Generi e generazioni
Proviamo ad assumere queste categorie come strumenti per leggere le determinazioni che striano la composizione di classe, aggirando il problema di fornirne una definizione. Resistere alla tentazione definitoria, per scelta consapevole, ci aiuta a scongiurare il rischio essenzialista. Se non vogliamo naturalizzare la condizione dell’oppressione, se la leggiamo in termini storici e dunque contingenti, ciò a cui ci interessa guardare non sono tanto le invarianti quanto i processi di soggettivazione, i modi in cui i rapporti di forza modificano l’identità dei soggetti coinvolti. Questo punto di vista è distante tanto dalla riappropriazione di una differenza che si è dimostrata utile strumento di gestione biopolitica del capitale, quanto dalla ricerca di un’uguaglianza astratta che tenti di adattare i soggetti all’esistente, servendo la causa dell’integrazione. Ciò che ci serve, che è politicamente decisivo è assumere quello del genere e della generazione come strumenti di conoscenza e di decostruzione delle divisioni, delle separazioni che ci attraversano in quanto classe. Dunque guardare alla composizione di classe attraverso queste lenti per individuarne le determinazioni tanto nelle forme di somministrazione di lavoro, quanto soggettive, di comportamenti, aspettative, desideri, identità ‘capitalistizzate’ ma anche portatrici di scarti, latenze, resistenze.
In questi termini ciò che emerge è una trasformazione sostanziale delle geografie della divisione internazionale del lavoro. Sappiamo da tempo che l’irregolarizzazione, abbassando i costi del lavoro e flessibilizzando al massimo le sue condizioni, ha funzionato introducendo grosse quote di lavoratrici nel mercato e sfruttando i meccanismi di competizione fra poveri per femminilizzare le condizioni generali di somministrazione del lavoro. Soprattutto per ciò che riguarda il terziario arretrato e i servizi alla persona. Nelle metropoli globali, accanto all’espansione dei lavori altamente retribuiti, abbiamo assistito appunto a processi di crescita dell’irregolarizzazione che hanno riportato famiglia e vicinato ad essere luoghi di attività economica, dopo che il fordismo aveva tendenzialmente sottratto il lavoro retribuito alle donne. Parte di questi processi ha contribuito, come argomenta ad esempio la Sassen, ad aumentare l’autonomia e l’indipendenza delle donne, soprattutto delle migranti, portate ad acquisire maggior controllo sul bilancio familiare, sulle decisioni domestiche, nella partecipazione alla sfera pubblica, ad esempio in quanto mediatrici di fatto del rapporto fra famiglia e stato. Tuttavia se dei miglioramenti in termini di gerarchie di genere ci sono stati essi non sono stati né generali né uniformi e perlopiù limitati alla sfera della relazione privata, della contrattazione privata fra partner. Su di un piano più complessivo infatti la forza-lavoro femminile a basso salario delle metropoli globali ha continuato a costituire un segmento fortemente invisibilizzato e privato di potere pur operando in settori produttivi strategici, spesso sottoposto a condizioni di forte frammentazione sul territorio e nelle forme di somministrazione del lavoro e oggetto di un ulteriore forma di precarizzazione: quella legata all’assenza di riconoscimento e condivisione del lavoro riproduttivo domestico. Un problema intensificato proprio dai meccanismi di valorizzazione che interessano il tessuto metropolitano, ad alto tasso di lavoro qualificato ma anche di servizi dequalificati, dove la devalorizzazione di ampi settori di popolazione avviene attraverso la precarizzazione delle loro condizioni riproduttive.
Su questo terreno la crisi si è innestata come polarizzazione delle dinamiche in atto. Le politiche di austerity hanno contribuito in maniera funzionale alla rifondazione di una nuova condizione di classe, caratterizzata da poca occupazione, precarietà, immiserimento diffuso e all’orizzonte nuova disponibilità e ricattabilità. Numerose sono le forme di spossessamento che concorrono a questo fine: dal peggioramento delle condizioni riproduttive, alla distruzione di risorse, saperi e capacità umane, un quoziente di violenza che fin dalle origini del capitalismo ha accompagnato l’accumulazione di forza-lavoro. In questo senso, il legame che femministe come Federici e Dalla Costa hanno individuato fin dagli anni ‘80 fra crisi riproduttive e nuove fasi di accumulazione è ancora una volta verificato: come per le politiche del debito sperimentate sui paesi africani o latinoamericani trent’anni fa, anche oggi le conseguenze delle politiche di risanamento sono tagli alla spesa sociale, immiserimento delle condizioni di vita soprattutto per anziani, donne e bambini (attraverso tagli a sanità e istruzione e pensioni), lavoro nero, emigrazione, prostituzione e disoccupazione di massa. Stato e mercato retrocedono dal terreno della riproduzione della forza-lavoro, attraverso la privatizzazione dei servizi ma anche attraverso un più complessivo disimpegno dal welfare che trova il proprio corrispettivo nell’ideologema dell’individuo responsabile a parte intera (e unico beneficiario!) della propria riproduzione. Un’ideologia che rifiutando di mettere a tema le relazioni di dipendenza maschera una più radicale invisibilizzazione del lavoro riproduttivo, svolto ancora in prevalenza dalle donne. Con il ritorno fra le mura domestica di numerose attività di cura, aumenta il carico complessivo di lavoro che queste svolgono. Inoltre una rapida occhiata agli indici di disoccupazione dimostra come questi crescano in proporzione più rapidamente per gli uomini che per le donne. Non è difficile ipotizzare che le condizioni retributive e contrattuali peggiori favoriscano le donne sul mercato in questa fase, senza contare l’incremento del lavoro di cura sommerso e a nero (badanti, donne delle pulizie, baby sitter) svolto per la stragrande maggioranza dalle donne e che costituisce una fonte di reddito supplementare o di ripiego in caso di licenziamento cui molte ormai fanno ricorso. La lavorizzazione della vita di una schiera di donne ridotte alla condizione di working poor è ormai un dato sociale macroscopico.
Le stratificazioni generazionali invece dimostrano la loro produttività come lenti per leggere la trasformazione della condizione di classe in atto soprattutto per quanto riguarda la discontinuità di rapporto col lavoro e la salarizzazione. Se teniamo salda la differenza fra zone dell’economia globale (Brics) caratterizzate dall’accumulazione di un’imponente classe operaia giovanile e femminilizzata e zone (occidentali soprattutto) soggette a dis-accumulazione di forza-lavoro, vediamo che in quest’ultime è la categoria di generazione che meglio descrive il mutamento nelle condizioni di somministrazione di lavoro e accesso al reddito. Un’ampia fetta di proletariato giovanile è oggi sospinto fuori dal rapporto di lavoro salariato o per meglio dire destinato a vivervi ai margini e ad intrattenere rapporti fluttuanti e discontinui con esso. Questo esercito di forza-lavoro di riserva, semi-superfluo può ancora contare su forme di dipendenza dal welfare familiare garantito da genitori con un rapporto di relativa continuità col lavoro, una condizione destinata ad esaurirsi col passare del tempo e delle generazioni. Ma le forme di espropriazione che interessano il proletariato giovanile metropolitano non riguardano esclusivamente il terreno del reddito in senso stretto: la ristrutturazione della metropoli neoliberista inizia ad attaccare anche quei luoghi di compensazione, nient’affatto esteriori ai cicli di consumo e riproduzione capitalista, che avevano costituito la risorsa di connessione sociale per una soggettività accumulata ad uso e consumo dei cicli produttivi metropolitani e terziari. Persino l’infrastruttura capitalistica dell’intrattenimento è oggetto di una profonda ristrutturazione: basti pensare alla pioggia di ordinanze contro la movida che in Italia accompagna i processi di gentrification di molte città e quartieri, per averne un esempio pratico. Emergono potenziali punti di frizione costituiti da bisogni e desideri che, se originano dagli stessi processi di soggettivazione capitalistica che hanno sostanziato per anni i cicli metropolitani del consumo, della formazione, della produzione di forza-lavoro, nondimeno rappresentano oggi delle aspettative disattese. Non a caso su questi punti di frizione si sono attivate diverse fra le forme di indisponibilità all’esproprio cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Sorprendentemente, terreni meno brutali e violenti di altri di attacco alle condizioni riproduttive hanno prodotto resistenze di portata ampia e con rivendicazioni più complessive: pensiamo agli alberi di Piazza Taksim, al rincaro dei trasporti che hanno costituito il potente detonatore delle proteste turche e brasiliane. Si tratta di una difesa delle forme di vita urbane che pone la città come terreno di contraddizione e contesa: sito di rivendicazioni da parte del capitale globale (che ne fa forma organizzativa di molteplici processi di valorizzazione) ma anche del proletariato urbano, che qui è soggetto a processi di svalutazione, di impoverimento e vi resiste, di fatto rivendicando quelle risorse di qualità della vita che finora erano precondizione della sua impiegabilità (mobilità, relazionalità, vivibilità del tessuto urbano). Si tratta dunque di lotte che mettono a tema la questione della riproduzione sociale capitalistica ma producendo un terreno di contraddizione più ampio che apre alla consapevolezza dei limiti del capitalismo nel garantire la soddisfazione dei bisogni e le condizioni di sopravvivenza.
Più in generale, l’occupazione e l’autogestione di spazi urbani (dalle acampadas a Occupy) è emersa come uno dei tratti che hanno accomunato le lotte degli ultimi anni esprimendo in primo luogo un’esigenza di ricostruzione delle relazioni sociali e cooperative distrutte dalla crisi, ma poi sviluppando istanze relative alle forme di vita urbane: l’accesso alle risorse, la socializzazione del quotidiano come elemento di identità e coesione del movimento, la condivisione del lavoro riproduttivo, sviluppando così forme di lotta incentrate sulla produzione di forme di vita. Anche in Italia, la difesa del territorio e la vita nei presidi del movimento No Tav manifestano in modo evidente una medesima centralità della cooperazione, della socialità, della socializzazione della materialità del quotidiano nella costruzione di attivazione politica, così come il processo di crescita soggettiva del movimento si è prodotto sulla linea di tendenza di una graduale disidentificazione di esigenze e qualità delle condizioni di riproduzione di sé (terra, aria, acqua, tempo, ma anche relazioni di potere e rapporti collettivi di forza con la controparte) con gli imperativi del mercato e del profitto – al limite del loro antagonismo. Ma anche i movimenti per il diritto alla casa, ad esempio, e le occupazioni abitative, ci interrogano sulla possibilità di individuare nelle pratiche di riappropriazione di casa e reddito un possibile terreno di declinazione delle lotte sulla riproduzione oltre che un esempio pratico di riproduzione dei movimenti stessi, in un’epoca in cui la radicalità dei processi di pauperizzazione impone di fare i conti con la questione della disponibilità alla lotta.
Come ha più volte argomentato Silvia Federici questa centralità della riproduzione nella morfologia e nelle rivendicazioni politiche dei movimenti odierni (oltre che l’ampia partecipazione e il protagonismo delle donne) li rende il terreno politico ideale per sperimentare una socializzazione complessiva e larga del lavoro di cura, capace di affrontare il nodo della divisione di genere del lavoro riproduttivo su di un piano complessivo che superi la contrattazione privata fra partner. Fino a quando infatti il lavoro riproduttivo gratuito non diviene terreno di rivendicazione accanto e alla pari con le altre forme di sfruttamento che interessano le donne queste costituiranno un segmento del proletariato troppo precarizzato e invisibilizzato per costituirsi in minaccia potenziale. Ecco perché il terreno della riproduzione è direttamente collegato alla questione del potere, cioè di una strategia di ampliamento delle proprie possibilità materiali e ricostituzione di soggetto collettivo. È problema di forza non di forma. Soprattutto nella misura in cui riconoscere la produttività del lavoro riproduttivo serve anche per riconoscere, con Alquati, il lavoro di chi è riprodotto (figlio/a, paziente, studente, anziano/a), e dunque anche le possibilità concrete di una cooperazione nella lotta fra riprodotti e riproduttori. Dunque la questione del controllo sulle condizioni materiali della propria riproduzione potenzialmente fuori dalle logiche del mercato può essere un terreno politicamente adeguato non soltanto ad una lotta contro la divisione di genere del lavoro all’altezza del presente ma anche di una lotta contro la crisi in quanto impoverimento, espropriazione e distruzione delle forme di vita ai fini di nuovi processi di valorizzazione ed accumulazione capitalistica.
Ciò non significa che queste lotte siano sempre, immediatamente capaci di porsi su di un piano di contrapposizione sistemica e anticapitalistica. Anzi, una pratica politica sul terreno della riproduzione deve costantemente fare i conti col rischio della compatibilità, di una supplenza non più privata ma collettiva ma che egualmente può assolvere una funzione compensativa lavorando al servizio della pacificazione sociale. Pensiamo ad esempio agli esperimenti di welfare autogestito in Grecia, dove la necessità e la capacità di organizzare una risposta a bisogni collettivi spesso non ha saputo oltrepassare un piano di creazione di reti solidaristiche e mutualistiche. Non solo, le stesse esperienze autogestionali, le occupazioni degli spazi urbani, etc sono delle forme di lotta che da un lato costituiscono potenti terreni di riaggregazione proprio grazie alla possibilità di miglioramento immediato della qualità del quotidiano che offrono, ma che proprio per ciò rischiano di confondere i rapporti fra mezzi e fini della lotta, rimanendo schiacciate sul presente o offrendo possibilità di esodo soggettivo ed esistenziale. Il punto è che una lotta sul terreno della riproduzione non può aggirare il problema del “per chi” ci si riproduce. Quello riproduttivo è infatti un lavoro dal carattere contraddittorio: ci si riproduce secondo le esigenze del mercato ma c’è anche sempre una valorizzazione di capacità e qualità umane. È impossibile tracciare una netta demarcazione fra i due termini ma la prevalenza dell’uno o dell’altro definisce i margini di autonomia dai fini capitalistici: qui risiede la possibilità di soggettivarsi-contro degli individui e della classe. Se le pratiche di mutualismo non riescono a porre la questione di QUALI bisogni, dunque a procedere nella direzione di una disidentificazione dei bisogni da quelli mercificati, se la condivisione del lavoro di cura non si pone sul terreno di un’autonomizzarsi nei fini della riproduzione ma nei termini di un’autorganizzazione dello sfruttamento, se la difesa delle forme di vita non si pone sul terreno della loro incompatibilità sistemica non usciremo fuori dall’orizzonte di rivendicazioni compatibili. In altri termini una lotta sul terreno della riproduzione non conquista un orizzonte di rottura fino a quando non diventa rimessa in causa della propria riproduzione in quanto classe di proletari: riproduzione per se stessi e in ultima istanza contro se stessi in quanto lavoratori, in quanto proletari.
Questa è ovviamente la contraddizione implicita in ogni lotta quotidiana che, se non produce contraddizioni più alte, è per lo più una difesa della condizione proletaria, si sviluppa e conclude dentro la riproduzione sociale capitalistica. Tuttavia l’esaurirsi dei corpi intermedi e dei margini di riformismo del capitale in questa fase ci pone di fronte ad una contraddizione implicita nelle lotte attuali: quella fra il loro carattere riformistico e il fatto che ogni rivendicazione parziale è delegittimata in partenza dal fatto di non poter essere soddisfatta. Forse possiamo addirittura ipotizzare che anche la trasformazione nei modi di somministrazione del lavoro abbia delle conseguenze sul rapporto con le lotte rivendicative di un’ampia fetta del proletariato giovanile. Questa fetta di classe che è riprodotta come esercito umano di riserva che differenze soggettive manifesta rispetto a generazioni vissute e formate da rapporti di continuità col lavoro? Possiamo ad esempio ipotizzare che una certa diversità di aspettative e comportamenti si manifesti in una maggiore impermeabilità alle lotte corporative e difensive da parte di quanti non hanno nulla da difendere? La relazione di discontinuità col lavoro ad esempio, indubbiamente produce una richiesta di lavoro salariato ma quanto è radicata la consapevolezza della sua insostenibilità alle attuali condizioni, le uniche conosciute? Possiamo ipotizzare che ci sia un’ambivalenza che da un lato manifesta altro rispetto all’assetto corporativo e difensivo di altre parti della composizione del lavoro ma che apre anche a un potenziale nichilista, a comportamenti di disillusione. Questa consapevolezza dell’inutilità di un piano rivendicativo è forse ciò che abbiamo visto all’opera nelle ultime fiammate dell’Onda o nel movimento studentesco cileno, stretti fra la difesa dell’università e la consapevolezza della sua indifendibilità, del poco che c’era veramente da salvare. Ma anche rispetto a quei sommovimenti sociali dall’evidente omogeneità generazionale che sono stati i riot dovremmo forse domandarci: possiamo leggervi l’immediata espressione di una rabbia che articola l’inutilità di qualunque piano di rivendicazione? A Torino, in un contesto molto diverso qual è stato quello del movimento del 9 Dicembre abbiamo assistito ad una radicale differenziazione dentro quelle giornate e anche nella medesima piazza fra una fascia di ceti medi in fase di proletarizzazione, working poors, pensionati, dipendenti e autonomi che pur essendo inseriti in processi di radicale impoverimento intrattengono una certa continuità col passato, sono soggettivamente plasmati da certe forme di messa al lavoro e accesso al reddito ed una piazza di giovane proletariato di periferia che ha raccolto partecipazione dalle curve e nei giorni successivi al primo è stata composta per lo più da studenti medi di periferia e cintura. Prevedibilmente impermeabile alle parole d’ordine della protesta, essa si è espressa nei suoi comportamenti più che altro sul terreno di bisogni legati alla vita urbana: desiderio di soddisfare bisogni mercificati, esigenza di imporre una sospensione delle forme di controllo della vita e degli spazi urbani, di controllarle a propria volta, bisogno di mobilità e odio per l’azienda trasporti locale, esigenza di alzare il livello dello scontro. Da qualche intervista che abbiamo avuto modo di fare è emerso per lo più disinteresse o scetticismo rispetto alle parole d’ordine della protesta (dall’uscita dall’euro al meno tasse, etc) mostrando di condividere e sostenere soprattutto quella proporzionalmente più complessiva: l’esigenza di cacciare la classe politica. Se proviamo a leggere cosa c’è materialisticamente dietro questa rivendicazione, indubbiamente di matrice populista, emergono delle contraddizioni interessanti: innanzitutto accanto a chi chiede più meritocrazia ai vertici ci sono alcuni che esprimono una confusa esigenza di autogoverno, di democrazia diretta. Inoltre se è vero che il piano della contrapposizione e del conflitto è per lo più morale e che dentro questa cornice del discorso sulla corruzione molti pensano che siamo tutti co-implicati (innanzitutto attraverso l’evasione fiscale), ciononostante quasi unanimemente i giovani intervistati si sono dichiarati disposti a perseverare nel comportamento illegale che pure ritengono con-causa della crisi, di evadere o di essere disposti a farlo, di contraffare abbonamenti dell’autobus, viaggiare senza biglietto, etc, e della legittimità di simili comportamenti prodotti da condizioni di necessità e dagli sproporzionati costi di tasse e tariffe. Non solo: un elemento forte di corresponsabilità dei governati nella crisi è individuato nella loro incapacità di opporvisi, di reagire, di dare vita a proteste di piazza come quelle che media e televisione documentano negli altri paesi. Vi è dunque una contraddizione fra il piano della politicità implicita dei comportamenti e quello del discorso esplicito che rappresenta un terreno potenziale[1]. Infine l’elemento forse più significativo che è emerso è lo slittamento costante fra senso di disillusione e esigenza di radicalizzare la lotta. Unanimemente delusi dall’inconcludenza di questa sedicente “rivoluzione”, scettici sulla possibilità che si sviluppi un movimento davvero di massa capace di “cambiare le cose” tutti gli intervistati si sono comunque detti favorevoli a continuare con lo sciopero a oltranza (studenti come lavoratori). Tutti hanno dichiarato che la protesta avrebbe dovuto assumere forme più radicali e durature. Dunque: soggetti che continuano ad essere plasmati da una profonda etica del lavoro (fieri del lavoro e della professionalità dei loro genitori, vivono la prospettiva di un’eventuale disoccupazione con ansia e spesso come svuotamento anche esistenziale, non riescono a immaginare modi alternativi di accesso al reddito) sul piano dei comportamenti sono disposti o meglio desiderosi di ritardare quanto più possibile il proprio rientro sul luogo di lavoro o a scuola. Possiamo forse ipotizzare che dentro queste contraddizioni (ad esempio questa fra richiesta/embrioni di rifiuto del lavoro) si manifesti un’ambivalenza più o meno costitutiva, più o meno intrinseca nella soggettività prodotta da questa diversa condizione di classe, che per adesso interessa in modi più evidenti e più omogenei le nuove generazioni di proletari e working poor? Quella appunto relativa al rapporto con le rivendicazioni parziali, da un lato, e le possibilità trasformative, dall’altro? Possiamo immaginare che certi embrioni di consapevolezza sull’irriformabilità del capitalismo si stiano sviluppando e diano vita da un lato ad atteggiamenti di disillusione e sfiducia, dall’altro alla possibilità di procedere oltre l’orizzonte difensivo delle lotte attuali? Si tratta ovviamente solo di ipotesi. Ma nella misura in cui le rotture sono il prodotto di lotte capaci di superare le rivendicazioni da cui originano, di lottare contro di esse o per la lotta stessa, le ipotesi che possiamo formulare sulla soggettività di questa nuova generazione di proletari urbani sono in relazione diretta con le possibilità e gli scenari delle lotte future, con la loro possibilità o meno di procedere su orizzonti di incompatibilità.
Note
[1] Così come c’è contraddizione fra il piano postideologico del discorso che, come per molti movimenti attuali, assume come proprio soggetto la totalità piuttosto che la parte (il popolo/99%) e la consapevolezza latente dell’esistenza di un discrimine di classe fra chi è disposto alla lotta e chi no (“Se vai da uno che i soldi in tasca ce li ha già te la fa facile la vita. Dice, si ma che me ne frega tanto io mangio campo e muoio. Tanto tutti dobbiamo morire. Ma c’è chi muore con l’angoscia”).
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