Esiste ancora il sud?
In commento ai risultati delle elezioni politiche viene riproposta, sui social e sui media, l’attualità della “questione meridionale”. La rappresentazione delle “due italie” divise tra due populismi diventa l’occasione per la riproporre il solito campionario di stereotipi sullo sviluppo e il sottosviluppo del mezzogiorno.
Proponiamo un estratto da Perchè non possiamo non dirici “indipendentisti” di Lanfranco Caminiti, uscito a Gennaio per DeriveApprodi per stimolare un raggionamento collettivo oltre le narrazioni tossiche di questi giorni:
“La “questione meridionale” nasce (…) con la nazione-Italia, ne è costitutiva. Ne ha sempre rappresentato lo “scandalo”, declinato in forma diversa dal pensiero progressista o conservatore. Essa ha assunto, nel corso del tempo, ora i caratteri della “questione sociale” ora quelli della “questione criminale”, a volte le due cose sovrapposte. La “mondernizzazione” del paese-Italia, la sua presentabilità nel consesso europeo, è sempre passata attraverso la questione meridionale. Il Sud è stato quindi, di volta in volta, terra d’occupazione militare, motore di sviluppo, area di consumo di merci e servizi, riserva di forza-lavoro, zona di investimenti, risorse di risparmio e fiscali e finanziarie da prosciugare, zona di elargizione per clientele “nazionali”. A volte questa e quella cosa insieme. La narrazione democratica e progressista dei “grandi interventi” per il sud (le riforme agrarie, le autostrade, l’industrializzazione, la grande distribuzione e infine l’università), per quanto affabulatoria, ha lasciato ora posto al silenzio. La fine di ogni interesse nazionale verso la questione meridionale come questione sociale rappresenta perciò la fine del “patto costitutivo” e del “compromesso storico” della nazione-Italia, per come andata configurandosi per la fine dell’Ottocento e tutto il Novencento. Precipitata la questione meridionale, l’Italia non ha più avuto un “modello di sviluppo”.
Prima con la “guerra di camorra” degli anni ottanta e poi con la “guerra di mafia” degli anni novanta e infine con l’emergere della ndrangheta come grande organizzazione criminale nazionale e internazionale, la questione meridionale ha assunto i caratteri principali di “questione criminale”. Il territorio meridionale è descritto come infetto, malato, corrotto, colluso, e le sue istituzioni amministrative sempre da guardare con occhio sospetto. Dallo scandalo si è passati all’amministrazione ordinaria, benché d’emergenza. Le note dei prefetti sono le stesse dell’Ottocento – e spesso a più fosche tinte. È un “ecosistema sociale” inquinato. La caduta di ogni provvedimento economico e sociale a favore del Sud – spesso motivato proprio paventando il pericolo di alimentare la criminalità – lascia posto solo per una governance “di polizia”, con interventi a maggiore o minore intensità.
Il rapporto Nord-Sud si configura quindi ormai solo intorno alla “legalità”. E gli intellettuali meridionali producono analisi e “narrazioni” al cui centro stanno come protagonisti del riscatto poliziotti e magistrati (di cui, qui, certo non si discute il valore professionale o umano), comunque individui, in quanto figure dello Stato, quando un tempo erano braccianti e contadini, in quanto classe. Anche al Nord c’è una questione legalità, ma in quanto la criminalità che corrompe le istituzioni e si insedia nel vivere sociale è agita dalle organizzazioni criminali del Sud: la linea della palma è avanzata e va estirpata. Il Nord è custode e portatore di legalità, il Sud è il baricentro della criminalità. In questo quadro, lo “spirito nazionale” pubblico al Sud si incarna nella professione di legalità, l’antimafia- manifesta, esibita o contraffata- come unica chiave di lettura del terittorio. I più “meridionalisti” sarebbero così prefetti, magistrati della Direzione distrettuale antimafia e carabinieri, che di fatto svolgono il principale, e a volte unico e di ultima istanza, lavoro politico e amministrativo sul territorio.”
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