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Semaforo giallo verde

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Mentre la cosa populista muovi i primi passi nella melma post-elettorale, avanziamo alcune considerazioni, a mò di appunti, dello strano viaggio che il sistema politico-istituzionale sta attraversando in queste settimane. 

I binari sono chiari li ha ripetuti da Mattarella: si resta nei solchi ben definiti della fedeltà atlantica e dei vincoli di bilancio. I giornali parlano di ministeri chiave già bloccati dal presidente della Repubblica (economia, difesa, giustizia) mentre i nomi che circolano per la presidenza del consiglio evocano eminenze grigie da deep state, veri rappresentanti della politica sotto il teatrino della politica: ex manager, diplomatici e altre figure “istituzionali”. Tanto, poi, se non funziona la carota c’è sempre il bastone dei “mercati”. Alcuni commentatori si sono sorpresi del repentino rientrare dell’ossimoro del governo “neutrale”, annunciato da Mattarella lunedì scorso. Ma l’opposizione tra governo tecnico e politico, per come si sta configurando questo esecutivo, sarà più di lessico che di fatto.

È evidente chi ha lavorato in queste settimane per questo risultato. Quelli che tostavano i pop-corn, certo, dando il proprio decisivo contributo ad assemblare il Frankenstein elettorale. Dateci il mostro da deridere e da trafiggere, tanto è già in gabbia. Ma attribuire l’alleanza giallo-verde al rifiuto di Renzi di derenzizzare il partito e aprire ai 5 stelle, sarebbe fargli troppo onore e troppo torto. C’è da far scoppiare il bubbone populista, questo lo hanno capito tutti, a partire da Mattarella.  Luigi Di Maio, nello scorso settimane, ammoniva che lasciare il M5S fuori dalle stanze dei bottoni ancora una volta avrebbe lanciato un pessimo segnale all’Italia arrabbiata e frustrata, minacciando poi di “chiamare in causa i cittadini in altri modi…”. Lasciando perdere il Pierino di Maio che grida al lupo, è evidente però che c’è necessità di far rientrare alcune spinte dentro dentro l’alveo istituzionale, l’anti-politica nella politica. Attenzione, non si tratta di un processo dialettico, di una lunga marcia dentro le istituzioni del Movimento 5 stelle e del suo pur liquido “blocco sociale di riferimento”. La questione è dare uno sbocco nello spettacolo alla rappresentazione di certe istanze. I due poltronisti, Di Maio e Salvini, capitavano a proposito. 

Leggere il Corriere della sera, in questi giorni, è pedagogico. Nessuno più di chi è vicino alle élite si rende conto di quanto sia profonda la crisi delle classi dirigenti del nostro paese. Non si può andare avanti come prima. Oggi, proprio sul Corriere, c’è un editoriale di Mauro Magatti, professore alla Cattolica di Milano. Magatti senza nominarla, compone, a mo di puzzle, l’immagine dell’elefante non tanto nella Camera (dei deputati) ma nella stanza del capitalismo italiano: la crisi della società salariale, nel senso di società che ha fatto della forma salario  – nel suo doppio carattere subordinazione e contropartita nell’accesso ai consumi – il principale dispositivo di integrazione sociale (lui direbbe, cittadinanza). I dati parlano chiaro. Il numero di occupati è tornato ormai a livelli pre-crisi ma un lavoro a termine su due non supera i sei mesi mentre per il 75% delle persone il part-time è una scelta obbligata. 

Tanti commenti si stanno soffermando sulla vicinanza della Lega salviniana e del M5S. Gli uni sottolineano le affinità, da sempre denunciate, di due partiti proto-fascisti e autoritari. Gli altri mettono in avanti le divergenze tra i due contenitori con una storia per certi versi incompatibile. È far finta di non sapere che, nell’esplosione politica dalla Seconda repubblica in poi, nessun partito rappresenta non diciamo neanche un progetto a cui aderire ma nemmeno una squadra di calcio per cui tifare. I partiti sono degli autobus che gli elettori prendono per qualche fermata sperando che li portino dove vogliono. La meta non è certo il conflitto di interessi e la legge sulla corruzione (come vaneggia da giorni un imbarazzante Marco Travaglio) ma più soldi. Tutto il programma dei gialli e dei verdi, da diverse angolature, non fa che parlare di questo. Il reddito di cittadinanza, la flat tax, la casta persino, ahinoi, la questione migranti non è stata declinata che come la possibilità di disporre di maggiori risorse. È evidente che le mirabolanti promesse di Lega e 5 stelle in materia di welfare e tasse non saranno mai realizzate (non ci credono né Salvini né Di Maio e l’uno sarà l’alibi dell’altro). Opportunamente edulcorate, però, rappresentano soluzioni inevitabili. Da una parte una piccola redistribuzione di reddito che faccia da tampone a un lavoro sempre più povero e frammentato e al contempo mantenga una minima cittadinanza economica davanti allo sganciarsi dalle istituzioni di interi territori (soprattutto al sud) e settori sociali. Non reddito di cittadinanza ma una riforma e/o allargamento del reddito di inclusione, già auspicata per altro dallo stesso PD. Dall’altra, un deciso intervento sulla fiscalità che contribuisca a rinforzare quella che in fondo è sempre stata la porta di uscita dalla crisi del capitalismo italico dagli anni 80 in poi, ossia quella che afferisce alle varie forme di auto-imprenditorialità: piccolissime attività, false partite IVA, lavoro para-subordinato etc. Una ricetta mica male. A cui si aggiungerà un terzo ingrediente, quello, in fondo più filoeuropeista di tutti: la “stretta” sui migranti. Il razzismo, si sa, fa bene agli elettori e non costa nulla.

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