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Elezioni turche. Una testimonianza in presa diretta

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo reportage sulle elezioni in Turchia

In occasione delle elezioni amministrative turche del 31 marzo 2019, l’HDP (People’s Democratic party) ha lanciato un appello internazionale di solidarietà per osservatori elettorali. Così, risondendo all’appello di Rete Kurdistan Italia, sono partito insieme a due compagne solidali come volontario indipendente per Amed (il cui nome ufficiale in turco è Diyarbakir), capoluogo del Bakur, nonché principale città del Kurdistan turco.

Le elezioni appena svolte rappresentano un fondamentale crocevia del panorama politico turco e della parabola al potere di Erdogan, già prima delle elezioni in una fase di forte crisi del consenso. La grave situazione economica e monetaria in corso in Turchia ha infatti fortemente minato la possibilità del sultano di vincere le elezioni e mantenere il controllo sulle città più importanti come Istanbul e Ankara.

In questo panorama, la città di Amed (Diyarbakir) rappresenta la roccaforte curda e, dunque, dell’HDP, ampiamente maggioritario in città e nella regione. Qui il partito ha la sua sede principale e organizzativa, alla quale facevano riferimento tutti gli osservatori internazionali, giunti per la maggior parte dall’europa. Erano presenti anche parlamentari tedeschi e norvegesi, attivisti francesi, islandesi e un membro del partito comunista colombiano. In totale il programma comprendeva centodieci persone, di cui quattordici sono state bloccate all’ingresso in Turchia e rimpatriate.

Lo scopo della nostra presenza e del programma di osservazione elettorale, non era solo quello di rendere le elezioni quanto più visibili e trasparenti, ma soprattutto quello di rompere l’isolamento mediatico in atto nel Kurdistan turco, in opposizione alla repressione politica, materiale e culturale che ancora oggi nega l’esistenza dello stesso territorio e ne perseguita la popolazione.
Già dopo le elezioni del 2015, praticamente tutte le città dove aveva vinto l’HDP sono state commissariate e i sindaci arrestati; decine di migliaia di persone sono state rimosse dai loro incarichi pubblici per motivi politici e gli attivisti arrestati, di cui circa 3000 in isolamento, riempiono le carceri. Un mese prima delle elezioni sono stati arrestati numerosi candidati in vari distretti del Bakur, sempre con la scusa di intrattenere rapporti di carattere terroristico con il PKK.
Erdogan, presente sui cartelloni e manifesti in tutta la città, è il quasi esclusivo protagonista dei media nazionali, monopolizzando il discorso pubblico e incitando apertamente all’odio verso un intero popolo, di cui non solo non si riconosce l’identità, ma che viene anche additato di terrorismo, quando è stato quello stesso popolo, appena poche settimane fa, a distruggere definitivamente l’Isis. Anche per questi motivi le contro-campagne mediatiche utilizzano quasi esclusivamente i social e le reti interpersonali per sostenere le lotte in atto e creare solidarietà. Tra queste la più ampia e importante è sicuramente lo sciopero della fame per i diritti e la liberazione di Ocalan, iniziato da Leyla Guven ormai più di 150 giorni fa. Lo sciopero coinvolge circa 700 prigionieri e diversi parlamentari, dei quali siamo riusciti a incontrarne tre nella sede del partito, insieme alle altre delegazioni; il 30 marzo erano al ventisettesimo giorno ma ci hanno tenuto ad incontrarci e spiegare le ragioni e le modalità di questo sciopero.

Date le premesse, il ruolo di osservatori sarebbe dovuto consistere nel visitare i seggi del distretto assegnato ad ogni gruppo verificando le condizioni di voto. In particolare, questo significava rilevare la presenza di forze di polizia o militari dentro ai seggi, il verificarsi di episodi violenti e la regolarità del processo elettorale nella fase di voto. La nostra presenza quali esterni ed europei risultava infatti scomoda e sgradita, pur nello specifico non avendo noi una copertura diplomatica o ruolo istituzionale di alcun tipo, in quanto avrebbe reso più difficili, se non impraticabili, azioni di intimidazione e brogli da parte delle autorità e dei militanti dell’AKP.

A questo fine, il 31, giorno delle elezioni, ogni delegazione è stata inviata nei diversi punti d’interesse. La destinazione assegnata al gruppo di cui facevo parte è stata Kulp, una cittadina di circa trentacinque mila abitanti, tra le montagne a nord-est a 140km da Amed. Accompagnati da due attivisti del partito, rispettivamente un autista ed un interprete, siamo arrivati intorno alle 11 del mattino dopo due ore di viaggio. Già all’uscita dalla città e per tutto il tragitto, man mano che si prosegue i check point si fanno più frequenti: trincee di sabbia, carri blindati, mitragliatrici e jersey disposti a zig-zag. Dopo più o meno metà del tragitto, si poteva notare una crescente e diffusa militarizzazione salendo verso la montagna. Ogni decina di chilometri spunta in cima ai poggi un forte con mura, filo spinato e torrette di guardia, debitamente blindato.
Arrivati in città siamo andati alla sede del partito per incontrare i locali del luogo ed essere aggiornati dagli attivisti sullo stato delle votazioni in quelle zone fino a quel momento. Alle 11 del mattino, dei 35mila abitanti, avevano votato circa 20mila persone e non c’erano stati episodi di violenze o intimidazioni espliciti. Parlando con alcuni militanti e anziani ci hanno spiegato che in quelle zone le pressioni non vengono esercitate tanto in città quanto nei villaggi circostanti. Il ridotto numero di case e di abitanti rende infatti più facile individuare le intenzioni di voto, praticare indisturbati repressione e brogli, il tutto lontano dai riflettori internazionali. La visita a due dei sei seggi in città non ha dato modo di osservare alcuna violenza e irregolarità, né una presenza massiccia ed eccessiva di forze dell’ordine. L’affluenza era alta e le scuole in cui si votava erano affollate nonostante la pioggia. Poco prima di mezzogiorno il compagno e traduttore che ci accompagna riceve una chiamata: in un villaggio vicino le guardie locali stanno forzando le persone dentro ai seggi a votare scoperto; la candidata sindaco per quel villaggio e l’avvocato dell’HDP si sono recati sul posto per condannare ed annunciare l’irregolarità in corso ma sono stati bloccati all’ingresso dalle suddette guardie e alcuni militanti dell’AKP (il partito di Erdogan) e aggrediti fisicamente. È stato possibile incontrare brevemente la candidata appena uscita dall’ospedale, mentre tornava al villaggio per verificare la situazione e mostrare la propria determinazione e l’inefficacia delle intimidazioni.

Al ritorno, dopo un confronto con le altre delegazioni, è stato possibile percepire un quadro più vasto e l’ampiezza dell’azione repressiva, come questa agisse nella penombra su tutto il territorio. La maggior parte dei gruppi aveva subito pressioni o controlli dalle autorità, alcuni sono stati perquisiti e altri trattenuti in commissariato. In tutto il paese, sei persone sono rimaste uccise nei vari scontri tra attivisti ed opposizioni, decine ferite. Ma la repressione non si è fermata con la chiusura dei seggi: in particolare a Diyarbakir, nella notte l’esercito è intervenuto con la forza contro la popolazione scesa in massa per le strade a festeggiare la vittoria.

Per quanto riguarda le elezini in quanto tali, in Bakur, nonostante le centinaia di arresti nei mesi precedenti, l’HDP ha vinto con ampio margine ad Amed e in tutta la regione, dimostrando una forte reazione sul territorio e una grande capacità di resilienza, non solo sociale, ma anche politica ed organizzativa.
Nonostante il mastodontico apparato di repressione e manipolazione mediatica messo in campo da Erdogan, queste elezioni hanno segnato certamente un duro colpo per l’AKP, che ha perso le città più importanti come Istanbul e Ankara e ha visto calare il suo consenso in tutto il paese, nonostante rimanga il primo partito del paese. Chi ne ha giovato sono stati sicuramente, tra gli altri, i repubblicani Kemalisti, che rappresentano comunque un elettorato nazionalista, ma laico.

La vittoria delle opposizioni è certamente un segnale importante e una fondamentale crepa nella struttura e capacità di governo di Erdogan, che, già in difficoltà a livello economico, sarà difficilmente in grado di mantenere e tantomeno consolidare il proprio potere, se non tramite una forzatura.
Due elementi appaiono allora evidenti e degni di nota nell’immediato: primo, arriverà sicuramente una reazione da parte del sultano, che verosimilmente comprenderà la contestazione dei risultati elettorali e un inasprimento della coercizione. Secondo, come solidali alla causa curda, è fondamentale capire quali forze parlamentari hanno maggiormente approfittato di questi risultati e come questi si possano configurare in nuovi equilibri di governo. Non bisogna scordare infatti l’orizzonte politico turco, dove le forze nazionaliste rimangono in ogni caso preponderanti e assolutamente chiuse, per usare un eufemismo, alla causa curda.

Tuttavia, nonostante la ‘battaglia elettorale’ appena svolta, la lotta del popolo curdo è ben lungi dall’essere conclusa. È allora fondamentale sostenere la causa curda e diffondere quanto più possibile le istanze di un popolo che, al momento, rappresenta l’avanguardia politica più forte e interessante del pianeta e della storia recente. Un popolo dal quale abbiamo tutto da imparare e molto da condividere. A partire dal ruolo centrale delle donne nella comunità e nella vita politica, sicuramente uno degli elementi più forti della realtà curda, in cui è ben visibile una coesione sociale che va ben oltre la partecipazione elettorale e che coinvolge ogni generazione e famiglia, in un tessuto sociale ricco di vita e consapevolezza. La forza e il valore della causa curda non risiedono però solo negli elementi di coesione identitaria e storica, quanto nella trasversalità e lungimiranza delle sue ragioni, della portata e potenza dei suoi ideali e, soprattutto, nella sua capacità di uscire dai confini imposti e parlare a tutto il mondo, alle generazioni passate e future, a donne e uomini. Parlare di una rivoluzione non solo possibile, ma realizzabile, in atto nonostante il deserto che il regime di Erdogan e i media internazionali hanno costruito tutt’intorno. È una forza reale, una forza storica creatasi in anni e anni di lotte quotidiane e costruzione dal basso, grazie al sacrificio di migliaia di donne e uomini, spinti dalla consapevolezza che un altro modello non è solo possibile, ma praticabile. Un nuovo modello di società che non verrà calato dall’alto, ma va conquistato passo a passo in modo lucido e determinato, ogni giorno, in ogni lotta.

La parte forse più difficile è riuscire a riportare questo genere di esperienze nella propria realtà e trasformarle in consapevolezza. Consapevolezza che la lotta paga, ma non è né semplice, né breve, né indolore. Richiede un impegno costante, un sacrificio incalcolabile di tempo ed energie, ma soprattutto, si nutre e vive di solidarietà.

Biji Biji Kurdistan!

 

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