’asta degli schiavi, tra acquirenti e venditori di schiavi, spesso indicavano che l’aspettativa di vita degli schiavi non superava i sette anni); (3) l’espropriazione del lavoro e dei corpi delle donne associata alle forme capitalistiche di riproduzione sociale; (4) il genocidio storicamente inflitto alle popolazioni indigene; e (5) il ruolo delle pandemie, come nel caso del COVID-19. The Robbery of Nature era particolarmente interessato al concetto di espropriazione di Marx, come base della frattura metabolica nel capitalismo, e al modo in cui ciò influiva sulla corporeità umana. Lo abbiamo chiamato, il problema della rapina e della frattura. Il corpo umano, in questa prospettiva, è esso stesso un luogo (ok) di distruzione ecologica e sociale. Naturalmente, la questione della corporeità può essere applicata anche ai corpi di animali non umani, ma il nostro obiettivo era quello di cogliere le dimensioni corporee della frattura metabolica in relazione agli esseri umani.
DS e MW: Dovremmo allora considerare il concetto di “frattura corporea” come un’estensione e un fondamento scientifico alla nozione di alienazione così come appare nei primi scritti di Marx, forse in modo simile a come egli la descrive in L’ideologia tedesca che riprende il discorso interrotto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 ?
JBF: Se osserviamo la discussione di Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, egli procede dalla sua famosa discussione sull’alienazione del lavoro, agli effetti ambientali e fisiologici di questa alienazione sugli esseri umani. Così scrive dell’operaio industriale: «La luce, l’aria, ecc. – la più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono – cessa di essere un bisogno per l’uomo. La sporcizia – questo impantanarsi e putrefarsi dell’uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà – diventa per l’operaio un elemento vitale. La totale, innaturale incuria, la natura putrefatta, diventa il suo elemento vitale.». Marx sta qui descrivendo una frattura corporea nella vita umana derivante dall’alienazione del lavoro, ma estesa al degrado dell’intera esistenza umana, di tutto ciò che è associato alla vita.
Le interpretazioni della teoria dell’alienazione di Marx sono spesso troppo limitate, concentrate sull’alienazione del lavoro in sé, senza riconoscere la connessione tra l’alienazione del lavoro e l’alienazione della natura e, per quanto riguarda l’umanità, l’estraniazione degli esseri umani dalla loro organizzazione corporea, come esseri viventi, respiranti e oggettivi. Ciò che chiamiamo “distruzione ecologica” si applica propriamente non solo alla natura esterna, ma anche agli esseri umani in quanto esseri corporei. E tutto ciò è ovviamente legato all’alienazione nelle sue dimensioni materiali.
DS e MW: Il suo lavoro sostiene – con Marx – che la frattura metabolica può essere superata solo in una società in cui i produttori associati regolano razionalmente il metabolismo tra umanità e natura. In questo contesto, come vede il rapporto tra conoscenza scientifica e controllo democratico? Attualmente, sentiamo ripetuti appelli ad “ascoltare la scienza” che si combinano con una mentalità tecnocratica spesso sospettosa e ostile alla democrazia. Come possiamo evitare questa trappola?
JBF: Una scienza pienamente razionale è incompatibile con la logica del capitale, il che significa che la scienza, sebbene spesso corrotta e formalmente sussunta dal capitalismo, non può mai essere totalmente sussunta dal capitale, e quindi riemerge spesso come forza anticapitalista. È importante ricordare che Il Capitale di Marx era un progetto scientifico oltre che una critica. Gran parte di The Return of Nature riguarda il socialismo e lo sviluppo della scienza ecologica. Il metodo della scienza in senso lato, cioè il modo in cui Marx ed Engels si riferivano alla Wissenschaft come sistema di apprendimento, conoscenza e scienza, è la base intellettuale di ogni critica. Inoltre, nella visione materialista storica, le principali scoperte scientifiche tendono a provenire dal basso e da punti di vista al di fuori del sistema stabilito, se non altro a causa degli irrazionalismi imposti dalla società borghese, compreso il ruolo dell’idealismo.
Il movimento delle relazioni sociali della scienza, ispirato da The Social Function of Science di J.D. Bernal del 1939, era sostenuto dalla maggioranza degli scienziati britannici dell’epoca, la maggior parte dei quali era di sinistra. Costituì un importante tentativo di sfidare il sistema dal punto di vista della scienza. Fu Bernal a introdurre l’espressione “Scienza per il popolo” nel suo Marx and Science del 1952. Fu in questo periodo che Hogben e Haldane distrussero la teoria genetica della razza e dell’eugenetica in risposta alle distorsioni razziste della scienza e dell’ecologia da parte di personaggi come Jan Christiaan Smuts, in Sud Africa. La stessa rivolta ecologica moderna iniziò negli anni ’50, quando personaggi come Albert Einstein, Bertrand Russell, Linus Pauling, Bernal e Barry Commoner si organizzarono contro i test nucleari atmosferici in seguito al disastro di Castle Bravo. Rachel Carson è nata da questo stesso movimento scientifico. Science and Survival di Commoner, che già negli anni ’60 sollevava la questione del riscaldamento globale, era parte di questa lotta. I movimenti ‘Science for the People’ emersero negli anni ’70 negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Negli Stati Uniti, questo movimento era associato a scienziati radicali di spicco come Richard Lewontin, Richard Levins, Gould e Ruth Hubbard. In Gran Bretagna, Hilary Rose e Steven Rose svolsero un ruolo di primo piano.
Le rivoluzionarie scoperte scientifiche sul cambiamento climatico sono state sviluppate da scienziati dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti, ed hanno immediatamente originato domande radicali sulla produzione contemporanea. Gli studi definitivi sull’inverno nucleare condotti negli ultimi trent’anni nell’ambito della scienza dell’atmosfera, sono stati osteggiati e soppressi dal Pentagono nelle sue trattazioni degli effetti della guerra nucleare, ma ciò nonostante la scienza non può essere negata. La vera scienza ha come base l’autocritica, che si scontra con il potere dell’ideologia.
Ciò non significa, ovviamente, che la scienza non possa essere corrotta in vari modi o manipolata dal sistema o impiegata in modo elitario, formalistico e tecnocratico, e questo è una grande componente della nostra realtà. Il capitalismo necessariamente distorce e corrompe la scienza. Ma è proprio per questo che le lotte sulle relazioni sociali della scienza sono necessarie. È quindi estremamente importante che negli ultimi anni negli Stati Uniti sia stata rilanciata Science for the People come organizzazione e anche come rivista. Senza scienza critica, non ci sarebbe alcuna scienza dell’ecologia e praticamente nessuna possibilità di un efficace movimento ecologista. I marxisti che considerano le scienze naturali come intrinsecamente tecnocratiche, positivistiche ed elitarie, per molti versi rinunciano in partenza alla lotta, che non può essere condotta separatamente dalla scienza. Vale la pena di osservare i diversi atteggiamenti nei confronti della scienza a Cuba, rappresentati, ad esempio, da figure come l’immunologo molecolare Augustín Lage Dávila, co suo articolo Socialism and the Knowledge Economy pubblicato nel numero di dicembre 2006 di «Monthly Review».
DS e MW: E vediamo anche questi approcci elitari e tecnocratici emergere nelle discussioni sul COVID-19.
JBF: In termini di COVID-19, vediamo la manipolazione della scienza da parte dell’establishment in vari modi, a volte per coprire i fallimenti. Ma vediamo anche importanti progressi della scienza che vengono alla ribalta. Il lavoro dell’epidemiologo critico Rob Wallace e dei suoi collaboratori all’interno di Structural One Health, proveniente dalla tradizione storico-materialista, è stato straordinariamente importante per far emergere le radici storiche della pandemia nell’agrobusiness globale capitalista e nei circuiti del capitale, così come i fattori sociali che hanno determinato un impatto sproporzionato sui settori più vulnerabili della società. Possiamo infatti attingere a una lunga storia di contributi socialisti all’epidemiologia, dai tempi di Engels e Marx fino ad oggi, come abbiamo spiegato Brett Clark, Hannah Holleman e io in un articolo apparso su «Monthly Review» nel giugno 2021, intitolato Capital and the Ecology of Disease.
DS e MW: Nel contesto della crisi ecologica, lei scrive dell’importanza di trascendere la forma capitalistica del valore e sottolinea la necessità di produrre valori d’uso che soddisfino i veri bisogni umani. C’è un pericolo di tecnocrazia quando si tratta di determinare e promuovere questi bisogni? Per usare il linguaggio di un altro protagonista di The Return of Nature, William Morris, come facciamo a determinare la differenza tra “la grande quantità di cose inutili” prodotte dal capitalismo e quelle che soddisfano i bisogni reali?
JBF: Viviamo in una civiltà mediata dalla tecnologia, quindi il pericolo della tecnocrazia è sempre qualcosa da cui guardarsi. Ma molto di questo deriva dalla base di classe e dalla struttura gerarchica della nostra stessa società. Il socialismo del XXI secolo richiede uguaglianza sostanziale e sostenibilità ecologica, le quali si oppongono alle strutture tecnocratiche gerarchiche e ai meccanismi del mercato monopolistico capitalista. Dobbiamo ricordare che i nostri problemi più urgenti, oggi, non si prestano a soluzioni puramente tecnologiche, ma hanno a che fare soprattutto con le relazioni sociali. L’istruzione diffusa e il controllo attivo dal basso della società sono fondamentali.
Per quanto riguarda la determinazione di ciò che è inutile, dobbiamo innanzitutto essere in grado di analizzare come le varie merci si inseriscono nella struttura della produzione e dei bisogni sociali. Questo non è così difficile come si potrebbe pensare. Marx è stato il primo a fare riferimento alla “gerarchia dei bisogni”, non Abraham Maslow negli anni ’50. Nelle sue “Note su Adolph Wagner”, Marx scrisse della «gerarchia dei suoi [dell’uomo o dell’umanità] bisogni», a cui si può chiaramente dare “un certo ordine”. Si parte, ovviamente, dai bisogni corporei. Negli Stati Uniti, tre individui possiedono più ricchezza del 60 per cento più povero della popolazione. La disuguaglianza è così grande che i cosiddetti padroni dell’universo, in cima alla piramide di classe, hanno jet privati e possono fare viaggi nello spazio per il brivido di farlo, mentre gran parte della popolazione di un paese ricco come gli Stati Uniti non ha acqua pulita, aria pulita, cibo adeguato e nutriente, alloggi, accesso all’assistenza sanitaria, trasporti, istruzione decente, connettività, ecc. L’acquisizione individuale viene anteposta alle relazioni e ai bisogni della comunità.
È certamente possibile, in una società che afferma l’uguaglianza sostanziale e la sostenibilità ecologica, stabilire che la produzione dovrebbe prima soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e da lì procedere. Inoltre, i bisogni non si presentano solo sotto forma di merci, ma anche sotto forma di comunità, relazioni sociali, istruzione, salute, godimento estetico, emancipazione umana, ecc. I valori d’uso sono essenzialmente qualitativi e non semplici rappresentazioni del valore economico, come nel caso dei valori di scambio. Morris denunciava l’enorme spreco della società e il fatto che le persone fossero costrette a svolgere un lavoro inutile per produrre cose inutili, come «filo spinato, cannoni da 100 tonnellate, insegne nel cielo e cartelloni pubblicitari», sprecando così le loro vite lavorative. Non c’è dubbio che possiamo muoverci di più nella direzione di una produzione razionale ed ecologicamente sostenibile, viste le forme estreme di spreco e distruzione dell’economia contemporanea, che esistono solo per assorbire l’enorme surplus economico del capitalismo e per mantenerlo in vita. Negli Stati Uniti, ogni anno si spendono trilioni di dollari in marketing per convincere le persone a comprare, con il risultato che le persone non hanno bisogno di ciò che vogliono né vogliono ciò di cui hanno bisogno.
DS e MW: Potremmo allora dire che il controllo democratico dal basso è esso stesso un bisogno, o forse che è un requisito necessario per articolare e identificare i nostri bisogni di relazioni sociali, comunità, empowerment, ecc.?
JBF: Sono d’accordo in termini generali, ma tale “controllo democratico dal basso” in qualsiasi significato reale è impossibile sotto il capitalismo. Né, chiaramente, era realizzabile nelle società di tipo sovietico. In una prospettiva socialista a lungo termine, sarà necessario tornare alla nozione di “estinzione dello stato”, visto come una struttura gerarchica al di sopra della società. Nella sua opera postuma pubblicata recentemente Beyond Leviathan: Critique of the State, Mészáros invoca la “progressiva requisizione dei poteri decisionali alienati» da parte della società nel suo insieme, rappresentata dal «produttore autogestito liberamente associato».
DS e MW: Sembra che negli ultimi anni i politici e i teorici della sinistra radicale abbiano finalmente iniziato a prendere coscienza della crisi climatica, e c’è un vivace dibattito sia sulla strategia (Green New Deal, decrescita, climate jobs, leninismo ecologico) che sulla tattica (azione diretta, elettoralismo, ecc.). Dove vede oggi la maggior speranza di riparare la frattura metabolica?
JBF: Per quanto riguarda i «teorici della sinistra radicale che finalmente si sono messi al passo con l’urgenza della crisi climatica», è importante capire che i pensatori di sinistra sono stati leader nell’affrontare la crisi climatica fin dagli anni ’60 e ’70. Si possono citare i socialisti come Commoner, Virginia Brodine, Charles Anderson e persino Jürgen Habermas, che hanno sottolineato i pericoli del cambiamento climatico alla fine degli anni ’60 e ’70. Il libro di Anderson, ispirato in parte da Commoner, si intitolava The Sociology of Survival e prendeva sul serio i temi del riscaldamento globale e del debito ecologico. Naturalmente, all’epoca la maggior parte della sinistra ignorava questi temi, così come la società nel suo complesso. Tuttavia, non si può dire che i pensatori socialisti siano rimasti indietro nello sviluppo delle idee ecologiche, sorte soprattutto a sinistra.
Nel 1994 ho affrontato il tema del cambiamento climatico e l’intera questione dell’interruzione dei cicli ecologici della terra col mio libro The Vulnerable Planet e da allora ho ampliato tale analisi. Ovviamente, il cambiamento climatico è solo una parte della nostra crisi ecologica planetaria, contrassegnata dal superamento di numerosi limiti planetari oltre i quali la Terra non è più una casa sicura per l’umanità. Ciò significa che la crisi dell’Antropocene va ben oltre il cambiamento climatico stesso.
In merito al dibattito sulla strategia, molti non riescono a cogliere l’urgenza del problema o la portata del cambiamento necessario. L’idea di un Green New Deal è nata all’interno del tradizionale mainstream liberale/neoliberale ed è stata fortemente promossa da alcuni interessi commerciali. Barack Obama l’ha persino inclusa nel suo programma quando si è candidato alla presidenza nel 2008, ma l’ha abbandonata dopo essere stato eletto presidente. In generale, è vista come una forma di keynesismo verde. U.S. Green Party [Partito Verde degli Stati Uniti] gli ha dato una forma più radicale, sostenendo una giusta transizione e ponendo le comunità in prima linea, e in seguito è stato adottato, in forma annacquata, dalla sinistra del Partito Democratico. Una versione più rivoluzionaria è concepita nei termini di un People’s Green New Deal come originariamente proposto da Science for the People, che ho sostenuto in un articolo intitolato On Fire This Time su «Monthly Review» del novembre 2019. Max Ajl ha reso un servizio nel promuovere l’idea di un People’s Green New Deal. Forse la prospettiva più profonda e onnicomprensiva in questo senso si trova nel Red Deal della Red Nation, proposto da attivisti socialisti indigeni degli Stati Uniti.
L’analisi della decrescita è trattata in modo analogo, da approcci che illogicamente la percepiscono come compatibile con il capitalismo (come Serge Latouche), fino agli approcci ecosocialisti. A proposito di questi ultimi, abbiamo pubblicato For an Ecosocialist Degrowth di Michael Löwy, Bengi Akbulut, Sabrina Fernandes e Giorgos Kallis nel numero di aprile 2022 di «Monthly Review».
Andreas Malm sostiene dal 2015 la strategia del comunismo di guerra e del leninismo ecologico, come chiarisce nel saggio che ha scritto sull’argomento per un libro intitolato The Politics of Ecosocialism, curato da Kasja Bornäs – libro al quale ho contribuito anch’io. Il suo approccio è indubbiamente provocatorio ed è superiore ad altre impostazioni in quanto si basa sul riconoscimento della totale gravità, dell’immensa portata e dell’urgenza senza precedenti del problema, e sull’idea che l’unica via d’uscita sia la trasformazione rivoluzionaria. Il suo libro più recente in questo senso è Fighting in a World on Fire (2023).
Il mio approccio generale per affrontare il pericolo della frattura planetaria, come nel mio libro Capitalism in the Anthropocene, pubblicato da Monthly Review Press nel 2022, differisce, ma non è in conflitto, con le strategie più radicali di cui sopra. Non mi sono preoccupato di sostenere un particolare meccanismo politico-istituzionale, quanto piuttosto di guardare a ciò che deve essere fatto per la sopravvivenza della civiltà e dell’umanità e di evidenziare la necessità di una rivoluzione ecologica e sociale, che andrebbe necessariamente al di là di tutto ciò che l’umanità ha mai visto precedentemente. Una tale rivoluzione ecologica e sociale planetaria dovrebbe basarsi su quello che ho definito un «proletariato ambientale» che rispecchi una lotta materiale più ampia e profonda, che abbracci non solo la classe operaia, concepita in termini più ampi e incentrata sulle lotte ambientali (urbane e rurali) e sui luoghi di lavoro economici, ma che includa anche il brasiliano Movimento dei Lavoratori Senza Terra (MST) e movimenti simili, i contadini internazionali e le popolazioni indigene. È molto probabile che il proletariato ambientale, visto in questi termini profondamente materialisti, emerga come movimento rivoluzionario vitale del Sud globale prima che nelle roccaforti del capitalismo nel Nord globale. Tuttavia, la natura della crisi ambientale planetaria è tale che il luogo del conflitto non sarà limitato a nessuna parte specifica del pianeta. Né si possono trovare soluzioni praticabili a livello planetario se l’umanità non si mobilita ovunque per combattere la tendenza del capitalismo a produrre una «frattura irreversibile nel processo interdipendente del metabolismo sociale».
La dimensione del conflitto che abbiamo di fronte, e che eclisserà tutti i movimenti e le rivoluzioni precedenti, è così enorme che mobiliterà, necessariamente, centinaia di milioni e persino miliardi di persone e non ha senso spingersi troppo in là nel delineare la mappatura di particolari soluzioni istituzionali, orientamenti statali, che saranno un prodotto del conflitto stesso e che varieranno da luogo a luogo rappresentando declinazioni rivoluzionarie diverse. Tuttavia, è probabile che il conflitto, almeno nel centro capitalista, avrà due fasi; la prima sarà ecodemocratica, finalizzata a una sorta di fronte popolare ecologico diretto contro le compagnie dei combustibili fossili e il capitale finanziario, ma che punta in una direzione ecosocialista poiché contraria alla logica del capitalismo; la seconda assumerà una forma in cui l’ecosocialismo sarà dominante, se si vuole avere qualche speranza. Ciò che è certo è che dobbiamo abbandonare l’accumulazione di capitale come guida della società. Come indicava chiaramente il rapporto trapelato dell’IPCC del 2022 sulla mitigazione del clima, concordato dagli scienziati prima che fosse pubblicato nella versione censurata da parte dei governi, ciò che è necessario a questo punto è l’adozione di nuove soluzioni a basso consumo energetico, che richiedono grandi cambiamenti nella struttura delle relazioni sociali.
Nel loro insieme, le varie parti del Sesto rapporto di valutazione dell’IPCC del 2021-22 ci dicono che, anche nello scenario più ottimistico, i prossimi decenni saranno catastrofici per gran parte dell’umanità. La violenza del cambiamento climatico si sta ormai abbattendo sulla popolazione mondiale. È ancora possibile, attraverso trasformazioni rivoluzionarie nella produzione, nel consumo e nell’uso dell’energia, evitare una catastrofe climatica irreversibile. Tutto questo richiede che le emissioni di anidride carbonica raggiungano il picco in questo decennio e che si raggiungano emissioni nette pari a zero entro il 2050. L’obiettivo è quello di rimanere ben al di sotto di un aumento di 2°C della temperatura media globale, e di mantenere il trend di 1,5 °C (il che significa non superarlo fino al 2040 e tornare a un aumento di 1,4°C entro la fine del secolo). Tuttavia, anche in questo caso, le catastrofi che minacciano gran parte della popolazione mondiale saranno inedite rispetto a tutta la precedente storia umana.
In queste circostanze abbiamo spostato la nostra attenzione, come rappresentato dal nostro Socialism and Ecological Survival sul numero di luglio-agosto 2022 di «Monthly Review», dalla semplice enfasi sulla mitigazione del cambiamento climatico a ciò che le comunità e le popolazioni devono fare per proteggersi nel presente e nel futuro, utilizzando strategie ecosocialiste radicali e rivoluzionarie. La nostra speranza è che, mentre le persone si mobilitano contro le condizioni ambientali prodotte dall’attuale sistema sociale che minaccia sempre più le loro vite, siano anche animate a proteggere la Terra come casa per l’umanità, portando avanti una rivoluzione ecologica e sociale mondiale, la cui forma effettiva è ancora da definire. Questo è il grande conflitto del XXI secolo: un conflitto contro l’omicidio ecologico su scala planetaria, o omnicidio.
Note
[1] N.d.T. «Con inverno nucleare si intende un periodo di prolungato raffreddamento del clima che si ipotizza possa venire causato da un’eventuale guerra termonucleare su larga scala. L’ipotesi è basata sulla previsione che le larghe tempeste di fuoco causate da un simile conflitto porterebbero grandi quantità di fuliggine nella stratosfera, bloccando per un certo periodo di tempo il passaggio di parte della luce solare». (Wikipedia)
[2] N.d.T. Le prime quattro citazioni seguenti tratte da Storia e coscienza di classe sono contenute nella nota 7 a pag. 6 dell’edizione degli Oscar Studio Mondadori, Milano, febbraio 1973.
John Bellamy Foster, Dan Swain e Monika Woźniak
Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org
Fonte: Monthly Review,vol. 74, n. 11 (01.04.2023)
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