Estrattivismo, conflitti, resistenze
[Il 20 febbraio verrà inaugurato il portale ECOR.network – Extractivism, COnflicts, Resistances. Di seguito ne anticipiamo l’articolo di apertura. Alexik]
ECOR.network nasce come spazio di dibattito e approfondimento sull’aggressione del profitto contro i territori, e di informazione sui movimenti di resistenza.
Si occuperà di tutte le forme di espropriazione attuate, in contesti rurali e urbani, in funzione dell’accumulazione del capitale, con tutti i loro annessi in termini di devastazione ambientale e sociale.
Quella devastazione che avanza con la continua espansione dell’estrazione mineraria e dei combustibili fossili, con l’estendersi della frontiera agroindustriale, col proliferare della speculazione urbana, o con la costruzione di grandi reti infrastrutturali, funzionali alla spoliazione sia di comunità locali che di interi continenti.
Una rapina crescente delle risorse di tutto il mondo, che è necessità strutturale e condizione di esistenza di questo sistema di produzione. Lo accompagna fin dalla sua nascita – più o meno cinque secoli fa – dai tempi in cui è iniziata l’espropriazione delle popolazioni rurali nella vecchia Europa e la depredazione di ogni terra che si trovasse malauguratamente sulle rotte delle aggressioni coloniali.
Procede oggi attraverso gli interventi militari o il ricatto del debito, i programmi di aggiustamento strutturale, gli accordi di libero scambio, le ondate speculative guidate dagli hedge funds. Ultimamente, anche seguendo le strade – solo apparentemente armoniose – della nuova via della seta.
La profondità di questa rapina trova una parziale espressione nei dati dell’UN International Resource Panel sull’estrazione delle risorse del pianeta che ha raggiunto nel 2017 il livello insostenibile di 90 miliardi di tonnellate all’anno.
Il grafico rende evidenti le fasi di crescita dell’estrazione globale nell’ultimo mezzo secolo: quella degli anni ’80 e ’90 del novecento, indotta dalle politiche neoliberiste dettate dal ‘Washington Consensus’, che va a sommarsi, alla vigilia del nuovo millennio, all’enorme processo di accumulazione che ha proiettato la Cina sulla strada dell’egemonia nell’economia mondiale.
Un cambiamento epocale, quest’ultimo, che ha prodotto nel paese asiatico sconvolgimenti sociali ed ecosistemici inimmaginabili in un arco di tempo così limitato, e che ha richiesto, e continua a richiedere, quantità smisurate di materie prime, attraverso la crescita esponenziale sia dell’estrazione interna che delle importazioni.
Per dare un’idea della grandezza del fenomeno, nel 2018 il 79 % della lignite immessa sul mercato mondiale era destinata in Cina, così come il 94% del torio, il 71% dell’antimonio, il 64 % del cobalto, il 53% dello stagno, il 57% dell’alluminio, il 56 % della soia (e potremmo continuare).
Una pressione gigantesca sulle materie prime, che si addiziona a quella esercitata sia dai paesi emergenti che di vecchia industrializzazione, e che complessivamente va a gravare sui territori vittime di estrazione, sulla loro natura e sulle comunità umane che li popolano.
Sullo sfondo, foreste che bruciano, specie viventi che si estinguono, la temperatura del pianeta che sale.
Eppure l’inversione di tendenza non è all’ordine del giorno nemmeno a fronte dell’imminente catastrofe climatica, che diventa, al contrario, nuovo pretesto per il rilancio dell’accumulazione.
E’ di pochi giorni fa, infatti, la predizione di Goldman Sachs dell’inizio a breve di un nuovo “superciclo” delle commodities, cioè un forte aumento strutturale della domanda (e dei prezzi) delle materie prime, trainato dalla transizione energetica.
La green economy ha infatti un immenso bisogno di rame per “elettrificare il mondo”, di “critical raw materials” (dal litio, nichel e cobalto per le batterie, al silicio per il fotovoltaico), ma anche dei classici ferro, cromo, nichel per l’acciaio delle pale eoliche, del cemento per i plinti che le sostengono e di altro cemento per la costruzione delle grandi dighe, oltre a tutte le materie prime necessarie alla sostituzione dell’intero parco degli autoveicoli, e tanto altro. Tutta questa estrazione necessita a sua volta di energia.
Non è un caso che Goldman Sachs preveda un aumento della domanda e del prezzo del petrolio a breve e medio termine.
In pratica, proprio nel momento in cui dovremmo porre freno alle pressioni sul pianeta, la gestione capitalistica della transizione energetica spinge sull’acceleratore.
Genera una nuova fase di sviluppo dell’estrazione mineraria, del fracking, della costruzione di gasdotti (visto che il gas viene considerato come “combustibile di transizione”), che si accompagna all’estendersi del gigantismo idroelettrico, dei grandi campi di eolico e fotovoltaico, gestiti dalle multinazionali dell’energia.
Impianti anche a fortissimo impatto ambientale, costruiti per la produzione di un’ “energia rinnovabile” che, a giudicare dalle previsioni dell’OPEC fino al 2040, andrà ad aggiungersi, e non a sostituirsi, a quella prodotta coi combustibili fossili, all’interno di una tendenza complessiva di forte crescita per entrambe.
Parallelamente la retorica green non serve a fermare la produzione di normative a favore dell’agroindustria, adottate in gran parte del mondo in questi mesi di pandemia, dall’Unione Europea all’America Latina, nonostante l’impatto sul clima dell’agricoltura industriale e degli allevamenti intensivi sia universalmente riconosciuta. Il sospetto è che anche questo sviluppo possa essere soggetto a operazioni di greenwashing, visto che potenzialmente apre nuovi spazi per un aumento della produzione di biocombustibili e di biomasse, entrambi classificati fra le energie rinnovabili.
Vale a dire: nuova pressione sui suoli, sottratti alla produzione di cibo, nuova distruzione di biodiversità, nuova deforestazione.
Lungi dal condurci fuori dalla crisi climatica, la transizione energetica sembra studiata apposta per aggravarla, oltretutto in nome degli obbiettivi degli Accordi di Parigi (perché la via dell’inferno, si sa, è sempre lastricata di buone intenzioni).
Questa breve analisi tratteggia solo alcune caratteristiche del nostro futuro prossimo, prefigurando l’estensione dello sfruttamento dei territori e la violenza con cui verranno imposte nuove devastazioni.
Violenza che sta crescendo, sia nelle forme ‘ufficiose’, con l’aumento delle esecuzioni extragiudiziali di militanti sociali e ambientalisti di Asia, Africa e America Latina, sia nelle forme ufficiali della repressione di piazza, della criminalizzazione giudiziaria e del carcere per chi si oppone.
Questo rimanda al ruolo degli Stati come guardiani e garanti dell’accumulazione e come artefici delle strategie di pacificazione dei conflitti che ne derivano, dove per pacificazione si intende una funzione complessa, che alterna violenza e politica, al fine di ridurre le popolazioni conflittuali ad uno stato di ‘sottomissione pacifica’.
Su tutto questo occorre soffermarsi, per comprendere la portata mondiale dei fenomeni, conoscerli per contrastarli.
Occorre amplificare le voci di chi si oppone, creare legami internazionali, sostenere le lotte.
Lo faremo sulle pagine di ECOR, mettendo a disposizione un catalogo virtuale che si arricchisce quotidianamente per facilitare l’accesso ad articoli, notizie aggiornate, saggi, documentari e dossier, prodotti a livello internazionale da movimenti e centri di ricerca, oltre ad analisi e materiali multimediali nostri.
Lo faremo promuovendo occasioni di dibattito. Vi aspettiamo il 24 febbraio per il nostro primo webinar:
Il dibattito, in lingua spagnola, si potrà seguire in diretta sulla pagina FB di ECOR.Network, e in differita all’indirizzo del portale.
Da Carmilla
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