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Gli autonomi ed il Manifesto

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Riprendiamo un estratto a questa interessante intervista a Vincenzo Miliucci dell’11 Luglio 2000 che tratta del rapporto tra i collettivi dell’autonomia romana e il Manifesto, ma anche di molti altri temi importanti per rileggere la storia degli anni ’60 e ’70.

Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e quali sono state le tue prime esperienze militanti?

Io provengo da una famiglia operaia e quindi ho avuto sempre in casa questi riferimenti: lo scontro di classe che si viveva in prima persona nel dopoguerra, l’Unità, il giornalino de l’Unità per i giovani, Il Pioniere, che ci si immagini che all’epoca era completamente filonucleare. Quindi, tenuto conto che ho sempre convissuto come idee nell’area di sinistra, nelle scuole degli anni ’60 non c’erano movimenti adeguati a quelli che si è poi potuto conoscere successivamente e anche in epoca attuale, dunque non ci sono state che pochissime manifestazioni più che altro di pensiero piuttosto che di mobilitazione. L’esperienza del militare che mi ha portato al Nord mi ha fatto concepire tra l’altro il conoscere tanta disperazione della gente del Sud che veniva mandata lì: io ho fatto il militare in una zona Nato, una delle più grandi tra le basi d’Italia, e sono arrivato con il grado di caporalmaggiore, tranquillamente e senza nessuna richiesta, mandavano diplomati e laureati a fare questo controllo di truppa. Io mi ero portato su un po’ di dischi e tra questi c’era anche l’Internazionale, e per il primo scaglione che si è congedato ho fatto il presentatarm con l’Internazionale, ciò in una situazione completamente dominata dalla Nato, negli anni ’65-’66. Così è stato per gli altri quattro scaglioni che se ne sono andati; per gli artiglieri, che erano poi sotto il mio “comando”, c’è stato il saluto come si faceva nel circuito militare (nell’emiciclo con l’alzabandiera ecc.) ma con l’Internazionale che scorreva. Ciò giusto per dire che non era una boutade, era un fatto che veniva acquisito, non dico che ce ne fosse completamente piena coscienza ma sicuramente era determinato dalla stima, dal rispetto, dalla solidarietà tra le persone, tra coloro i quali si sentivano molto simili pur non avendo la percezione politica.

 
Poi ci fu il ritorno a casa dal militare, la discussione con i primi giovani che partecipavano nell’università ai fatti post-’66, a Roma c’era stato l’omicidio di Paolo Rossi ancora una volta da parte dei fascisti; quindi, alcuni di questi che poi diventarono compagni erano universitari e discutevamo ai muretti dell’epoca che erano i bar. Ci agganciò un compagno più vecchio di noi che ci disse che era del Partito Comunista, diventammo amici dato che si viveva e si discuteva come si dice, e un bel giorno alla vigilia del ’68 ci propose di riaprire la sezione del Partito Comunista di un quartiere periferico di Roma, di una zona edile. Le sezioni delle periferie del PCI all’epoca, fino alla metà degli anni ’60, erano state tutte chiuse, perché la mescita del vino gli aveva completamente distrutto i quadri per cui non era più accedibile poter fare attività politica, un po’ come quello che avviene oggi in qualche centro sociale dove lo spaccio della birra, per non dire qualche altra cosa, ottenebra le menti e quindi diventa un motu proprio di mercificazione piuttosto che attività politica: in quell’epoca ci sono varie letterature e libri scritti su questa vicenda, almeno una decina, su questa distruzione delle sedi del Partito Comunista a causa della permessività, a quell’epoca la sezione diventava un po’ un’atipica osteria, si veniva in sede per bere un litro di vino. Allora la sezione era stata chiusa, ci presentarono due capi nobili del Partito Comunista dell’epoca, uno era uscito dai campi di Dachau ed era l’ex colonnello comandante partigiano della piazza di Roma, arrestato nell’autunno del ’43, si era fatto questo campo di concentramento ed era tornato; l’altro era un senatore che ebbe un episodio notevole durante il fascismo perché, essendo incazzato a morte per la collusione tra fascismo e Chiesa cattolica, prese un martello, andò dentro San Pietro e diede una martellata sul piede della Pietà, quindi è noto per questo, all’epoca era definito anarchico, poi diventò senatore del PCI. Uno si chiamava Forti e l’altro si chiamava Cianca, oggi non c’è più nessuno dei due, erano già anzianotti all’epoca. Loro però erano i numi tutelari, dove passavano si aprivano le porte di Botteghe Oscure: prima facemmo una grossa discussione politica con costoro, noi ventenni-venticinquenni e loro già cinquantenni-sessantenni, affidarono le sorti della rinascita di questa sezione a questi giovani in maniera molto veloce alla vigilia del ’68 e a metà del ’67 aprimmo questa sezione. Era un buco dentro un quartierino popolare tutto abitato da edili, iscrivemmo più o meno 130 edili e poi questo senatore, questi compagni: era la vigilia dello Statuto dei lavoratori, c’era la storia delle occupazioni delle case, c’era già il comitato d’agitazione borgate.

Roma era piene di borgate, si viveva nelle lamiere, quelle che si vedono adesso alle periferie del mondo, c’era la mancanza di scuole, di servizi, di strade, di luce, di fogne, insomma quello che era l’agit-prop dei bisogni. Quindi, ci riuscì facile, anche per la rete che offriva il Partito Comunista dell’epoca, di organizzare la soddisfazione di questi bisogni: eravamo presi da tantissimo entusiasmo, vivevamo chiaramente insieme attività politica e personale. La sezione fu inaugurata da Enrico Berlinguer, presumo (adesso non ricordo benissimo) per i trascorsi di questi due grossi personaggi: all’epoca Berlinguer era vicesegretario del PCI sotto Longo. Uno dei primi passi che facemmo fu l’ospitalità a un’importante delegazione vietnamita (a quell’epoca eravamo la generazione Vietnam), per cui il fatto che in una piccolissima sezione di periferia arriva il numero quattro o cinque del Partito Comunista vietnamita ha un certo significato; questi fu accompagnato sempre da Enrico Berlinguer presumo sempre per questi due numi tutelari che avevano tutte le porte aperte e Botteghe Oscure. Io feci la prima e ultima campagna elettorale nel maggio del ’68, quindi capì come funzionava anche qui la campagna elettorale, molto pulita, senza andare, come faceva la Democrazia Cristiana, a prendersi anche i militanti in carrozzella, ma sicuramente però ricordando a tutti che bisognava andare a votare presto la mattina e tutte queste robe qui, preceduta da un grosso battage: ognuno di noi diventò un piccolo agit-prop, l’avevi fatto già nel sociale poi dovevi farlo nel politico per le elezioni, quindi hai battuto tutto il quartiere e hai cominciato a conoscere, oltre al quartiere tuo in cui ti sentivi come un pesce nell’acqua, anche il quartiere limitrofo, perché le elezioni abbracciano chiaramente le zone più estese. Noi stavamo in un quartiere molto nero, io ci abitavo lì dentro, quindi questa presenza diurna e notturna ti fece apprezzare moltissimo e quanto meno conoscere, e questa è una delle caratteristiche che insegnava il PCI all’epoca a tutti. In più, questi tre giovani compagni che furono contattati dai vecchi per riaprire la sezione, a scalare ognuno divenne poi segretario di quella sezione.

Io ero stato appena assunto all’Enel, ero fuori e dunque mi trovavo solo il fine settimana con questi compagni, quindi toccò a me, alla vigilia del ’68, diventare il segretario. In questa situazione ci fu un’accelerazione perché le elezioni furono vinte, nel senso che il movimento studentesco votò rosso, diede l’indicazione di votare PSIUP e PCI, con l’adunanza a piazza San Giovanni di Longo dove parlò anche Oreste Scalzone con questa indicazione. Ci fu tutto questo e la discussione di notte con i giovanissimi compagni dell’università che già davano luogo al movimento studentesco attraverso i gruppi, a Roma erano i Nuclei Comunisti Rivoluzionari, c’era il primo Potere Operaio ecc.; quindi la sera passava tra una facezia, uno scazzo, “vieni tu dentro il PCI” “no, esci tu dal PCI”, “guarda come stanno le cose” “guarda come non stanno” ecc., ma soprattutto poi la discussione politica seria cominciò a partire dalla primavera di Praga.

Quel ’68 con i carri armati a Praga portò a una discussione pazzesca, anche perché la storia di questa generazione politica era fatta di un dibattito collettivo: chi oggi si metterebbe a discutere politicamente “Il capitale” a partire dal primo libro, oppure “Salario, prezzo e profitto”, oppure i “Grundrisse” ecc.? Eppure all’epoca o eri in dieci o eri spesso anche in venti o trenta si discuteva collettivamente, magari con qualcuno che relazionava in sintesi e gli altri che facevano domande, anche quelli che non sapevano nulla dell’ABC del marxismo. Quindi, sul documento di Dubceck e del Partito Comunista cecoslovacco, che ci appariva molto moderato all’epoca, facemmo moltissime discussioni, capendo la situazione, rigettando chiaramente l’invasione sovietica e non solamente per spirito di solidarietà con coloro i quali venivano aggrediti, ma anche perché non c’era mai appartenuta, essendo arrivati nel ’67-’68, quel grande rispetto nei confronti dell’Unione Sovietica, anche se a casa mia avevo un padre stalinista e c’era il rispetto che ne veniva da l’Unità. Dunque, ci fu la discussione sul documento dubceckiano e poi su quello ancora peggiore delle trecento parole di Ota Sik, che era l’economista del partito: sembravano nettamente e spudoratamente identici alla socialdemocrazia italiana che aborrivamo mentre tenevamo in giusto rispetto la socialdemocrazia svedese per quello che leggevamo della ridistribuzione della ricchezza sociale che era stata in grado di poter fare in quella situazione, quindi per noi era un valore da mettere in una giusta collocazione pur se noi chiaramente pensavamo a tutt’altro, al ribaltamento appunto del capitalismo.

Quindi, questi sono stati i prodromi: dentro questa vicenda si assume anche una partecipazione a maggiore responsabilità, poiché quel partito che si è ingigantito durante il voto del 1968, che è arrivato a sfiorare al Senato la Democrazia Cristiana, ha avuto la necessità di allargare la sua presenza sul territorio. In questo allargamento della presenza sul territorio mi dettero altre responsabilità sul piano della zona, si trattava della Tiburtina che all’epoca subito dopo Pomezia era la seconda zona operaia di Roma, dove c’erano le fabbriche dell’elettronica, metalmeccaniche, le vetrerie e quant’altro: in quella zona come responsabile venne a lavorare Petroselli, il quale poi diventò sindaco di Roma. Quindi, lavorammo a stretto contatto per circa un anno e mezzo, io consideravo lui un moderato, veniva dall’esperienza dell’occupazione di terra del viterbese, era un uomo che meritava rispetto perché aveva fatto queste tre grandi esperienze di mobilitazioni delle masse contadine con altrettante cariche della polizia, arresti e cose di questo genere. Dunque, l’esperienza di zona fu estremamente importante perché ci permise di avere un contatto costante con altre sei sezioni completamente a carattere operaio e giovanile. In quell’epoca chiaramente si svolse un po’ tutto, perché in quel ’68-’69 avviene che la FGCI, che aveva 200.000 iscritti, si scioglie, era una FGCI con dentro certi quadri e certe teste, poi fornì con i rientri anche i segretari dei Partiti Comunisti successivi; e ci fu questa grossa forma relazionale, soprattutto le manifestazioni contro gli Stati Uniti, per la tutela del Vietnam e anche per Cuba furono il grosso cemento che non fece separare la nascente sinistra extraparlamentare da quella che era la sinistra del PCI, allora insieme alla FGCI. Allora si riusciva ad andare sotto l’ambasciata americana, a differenza delle epoche successive quando quasi mai riuscimmo ad arrivarvi; non c’era ancora l’uso della molotov che venne scoperta negli anni successivi (fine ’69, inizi ’70), ma sicuramente c’erano dei corpo a corpo con la polizia, con degli arresti estremamente paurosi. Questa è l’incubazione di questa storia.

Alla fine del ’68 comincia l’epopea del Manifesto, prima attraverso la rivista, quindi con tutti coloro i quali erano eretici rispetto alla vicenda cecoslovacca, alla vicenda dell’URSS ed erano propedeutici rispetto alla storia della rivoluzione culturale cinese, che vedevano se non come faro quanto meno come fonte di utilizzo anche qui dalle nostre parti quello che era il maoismo; ci sembrava, almeno all’epoca, un pensiero sicuramente alternativo a quella che era stata la staticità dell’Unione Sovietica. La morte di Guevara, che era già avvenuta ma che aveva fatto produrre velocemente i suoi scritti e testi, fu l’altro viatico che ci permise di dar vita a questo dibattito all’interno della rivista del Manifesto, che durò un anno e quattro mesi, quindi all’interno di quello riconoscerci, cominciando ad agire quasi da frazione all’interno del Partito Comunista.

Questa cosa divenne ancora più rilevante perché, nonostante il PCI si fosse molto aperto sul territorio, cosa dovuta anche al voto, per cercare di riassumere questa capacità egemonica che stava assumendo, si accorse chiaramente che il suo limite era quello di essere comunque filosovietico nonostante il nascente berlinguerismo, e che rispetto al movimento operaio non si poteva andare oltre lo Statuto dei lavoratori. Questo comunque all’epoca lo consideravamo un effetto rivoluzionario e ci consideriamo dei portatori ufficiali di grossi contributi perché abbiamo fatto tanti di quei comizi nei cantieri edili e tante di quelle iniziative che è stato tutto più facile arrivare poi nel 1970, l’anno dei contratti, ad avere questa partecipazione corale, questa assunzione di afflato operaio, di autonomia operaia, di centralità operaia che in una città come Roma non nasceva da sé. Per cui il percorso di discussione politica si spostava in avanti, diventava maggiormente internazionalista dentro la rivista del Manifesto, venivi a contatto maggiore con le aree trotzkiste e internazionaliste, e tutto questo arricchiva il tuo bagaglio e il tuo patrimonio e lo commisuravi tutti i giorni con quello che facevi come attività. In questo contesto nasce una discussione organizzata e propedeutica nel gruppo del Manifesto, tutto il ’69 ha questa funzione. Nel 1970, mentre c’è il grande sbocco della lotta del contratto metalmeccanico, mentre, essendo lavoratore, avevo già fatto i primi scioperi qui dentro l’Enel e avevo già avuto i collegamenti attraverso il partito con altri segmenti (alla Fiat, alla Fatme soprattutto, che per noi è stata un caposaldo di battaglie per quello che ha espresso, in mezzo agli edili e via dicendo), avevi già un linguaggio appropriato del mondo del lavoro a differenza di molti altri giovani compagni, soprattutto gli studenti che ne masticavano poco e al massimo ne avevano un afflato ideologico, quindi di portare a darsi una mano.

Questo contesto ci porta ad elaborare la possibilità della rottura senza conseguenze sentimentali nei confronti del PCI, a cui comunque riconoscevamo un contributo chiaramente determinante nella storia politica italiana, che però era insufficiente a poter rappresentare quello che si stava muovendo. Del resto anche l’esperienza nel comitato d’agitazione borgate, che ci ha fatto vedere quanto era esplosiva la miseria di Roma e quanto erano evidenti le forme dello sfruttamento, i palizzinari chi erano, e tra loro c’erano anche enormi sovvenzionatori delle Botteghe Oscure, ci fece incontrare anche lì dentro una serie di altre realtà, anche cattoliche di base oltre che realtà del PSIUP: quindi, il comitato d’agitazione borgate era composto da queste tre componenti, noi, il PSIUP e le realtà cattoliche, dunque si tratta di un altro pezzo della vicenda romana che poi ci ha portato sempre a mantenere alto il radicamento sui bisogni sostanziali, il lavoro/reddito, la casa, i servizi ecc., insomma la teoria dei bisogni di helleriana memoria. In questo contesto chiaramente arriva presto la necessità di far fare un salto di qualità a questo partito, cosa che verifichiamo sia molto difficile, al dodicesimo o tredicesimo numero della rivista si arriva a formulare una specie di tesina riguardo al bombardare il quartier generale, dunque di maoista memoria in questo caso. Ci fu questo grosso articolo della Rossanda “Da Mao a Mao”, che interpretava questo bisogno di rompere le cristalizzazioni, i compartimenti, la burocrazia, quello che era il controllo della segreteria sul comitato centrale.

Ma tutto questo non sortì nulla dentro la casa madre, anzi sortì l’effetto di costruire le purghe, a questo vi erano ovviamente abituati mentalmente oltre che organizzativamente: fu dato mandato a Natta di preparare l’espulsione del cosiddetto gruppo dirigente e diedero mandato al comitato centrale di organizzare in tutta Italia le purghe. Tenuto conto che questa ormai era la deriva si mise mano a scrivere le tesi effettive: io partecipai fin dall’inizio alla stesura delle tesi del gruppo del Manifesto, che da lì a un mese vennero rese edite al gruppo militante, il quale era informale anche se al solito era formato da maggiorenti come la Rossanda, Natoli, Pintor, Caprara, poi si aggiunse Magri ecc. Questo per dire che durante tutto l’arco degli anni ’69-’70 si produce questa rottura, la quale ha anche delle forme di visibilità, è la prima volta che cinquecento militanti a vari livelli (segretari di partito, di federazione ecc.) fanno una manifestazione davanti alle Botteghe Oscure, quindi provocano chiaramente una oggettiva espulsione di fronte a questa lesa maestà.

Io me ne vado dalla sezione perché, nonostante questa partecipazione attiva, non mi volevano espellere per via del legame fondamentale umano oltre che politico che si costruisce all’interno dei segmenti popolari; come ho già detto la sezione era per il 90% piena di edili con cui ho mantenuto comunque dei rapporti fecondi, oltre che umani, compresi anche quelli nei confronti dei più vecchi che per ideologia potevano avercela ancora di più con questa nostra uscita estremista come la definivano loro. Quindi, la nascita a Roma soprattutto del Manifesto viene sanzionata dal tentativo di Armando Cossutta di farla finita con questa compagine, doveva liquidarla in termini di tre ore in un dibattito in una delle sezioni centrali del Partito Comunista, a Montesacro: la discussione dura notte e giorno per tre giorni di seguito, con grande fervore da parte dei più giovani. E alla fine siamo diventati anche furbi: il Partito Comunista aveva sempre nella zona di Montesacro anche un circolo culturale, noi, avendo capito che fine voleva far fare Cossutta a tutto quanto, essendo stato abituato a far purghe per tutta la vita, organizzammo notte tempo un numero di iscrizioni enorme in questo circolo e ce lo prendemmo, diventò poi circolo Montesacro e per circa un anno e mezzo fu praticamente polmone del gruppo del Manifesto a Roma.

Le cose hanno volto molto velocemente per questa formazione, anche per un giovane che nell’arco di tre anni si vede proiettato al di fuori di una grande casa madre all’avvio della costruzione di un’avventura e di un’impresa di cui è parte di frazione. Tant’è che la discussione precedente con i gruppi, innanzitutto Potere Operaio e quegli altri che c’erano a Roma (ma non la parte moderata di questi gruppi, non Avanguardia Operaia, ma neanche Lotta Continua all’epoca), ci permette di costruire un patto di azione con Potere Operaio per dar vita ad una effettiva stagione di lotte, a credere in tale possibilità.

Ciò dal momento che avevamo già potuto osservare e leggere quello che veniva prodotto dai Quaderni Rossi, dalle esperienze torinesi, dal primo concetto di autonomia operaia all’interno delle carrozzerie di Mirafiori, vedevamo questa possibilità, facendo fulcro sulla centralità dell’autonomia operaia, di creare attorno a questo fulcro un impianto rivoluzionario che potesse, attraverso una dichiarata anti-istituzionalità, contribuire a rompere i vincoli che si erano costruiti fino a quel momento, il partito come intellettuale complessivo, il sindacato come cinghia di trasmissione, la lunga marcia attraverso le istituzioni nella costante mediazione del riformismo, la possibilità di vittoria delle sinistre nel nostro paese, questi erano i tre corni della situazione. Voglio ricordare che l’anno ’69-’70 è stato quello delle grandi manifestazioni sia contrattuali che per la casa, per le pensioni, per la salute ecc.; quindi, Roma in particolare ha vissuto questa grande partecipazione popolare di 100.000, 50.000, 70.000 lavoratori, pensionati, occupanti le case ecc. che ha fatto sì che sia chi lavorava sia chi non lavorava si trovava sempre in presenza a manifestare, finanche all’interno o sotto il Ministero del Lavoro dove si celebrava questo grande braccio di forza tra la Confindustria e i metalmeccanici in cui fu mediatore Donat Cattin. Mi sembrava di vivere in una situazione irreale perché ci eravamo creati un accesso libero di entrata dentro il Ministero del Lavoro fino alla partecipazione in quegli stanzoni, non era da tutti, c’era una specie di decisione, una volontà, una concezione dell’autonomia operaia, quindi rendersi conto anche di fatto come avvenivano certi sforzi per arrivare a determinati compimenti. Dunque, io mi sono trovato spesso a sentire le ultime battute di questa forma contrattuale, oggi sarebbe impossibile stante il livello della selettività che avviene nei gruppi dirigenti, dell’esclusività, dei palazzi blindati come sono in questo tempo. Quindi, era ciò in quei tempi che perpetuava anche la vecchia classe dirigente democristiana in quanto tale, o quanto meno si accorgeva che non poteva fare a meno di essere pervasa da questa situazione.

Per concludere questo preludio, sicuramente la costruzione di quella che è stata la mia formazione iniziale politica avviene dentro casa per motu proprio dovuto alla presenza di un comunista tra le mura domestiche, e quindi alle letture iniziali di carattere politico semplice, dai giornali alle letture legate al primo Gramsci delle “Lettere dal carcere” o cose di questo genere; con la possibilità, avendo dei cugini che già lavoravano, di leggere invece gli autori moderni, americani soprattutto, quindi capire un altro tipo di realtà, un altro linguaggio e via di seguito. L’approccio con un’iniziale militanza che ti mette allo sprone, alla necessità di approfondimento, di diventare marxista da un punto di vista culturale, di accedere a quelle categorie, di comprenderle nella loro sintesi e nella loro profondità, in questa visione collettiva di uno studio non solo individuale ma in via collettiva com’era la formazione dell’epoca di un giovane militante comunista. In più immediatamente questo bilanciamento tra teoria-prassi-teoria, o prassi-teoria-prassi, quindi tutto quello che potevi desumere con quella iniziale e parziale intelligenza poteva essere immediatamente confrontato con tutto questo. L’arricchimento successivo dovuto al confronto con l’esperienza dei nascenti gruppi o i compagni a cui questi partecipavano. La rivista del Manifesto che ti fa abbracciare uno scibile largamente internazionale, l’approccio con il maoismo, misconosciuto anche perché bollato all’interno del Partito Comunista come deviazione Tutto questo ha costruito, insieme al guevarismo, ai lasciti delle iniziali letture guevariste, il bagaglio iniziale, perché poi diventa parte integrante di quel capitolo che immediatamente, sempre nell’arco di tempo velocissimo, dà luogo alla formazione dell’autonomia operaia.

Arriviamo dunque alla tua uscita dal Manifesto e all’inizio dell’esperienza dei Comitati autonomi operai.

Sì, tutto avviene molto velocemente, questo è un anno eccezionale in cui si consuma la scelta moderata del gruppo dirigente (o autodeterminatosi tra l’altro gruppo dirigente, potrei dire di averne fatto parte anch’io ma in una certa misura). Ci fu in quell’anno, nel ’71, questo enorme florilegio di esperienze: si pensi che nasce a Roma il comitato operaio Fiat, il comitato operaio Pirelli che c’era qui alla periferia di Roma, il comitato operaio della Fatme, alla fine del ’70 nasce il comitato politico dell’Enel, il collettivo del Policlinico, tante di quelle esperienze che si subordinano a questa militanza all’esterno dei cancelli, in particolare Luciana Castellina con cui abbiamo lavorato in simbiosi per tutto quell’anno, con un’abnegazione particolare per una forma intellettuale com’era la sua.

Ciò fa sì che il pensiero dominante sia appunto quello della costruzione, intorno al nucleo centrale dell’autonomia operaia o della centralità operaia, di un contesto che rompesse appunto con le vecchie concezioni, quelle del partito separato, con l’autonomia del politico e con la concezione del quadro sindacale che al massimo si limita a sobbarcarsi la vertenzialità. Questo frutto che viene da noi imparato all’epoca ce l’ha insegnato la strada, ce l’ha insegnato la realtà, ce l’ha insegnato anche Panzieri se vuoi e il dibattito che avveniva all’interno de La Classe, i Quaderni Rossi, il primo Potere Operaio, la rivista stessa del Manifesto: tutto questo ci comporta chiaramente una grossa base solida, una grossa identificazione. Quando avvertiamo i primi scricchiolii si mette in moto un dibattito che dura un anno all’interno del Manifesto e che è fatto di tesi contrapposte: dopo aver fatto tante iniziative politiche in comune con Potere Operaio, sotto grandi tende, meeting ecc., capiamo poi dai fatti essenziali che la cosa non è più tale e che c’è stato quanto meno questo scivolamento costante che avviene all’interno di tutte le sinistre del non poter fare a meno del loro limite istituzionale. Quindi, il loro limite istituzionale si produce nel ’72 con la scelta di fondare il PDUP e di partecipare alle elezioni, che furono misere, se non erro portarono a casa poco più dell’1% o qualcosa di questo genere. Ma tant’è, la frattura si era già determinata e nella mentalità anche di bravi compagni si era reinserito il virus dell’elettoralismo, della ricerca del consenso di opinione pubblica e non del radicamento in mezzo alla popolazione, in mezzo al proletariato, quindi il creare segmenti di democrazia diretta piuttosto che di democrazia delegata. Dunque, è stato un giocoforza la presentazione poi all’interno del quadro militante del Manifesto qui a Roma (parliamo di 200-300 militanti) della rottura, quindi di tutta la parte che ha fatto riferimento alla centralità operaia. Ci interessava quasi esclusivamente quella, forse con qualche errore perché poi avremmo dovuto sistemare nel dibattito tutti quei compagni che erano giovani, che provenivano dagli studenti medi e questi in quell’anno (1972-’73) a Roma erano una generazione formidabile, che a 13-14 anni già stava rivoltando le strade di Roma, e altrettanto gli universitari, per non dire che la struttura del comitato d’agitazione borgate aveva già trovato delle evoluzioni e che quindi eravamo già posizionati all’interno del dibattito con il movimento operaio.

Comunque sia, le quattro situazioni (comitato politico dell’Enel, collettivo del Policlinico, comitato operaio, la CUB dei ferrovieri) danno vita alla sede di via dei Volsci. Ciò con il documento politico fatto dalla tesi di uscita dal Manifesto, che produce chiaramente la nemicità nei confronti di questo sistema, il rifiuto del lavoro, l’aggressione al nazionalismo per l’ipotesi sostanziale di un vissuto e di un collegamento costante internazionalista, e lo sparare a zero nei confronti di qualsiasi passaggio istituzionale: questi sono i quattro prodromi a partire chiaramente da quello che in quel momento si viveva, che era l’autonomia operaia. Intorno all’apertura di questa sede si situa subito una grossa responsabilità che è quella di cui non abbiamo fino a questo momento parlato, ossia la reazione borghese, la strage di Stato del ’69 e la verifica che non è possibile esercitare l’attività politica di riscossa delle masse proletarie senza l’uso della violenza, senza la capacità cioè di difenderti, di saper contrattaccare, di essere preparato non solo a usare le armi della critica ma anche la critica delle armi. Quella fu un’altra lezione estremamente importante che era stata in qualche misura già appresa all’interno del Partito Comunista che arrivava, già durante gli anni ’67-’68-’69, a chi aveva responsabilità, a partire dal segretario di sezione, con le indicazioni velocissime di asportare dalle sezioni le tessere dei militanti, perché c’erano dei motivi giusti che poi avremmo compreso successivamente nella nostra storia. Il golpismo è sempre stata un’attività presente, del resto i colonnelli greci andavano al potere nel ’67, l’attività sei fascisti c’era sempre stata e quello che è avvenuto all’università lo testimonia. Dunque, la strage di Stato fece da campanello d’allarme, fece anche determinare una crescita improvvisa da parte di quelli che avevano un’età compresa tra i venti e i trent’anni, che dovettero assumersi anche la responsabilità di contrastare le attività golpiste di fronte a una situazione che li vedeva quasi soccombenti, tenuto conto che la strage era stata dichiaratamente segnata a sinistra con l’assassinio di Pinelli, l’arresto di Valpreda ecc. Quindi, nasce il comitato contro la strage di Stato, di cui ne facciamo parte come comitato politico dell’Enel e come collettivo del Policlinico, che già all’epoca dell’anno ’70 veniva riconosciuto, nel contesto dei grandi gruppi (Potere Operaio, Lotta Continua, Avanguardia Operaia ecc.), come uno degli elementi non di natura lavoristica ma di natura complessiva.

Dunque, partecipiamo a tutti questi eventi a partire dai grandi conflitti che avvengono soprattutto sulla piazza di Milano, con il 12 dicembre 1970, ’71, ’72 e via di seguito, con la grande partecipazione di un movimento che sposta pullman a non finire, con gli scontri di piazza estremamente duri. Già tra la fine del ’69 e la primavera del ’70 c’è la scoperta e l’utilizzo della bottiglia molotov, qui a Roma a partire in particolare dalla venuta di Nixon in Italia, che dette luogo a degli scontri decisivi, non riuscimmo mai a vedere neanche l’ombra dell’ambasciata americana ma ci si scontrò ripetutamente all’interno dell’emiciclo della stazione e nelle zone limitrofe. Ciò dette il là ad una capacità di dire: “Non possiamo limitarci ad avere dei gesti platonici di fronte all’aggressione dell’imperialismo a questi livelli, quindi noi dobbiamo avere la libertà di sostenere la caduta dell’imperialismo americano in Vietnam e la soluzione per i palestinesi”; questo era l’impegno profuso e scritto oltre che praticato da queste prime dieci squadrette di compagni che, tra l’altro a livello ridicolo, facevano le prime molotov con le bottiglie della Coca Cola e verificavano che non si rompevano, questo era l’avvio attraverso quanto trasmesso dai partigiani che all’epoca avevano qualche anno più di noi. Quindi, strage di Stato, comitato contro la strage di Stato, comitato per la libertà di Valpreda, manifestazioni, bombe da tutte le parti, assassinii dei compagni soprattutto sulla piazza di Milano ma anche Roma non è da meno, blindatura di ogni situazione, arresti.

E tutto questo chiaramente formula le difficoltà nel passaggio di ulteriori avventure in questo caso, l’apertura della sede di via dei Volsci è sicuramente un’impresa titanica perché è vero che è l’epoca di gruppi, gruppetti e gruppettini, che danno la rappresentazione che qui in Italia c’è un’altra forma della politica, non ci sono solo i partiti tradizionali che si contendono il potere. Dunque, i gruppi, 100 o 1000 militanti, rappresentando un’altra faccia sicuramente estremamente anti-istituzionale anche tra i più moderati, dimostrano la possibilità di indicare che la politica si riappropria dal basso. Questa è una storia fondamentale, difficilmente si ritrova in altri contesti mondiali o limitrofi qui in Europa, si ritrova magari con l’esperienza del movimento studentesco tedesco, Rudy Dutschke soprattutto ecc., che poi si riverbererà anche all’interno del movimento antinucleare tedesco, ma non in quello francese ad esempio, che è dominato invece soprattutto dalla componente tradizionale filosovietica e da quella trotzkista. La variabile, la stranezza italiana è appunto che c’è spazio per tutti, forse per troppi; tutto questo surroga la possibilità della democrazia qui in Italia, poi in definitiva deve essere questo, la capacità di poter respingere il diktat o le trame che si svolgono tra la CIA, i servizi segreti e il partito dominante è stato sopportato grandemente dalle spalle dei gruppi della sinistra rivoluzionaria, in cui eravamo in parte un riferimento anche noi. L’impresa di via dei Volsci a ritroso in effetti si sbaglierebbe a non definirla titanica perché come si può pensare che un centinaio di lavoratori innanzitutto, con una ventina di piccoli quadri complessivi, si mettano in testa di poter affrontare uno scibile così grande, la rottura anche dei capitoli di una base teorica da una parte e storica dall’altra, che ha delle esperienza enormi sul campo nazionale e internazionale? Quindi, è proprio la desunzione di una possibilità da ripetere in ogni occasione, se tu vuoi creare le condizioni per rivoluzionare il sistema questa è una delle esperienze da poter fare, poco importa se si è in 100, in 10 o in 50, il problema è di avere e mantenere un sano radicamento in mezzo alla classe, di fare al massimo un passo o due in avanti e non farne di più per non fare ruzzoloni, di non creare separatezze d avanguardismo tra quanto uno si promette di fare e l’impossibilità di farlo, il che crea chiaramente anche le forme terroristiche, quindi c’era il rifiuto del terrorismo in quanto tale. Dunque, questo ci permise di costruire un magma, un tessuto, un riconoscimento attorno a noi, e immediatamente, senza cristallizzarsi mai (perché questo è stato il principio), di andare a cercare i nostri simili. E ciò lo si è trovato immediatamente nel confronto, avendo ben perpetuato il concetto, il sostegno (questo all’inizio probabilmente molto gramsciano) che l’epicentro di una forza politica è relativa soprattutto, in termini marxiani, alla centralità operaia: e quindi, dove se non a Milano, a Torino ecc.? Dunque, partiamo, andando a trovare quelli che non conoscevamo, l’assemblea autonoma di Mirafiori, che poi troveremo e diventiamo fratelli e amici con Alfonso Natella, che sfiora l’assemblea autonoma ma ci permette di contattare e di fare esperienze per tutti quei primi anni, dal ’69, ’70, ’71, con gli operai di Rivalta e di Mirafiori, dormendo nelle loro case, facendo intervento ai cancelli insieme a loro.

Distaccandoci chiaramente dalle nostre vicende anche romane, ciò ci permette questo accumulo, questa riconoscibilità, alla stessa stregua l’assemblea dell’Alfa Romeo, il comitato politico della Sit-Siemens, quello della Pirelli, poi l’assemblea autonoma di Porto Marghera che era l’altro corno della situazione. Ma non c’erano anche qui dei capisaldi generali più importanti o meno importanti, c’era l’esperienza che insieme ad altri avevo fatto nella rivolta dei tecnici, sempre altra espressione di quell’epoca, che in più posti di lavoro dove erano presenti figure, appunto i tecnici, i quadri intermedi insomma, ci permise chiaramente di collocare questa esperienze di natura politica e sindacale insieme e a sostegno del movimento operaio piuttosto che a essere subordinati al ciclo produttivo e quindi al capitale. Questa fu un’altra possibilità che ci permise di mantenere rapporti a Bologna con la Ducati e con la Sasib, che erano due medie fabbriche ma importanti e decisive, a Firenze con la Galileo: questo per dire che il tessuto era molto più vasto, e a Sud con l’Italsider di Taranto e soprattutto a Napoli con l’Ignis e addirittura con una formazione politica che era il PCI-ML Lotta di Lunga Durata, quindi una formazione maoista, la linea rossa uscita dal disastro del PCd’I, e tale formazione ebbe un comportamento correttissimo e felicissimo nei nostri confronti.

Ci fu tutto questo magma preso insieme, questo passaggio, questo lavorio dell’anno ’72, questa apertura del giornale Potere Operaio del lunedì, questo dibattito fecondo, questa richiesta di scioglimento dei gruppi più afferenti alla centralità operaia, cosa che una buona parte di Potere Operaio fece, un’altra parte scelse di dedicarsi a processi interini alla nascente cosiddetta lotta armata. Tutto ciò ci permise di arrivare a quella convocazione del marzo del 1973 che era una specie di stato generale dell’autonomia operaia senza a e senza o maiuscole, tant’è che storicamente verrà definita così: l’assemblea di Bologna del marzo del ’73 è lo stato generale dell’autonomia operaia, si è lì a descrivere questa forma di movimento, questa possibilità di sfondamento nei confronti delle istituzioni rappresentative, questa alternativa al riformismo, questo rifiuto dell’unico partito esistente ecc., attraverso quelle piccole tesi che sono documentate nel libro “Antologia dell’autonomia operaia”. Questa è l’altra fase, la partenza qui da Roma, almeno dal punto di vista di chi sta parlando, la ripartenza ci mancherebbe, a Milano ci sono le espressioni compiutissime dell’Alfa, della Sit-Siemens, capaci di aver fatto imprese estremamente eccezionali, di aver creato loro poi quello che è stato il vero e autentico autunno caldo dal punto di vista epicentrico, il sabotaggio delle merci, il salto della scocca, il rifiuto del lavoro, lo sciopero lavoratore per lavoratore, a scacchiera ecc., sono tutte invenzioni di quell’autonomia operaia lì, che hanno determinato loro.

Ciò è stato poi riassunto dai sindacati nella tematica dei consigli; tutta la sinistra operaia e rivoluzionaria storica, quella che nasce alla vigilia del ‘900 e che poi si riverbera sotto il leninismo e viene falcidiata da questo, si trova in quell’aspetto consigliare, e quindi nella nascita dei consigli dei delegati spontanei, nella decisione fatta prima a Mirafiori, poi a Rivalta, poi all’Alfa e poi via via pure qui giù da noi all’Enel, al Policlinico ecc., e poi la scimmiottatura della sinistra sindacale dà vita invece a una forma istituzionale che trova spazio poi nello Statuto dei lavoratori come forma evolutiva di un sindacato verso la riunificazione. Ecco, credo che questa sia la base costitutiva di quello che diede appunto vita all’esperienza dell’autonomia operaia senza a e senza o maiuscole, un tentativo che poi lì non riesce, come non sono riusciti altri tentativi, di dar vita ad una compagine plurale, duttile, capace di saper essere rappresentativa del tutto. Anche perché, nonostante l’appartenenza all’unica barricata, c’erano compagni plurimi di questa vicenda, Potere Operaio del lunedì ha dato molto contributo alla nascita di questo, probabilmente non ne poteva fare a meno perché Potere Operaio era già in scioglimento, poi una parte di esso già guardava di malocchio l’esperienza dell’autonomia operaia ritenendo chiaramente un’altra l’avventura da percorrere, ossia quella della lotta armata. Quindi, c’era da parte loro il pensare immediatamente che già intorno al ’71-’72 si erano aperti i giochi rivoluzionari qui in Italia, quando invece il bastone del comando ancora una volta lo manteneva la borghesia alleata all’imperialismo mondiale, per cui aveva potuto permettersi una strage di Stato, aveva potuto permettersi di avere questa internazionale nera come cordone ombelicale intorno all’Italia, in Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia, Turchia ecc. Quindi, questi sono gli errori di valutazione che sembrano di una forma soreliana, avventurista in assoluto.

E’ vero che hanno contribuito a tutto questo anche gli esperimenti della soggettività di Feltrinelli, che nell’aggancio con qualche forma di partigianesimo aveva visto nel golpismo del generale De Lorenzo e di tutta la casta legata alla CIA e alla NATO la necessità di essere preparati, tutt’al più una forma di natura gappistica. Quindi, c’era questa forma estrema di soggettività (poi espressa da una figura che va moltissimo rispettata però più di questo no, da un punto di vista politico era di un’impoliticità tremenda) prepara e predispone almeno alcune forme dell’intellettualità a questa tipica scelta avventuristica che si ripropone nella storia. E altrettanto in alcuni pezzi di Potere Operaio (penso a Piperno più che a Negri) c’è un invaghimento per questo passaggio, si scrive su quelle colonne che già nel ’71 si è esaurito il ciclo dell’autonomia operaia e quindi si comincia lì quanto meno a smarronare.

Non c’è proprio paragone, non c’è proprio possibilità di confronto nel sostenere che si era concluso un ciclo quando invece il ciclo comincia ad aprirsi nel ’69 e non voglio dire che si debba per forza concludere nella caduta dei 51 giorni della Fiat nel 1980, ma più o meno possiamo raffigurarlo in questo periodo piuttosto che in altre scimmiottature. E alla stessa stregua, soprattutto a partire da piazze del Nord, dove probabilmente il tessuto militante era molto più accentuato o era altrettanto accentuato, ci sono episodi di legittima difesa, di violenza nei confronti delle cose, nei confronti anche delle persone, dovute a questo massiccio sfruttamento del movimento operaio in quelle latitudini, che non trovando il posizionamento di una vicenda marxista all’interno di quel territorio hanno preferito dedicarsi o far spendere tutta la soggettività possibile in un’azione quasi irrefrenabile di conflittualità armata, che più che altro poi ha rappresentato episodi di propaganda armata più che episodi di capacità contraente, di rapporto di forza effettivo. Perché se la lotta armata non può essere che una variante temporanea di un’attività politica deve poter costruire uno sbilanciamento dei rapporti di forza, deve saper far guadagnare qualche passaggio piuttosto che farlo arretrare.

E lì invece, senza nessun controllo, di solito poi cosa succedeva? Se dovesse essere stato fatto minimamente il paragone con il movimento partigiano, è abbastanza noto che di fronte nelle formazioni partigiane armate, di fronte ai combattenti c’era sempre il commissario politico: ciò non era solo una forma di controllo contro gli eccessi, ma era la capacità di saper completare l’indirizzo di quella attività. Perché se quella attività era senza indirizzo, se io costruisco delle bande per creare difficoltà al nemico e invece sposto tutta l’attenzione sui soldi, sulle rapine a titolo si dice politico, poi magari diventano a titolo personale, o su effetti nefasti nei confronti della popolazione, che non sono solo quelli delle ruberie ecc., ma che potrebbero essere gli stupri o cose ancora peggiori, errori di valutazione del campo di battaglia: bé per questo c’erano i commissari politici che comandavano più dei capi militari sotto questo profilo. E questo contesto non c’è mai stato, con un’attenta riflessione non si sarebbero mai connessi gli eccessi né sul campo né nella valutazione. Quindi, c’è stato fin già dall’inizio di quello che è il processo veloce di un tentativo di produrre autorganizzazione e autogestione all’interno dell’autonomia operaia, un tentativo di denegazione, di sottrazione, un lucrare anche su quelle forze che facevano lavoro di costruzione importante all’interno dell’epicentro della fabbrica e del territorio per arrivare a creare i presupposti di questo avventurismo successivamente. Perché si sfruttava poi la possibilità di ritenere questi compagni come compagni comunque e quindi non compagni neanche che sbagliavano, poi magari usata anche quella definizione, si conoscevano anche parecchi di loro, e non si poteva arrivare a concepire che potessero essere offerti impunemente alla repressione, allo Stato borghese.

E’ negli anni successivi, all’indomani proprio dell’aver compreso fischi per fiaschi, di avventura in avventura fino al sequestro Moro, dell’aver capito che quello era l’epicentro dello Stato e quindi di aver fatto completamente a cazzotti con qualsiasi teoria e prassi marxista sotto questo profilo. Ma io mi limito qui in questa risposta, tenuto conto che il percorso comunque dell’iniziale formazione fino alle responsabilità completamente in prima persona nella costruzione di un percorso rivoluzionario significativo qui in Italia ha comportato chiaramente quest’avvio.

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