La complessità degli elementi che convergono – Intervista a Toni Negri del 13 luglio 2000
Riprendiamo di seguito da Conricerca questa interessante intervista a Toni Negri del 13 luglio 2000 in cui ripercorre il suo percorso politico ed alcuni tratti salienti delle sue teorie. Buona lettura!
Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale? Ci sono state persone e figure che hanno avuto una particolare importanza in tale percorso?
Io vengo da un’esperienza assai specifica che è quella di una famiglia laica nel Veneto, una famiglia di origini emiliano-lombarde, mia madre è mantovana e mio padre è bolognese, piccoli proprietari terrieri fascisti la famiglia di mia madre e comunisti quella di mio padre, famiglia di operai. Mio padre è morto quando avevo due anni, era un comunista che era stato perseguitato a lungo per questa tradizione, mia madre era praticamente neutrale dal punto di vista politico; la tradizione comunista me l’ha insegnata mio nonno con il quale ho vissuto parecchio a Bologna. Dopo di che ero un bravissimo studente, e nel Veneto degli anni ’40 e ’50 praticamente trovai (ma piuttosto tardi, intorno alla maturità, in seconda liceo credo) in un gruppo di amici che erano più o meno cattolici un’apertura di sinistra, perché in realtà né il Partito Comunista, un po’ più il Partito Socialista esistevano a Padova, avevano una bassissima rilevanza dal punto di vista culturale all’interno dell’università, e io cominciai allora, alla fine del liceo, vissuto in questo liceo padovano, a parlare di politica con questi compagni, che erano cattolici di sinistra assai radicali. Forse perché ero un ragazzo intelligente, scolasticamente molto produttivo, forse perché ero diverso nel senso che non avevo alcuna prevenzione, mi ritrovai promosso immediatamente alla direzione nazionale della Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica, nella quale trovai uno stranissimo gruppo di persone che facevano capo alla presidenza di Mario Rossi e in cui c’erano Umberto Eco, Emanuele Colombo (di Milano, credo che sia ancora il presidente della televisione Montecarlo) e via di questo passo. C’era in particolare un prete molto bravo, si chiama don Arturo Paoli, era un po’ quello che gestiva tutta la faccenda, su posizioni estremamente di sinistra, di rottura con quel mondo cattolico che era quello di Pio XII, di Gedda, cioè un mondo evidentemente reazionario da far paura. Noi sostenevamo la dissoluzione della Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica e la formazione, alla francese, di tre grosse sezioni, una di operai, una di studenti e un’altra di contadini, sostenendo che la grazia di stato era diversa nei vari casi: se uno era operaio avrebbe dovuto avere una predisposizione divina ad agire bene diversa dal fatto che era un contadino, nell’unità e nella grande comunità dei fini evidentemente. Di fatto ci espulsero dopo due anni, avevamo dato un notevole rilancio a questa Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica.
Io nel frattempo avevo cominciato a viaggiare molto, in maniera abbastanza raminga, in autostop, fondamentalmente in Europa; andai in Israele un anno, nel ’54-’55, quello fu per me un momento di grande educazione politica, perché vissi in un kibbutz comunista. In realtà di marxismo non sapevo praticamente nulla, mentre vissi invece sia queste pratiche cattoliche sia poi queste pratiche comuniste radicali del kibbutz, ero in un kibbutz dove non esisteva famiglia, non esisteva nulla, veramente esistevano sola la comunità e il lavoro. Io ho vissuto per un lungo periodo lì, poi sono tornato in Italia e fondamentalmente sono andato su e giù tra l’Italia, la Francia, la Germania e l’Inghilterra per due o tre anni, fino a che non mi sono laureato. Devo dire che se parlo dei miei maestri allora parlo ad esempio di questo formidabile matematico con cui ho vissuto in kibbutz, Suzy, che era un comunista egiziano il quale era stato in galera a lungo sotto Nagib, era stato liberato all’arrivo di Nasser ed era venuto lì, era un laureato di Cambridge; c’era poi un compagno bravissimo che era un assistente di Bloch a Tubinga. In Italia posso citare questo don Arturo Paoli ad esempio, che poi è stato espulso, faceva l’assistente degli immigrati quando andavano su e giù con le navi, poi lui è diventato piccolo fratello di padre Foucault ed è stato a lungo a lavorare nel porto di Algeri come docker; adesso è saltato fuori nei giornali e mi ha fatto un colpo strano perché è stato riconosciuto come uno degli amici di Israele perché aveva salvato degli ebrei durante la guerra, quando era giovanissimo e stava a Lucca, dunque sono venuti fuori questi grandi articoli. All’università ho conosciuto un po’ tutti ma senza legarmi a nulla, quando ne sono uscito ero praticamente un lukàcsiano. Ho fatto una tesi sullo storicismo tedesco che è stata poi pubblicata in parte da Feltrinelli subito dopo, nel ’58 (non c’era ancora la casa editrice, era l’Istituto Feltrinelli), era un pezzo, la prima metà della tesi su Dilthey, Meinecke, gli storici; ne avevo un’altra parte che non ho mai pubblicato (e chissà, un giorno o l’altro forse riprenderò su) su Weber e Troeltsch. Contemporaneamente, appena laureato (e qui in effetti cominciano i maestri) ho vinto il concorso all’Istituto Italiano per gli Studi Storici a Napoli, il quale era diretto da Chabod, e lì ho avuto il primo grosso contatto con una grande personalità scientifica; in più c’era un giro di colleghi e di gente che erano assai bravi e con i quali poi ho mantenuto amicizia. Insomma, con Chabod è stato un primo grosso contatto, soprattutto per capire che cosa era effettivamente il politico.
Nel frattempo, nell’ultimo anno di università, quando ero stato a Padova (perché prima avevo continuamente viaggiato) per fare la tesi e perché dovevo finire gli esami (e fare in fretta, con tutti i viaggi che avevo fatto durante il periodo universitario), avevo fatto il direttore di questa strana cosa che era mezza cattolica e mezza socialista, era l’Intesa Democratica, ma non quella che c’era a livello nazionale, che si chiamava semplicemente Intesa ed era un prolungamento della FUCI (Federazione Universitaria Cattolici Italiani); lì invece era una cosa strana che avevamo messo in piedi con questo gruppo di amici cattolici che stavano seguendo più o meno le mie stesse evoluzioni, infatti sono diventati tutti laici, tranne quelli che si sono fatti preti e sono partiti in missione via dal Veneto, è stranissima questa cosa. Ce n’è uno ad esempio che è diventato gesuita e ha lavorato per anni e anni nel nord-est brasiliano facendo dei corsi eccezionali, costruendo grandi cooperative di poveri, di contadini ecc., si chiama Umberto Pietrogrande, un altro era francescano, anche lui missionario in Africa: insomma, quelli che sono rimasti cattolici se ne sono andati. Tra quelli che sono rimasti qui c’era Paolo Ceccarelli, che è diventato architetto e che è stato rettore di Venezia, c’era Laura Balbo, quella che è stata anche ministro, e via di questo passo. Era un ambiente di estrema ed enorme vivacità intellettuale proprio in questa solitudine: adesso c’è la solitudine e non c’è più la vivacità intellettuale di allora. Poi noi nel Veneto stavamo vivendo una cosa assolutamente incredibile, cioè questa trasformazione, tra gli anni ’50 e gli anni ’60 lì esplode il capitalismo, si capisce che cos’è il capitalismo pezzo per pezzo: questo è assolutamente incredibile. Quando io ero bambino, durante la guerra, quando ero stato sfollato in campagna, c’era veramente un paese di contadini poveri che emigravano, che stavano via, tornavano con quel po’ di soldi quando tornavano; ciò anche rispetto al mantovano, dove andavo spesso dai miei nonni in campagna, i quali avevano una piccolissima impresa, si mangiava il pane bianco, c’era il formaggio, invece nel Veneto non c’era veramente niente, proprio miseria. Lì invece cominciano a nascere le fabbrichette, gli emigrati iniziano a non partire più: lì comincia la scoperta della grande fabbrica. Dal punto di vista accademico io sono stato molto fortunato, subito dopo Napoli ho fatto un anno in Francia, poi ho fatto il mio secondo libro che era la mia seconda tesi, sul giovane Hegel, che è anche quella una tesi completamente e fondamentalmente lukàcsiana, con Hyppolite alla scuola normale superiore a Parigi; poi torno e nel ’58-’59 faccio immediatamente la libera docenza, che era questo esame che c’era allora. Mi iscrivo al Partito Socialista a Padova, che era una sezione di sinistra, e lo faccio con questi altri compagni (Ceccarelli, la Balbo e via di questo passo): ci iscriviamo al Partito Socialista perché ci sembra libero da incrostazioni staliniste che ci davano molto fastidio fin da allora. Lì comincia l’amicizia con Guido Bianchini, Tolin, formiamo questo primo gruppo di compagni all’interno del Partito Socialista, e ci incrociamo con Panzieri attraverso Mimmo Cerallo, che era il segretario della federazione ed era uno che era stato mandato lì da Morandi e dal suo gruppo. Io mi incontro con Panzieri e comincio andare su e giù da Torino a queste riunioni più o meno mensili dei Quaderni Rossi, inizio a frequentarli dalla formazione del primo numero ed entro nella redazione con il secondo numero. Intanto la mia carriera universitaria era completamente bloccata per le mie posizioni politiche, in più sono a Giurisprudenza che è una facoltà particolarmente reazionaria, infatti resto come assistente straordinario, guadagnavo niente, vivevo facendo traduzioni di libri gialli e bollettini editoriali, tutto questo lavoro assolutamente precario, era quello mi dava da vivere. Lì c’è questo professor Opocher che mi dà effettivamente una mano, mi stima, mi vuole bene: faccio dunque un libro sul formalismo post-kantiano, è un testo molto accademico, molto filologicamente piantato, ha avuto fortuna persino in Germania tra gli studiosi appunto del periodo post-kantiano. E’ un libro che faccio fondamentalmente sui fondi di Ravà a Padova e sul fondo Martinetti a Torino, una biblioteca, andavo su e giù, facevo Quaderni Rossi e il libro, che esce nel ’62. Nel frattempo traduco Hegel per Laterza, “Gli scritti minori di filosofia e diritto”.
Allora, i maestri e la formazione. Se oggi ci penso è la cultura di sinistra, recepita da un angolo di provincia nella quale questa cultura di sinistra si presenta immediatamente come bisogno di azione, c’è questa componente di azione che è veramente fondamentale, prima cattolica poi socialista. Noi praticamente cominciamo ad andare davanti alle fabbriche immediatamente attorno alla faccenda Tambroni: io penso che le prime volte che sono andato a vedermi queste fabbriche da fuori e capire cosa erano, a cercare e ad aspettare gli operai che uscivano per sapere quali erano i problemi che c’erano stati, per cercare di capire con molta umiltà, sia stato nel ’58-’59. Poi scoppia il gran casino nel luglio ’60 e lì il divertente della storia è che io a quel punto sono già segretario della federazione: quella di Padova è praticamente la federazione socialista più grossa del Veneto, siamo maggioritari anche nei confronti dei comunisti, il segretario della Camera del Lavoro è socialista, c’è una sinistra socialista. In pratica mi trovo a gestire le lotte, senza capire niente devo dire, con questo deputato comunista che si chiama Busetto, con cui ci vedevamo continuamente, lui andava su e giù da Roma e consigliava la prudenza: sta di fatto che lì faccio un gran casino e mi prendo le prime denunce per comizi infiammati. Poi, nello stesso luglio del ’60, parto per l’Unione Sovietica, siamo tutta una serie di giovani che si sono messi in vista durante i fatti di quel luglio: c’è Cossutta, che allora è il segretario di Milano, c’è Alinovi, il segretario di Napoli, c’è il segretario di Ravenna. Siamo insomma in una decina e veniamo ricevuti da Suslof, è veramente una storia assurda: mi sono ammalato se Dio vuole, proprio un rifiuto psicosomatico, mi sono preso una di quelle polmoniti feroci, così dopo un paio di mesi sono tornato giù e credo che quella sia stata veramente la mia unica e sola esperienza, dopo queste visite ai kolchoz, ai sovchoz, alle fabbriche, un casino insomma. Nel frattempo invece ero stato parecchio in Jugoslavia, dove ci vado fin dal ’56-’57, ancora quando ero nell’Intesa Democratica, ci vado come rappresentante dell’Unione Nazionale degli Studenti Italiani ad un convegno che capita nel ’56 e quindi proprio in un momento grosso della prima grande crisi del mondo socialista: lì appunto si anticipano un po’ dei discorsi, già quello che succederà poi in Polonia. In quell’occasione prendo contatto soprattutto con dei francesi, degli amici con cui poi sono rimasto in rapporto, ad esempio Jean-Marie Vincent, con cui adesso abbiamo diretto insieme Futur Anterieur a Parigi, ha la mia stessa età e lui era rappresentante dell’UNEF, l’Unione Nazionale degli Studenti Francesi: ci siamo dunque conosciuti là e lui, non io, era un perfetto conoscitore della letteratura marxista. Quindi, la mia formazione avviene in questa maniera, è completamente all’interno del mondo della cultura di sinistra. C’è questo fenomeno enorme, che è l’egemonia sulla cultura italiana che è imposta, stabilita, diretta, tenuta dal Partito Comunista dalla fine della guerra in su: io cresco completamente come un buon allievo di questo, salvo appunto questo bisogno di azione, che credo poi fosse la cosa che avevano tutte le persone sensate, che passa attraverso il cattolicesimo, l’esperienza in Palestina, in Israele, poi l’entrata nel Partito Socialista. Per tutto questo, lo dico sempre, io sono diventato comunista molto prima di essere diventato marxista: prima conoscevo Marx, ma era una cosa scolastica, dietro le categorie non vedevo dei soggetti, restava questa brava filosofia oggettiva, dialettica, non vedevo soggetti, non vedevo storia, non vedevo lo sfruttamento per quello che è e non come formule matematiche. E’ appunto nel periodo dei Quaderni Rossi che comincio a leggere e a lavorare, praticamente subito dopo aver finito (nel ’60-’61) la produzione accademica, quella che mi serve per andare in cattedra, che è fondamentalmente orientata a sinistra ma dentro il clima della sinistra italiana: il marxismo comincio a toccarlo solamente allora, cioè più tardi. Nel frattempo facciamo un giornale che si chiama Il Progresso Veneto, che è settimanale, funziona per due anni come federazione, e comincia a rovesciare sulle fabbriche il discorso politico socialista, dei Quaderni Rossi. Questo giornale dura due o tre anni, credo fino al ’62-’63, è lì che dopo passano i giovani, i Cacciari, gli Isnenghi, tutti questi qui sono lì dentro. Questo era un giornale in cui si parlava di politica veneta e nazionale, poi, a partire dalla metà della sua storia (il ’61 circa), all’interno c’è un inserto che si chiama Potere Operaio: questo inserto poi si sviluppa, perché intanto Bianchini va ad abitare a Ferrara e prende contatto con tutta una serie di persone che sono lì attorno, e praticamente nasce quello che è poi il Potere Operaio veneto-emiliano, a partire all’incirca dal ’63. Potere Operaio veneto-emiliano è poi assolutamente fondamentale nella rottura dei Quaderni Rossi, assieme ad Alquati, a Faina e ai romani: però in realtà siamo i soli che abbiamo un intervento, quello che succede anche adesso nell’autonomia in cui i veneti sono gli unici piantati lì, è una cosa cominciata a quel tempo. Praticamente allora abbiamo portato fuori l’intervento tra Padova e Venezia, io mi ero sposato nel ’61, ho abitato a Padova poi sono andato ad abitare a Venezia, mia moglie era veneziana, lavoravo a Padova, quindi andavo su e giù e mi fermavo a Marghera: invece di partire alle 8 partivo alle 6, mi fermavo a Marghera, poi andavo a Padova a lavorare, e alla sera facevo le stesse cose. Lì comincia praticamente quello che era il grande trasferimento verso l’autonomia di classe (che prima si chiamava Potere Operaio e poi si chiamerà con tutti gli altri nomi) di queste avanguardie operaie e di queste avanguardie studentesche.
Qual è il giudizio politico che dai dell’esperienza dei Quaderni Rossi e delle varie posizioni che c’erano al suo interno? Qual è il tuo giudizio politico su Panzieri?
Panzieri era uno che veniva da un’esperienza nazionale di direzione di un partito frontista: era un uomo estremamente intelligente, completamente succube della cultura della sinistra, con pochissime esperienze concrete di movimento operaio. Era però un uomo molto legato alle esperienze internazionali della sinistra operaia, in particolare ai francesi e anche con una buona cultura della sinistra comunista tedesca. Insomma, per parlarci chiaro, se non ci fosse stato si sarebbe dovuto inventarlo, è stato un passaggio fondamentale. Sono cose che poi si sanno benissimo appena si ha un po’ di esperienza, è quello che fa uscire l’opposizione dal provincialismo, dalla chiusura locale; i trotzkisti non c’erano riusciti, in Italia non c’è una storia dell’opposizione di sinistra comunista fino ai Quaderni Rossi, tutte le piccole esperienze che si erano sviluppate erano fallite, se non appunto l’esperienza trotzkista che non si è mai radicata anche quando ci sono questi grandi episodi, che mi hanno raccontato sempre, dei quartieri torinesi ecc. Questo fortunato incrocio tra questi giovani intellettuali romani della sezione studentesca universitaria e Panzieri, questo socialista presso Einaudi, però con una storia dietro di contatti a livello della cultura, permette quella che è la polarizzazione di un discorso di sinistra, che è legato a esperienze che sono già in corso ma che vengono per la prima volta portate alla luce: quando il gatto selvaggio esplode alla Fiat nel ’62-’63 chi ne avrebbe mai parlato se non fosse stato per questi resau dei Quaderni Rossi che già si formavano? Quando nel ’63 c’è il primo grande sciopero “spontaneo” al Petrolchimico di Porto Marghera, con la fermata degli impianti, una cosa mai vista, chi ne parlava se non esisteva questa rete già a tendenza nazionale e con contatti internazionali, già con una capacità, con un linguaggio che si esprimeva?
Quanto poi alle lotte interne ai Quaderni Rossi, alla fondamentale idiosincrasia che esiste tra alcuni personaggi lì dentro o alcuni gruppi, sono lotte attorno al linguaggio, che poi si esprimono, come spesso succede, con accuse reciproche di opportunismo feroce: ma, insomma, adesso guardandole con un distacco sono cose normali. Mi è capitato di litigare lì dentro con gli uni e con gli altri, anche se devo dire, assolutamente senza nessuna arroganza, che effettivamente essere, come eravamo io ed alcuni miei compagni, più legati a quelle che erano delle esperienze così ci permetteva di essere anche molto più cinici nel considerare e probabilmente scegliere bene, perché poi abbiamo sempre scelto bene in tutto quel periodo, cioè abbiamo scelto la continuità dell’esperienza sul radicamento operaio: l’abbiamo credo perfezionata, portata avanti, estesa nei tessuti, per esempio nel Veneto abbiamo condotto una lotta contadina, di contadini nel capitalismo agrario, penso che pochi siano riusciti a farle delle cose del genere, in Francia poi le ho viste fare però lì è stata veramente una cosa eccezionale. Ciò con un radicamento profondo e (questa è stata una grande cosa) sapendo fare una politica operaia, cioè senza avere paure o schifii di tipo anarcoide: ad esempio io credo che una cosa molto importante e anche un elemento di lotta nei confronti di parecchie persone, proprio a partire dall’interno dei Quaderni Rossi, è quello di avere un concetto di organizzazione. Quanto alle liti lì dentro erano evidenti. Da un lato c’era una componente, come chiamarla?, bordighista, di sinistra comunista, con elementi anarchici forti, chiamiamola componente cremonese, che si nutriva del rapporto con questi operai meridionali, che era fondamentalmente gente che stava educandosi alla lotta di classe industriale: attorno alla componente cremonese sono Alquati, Pierluigi Gasparotto, la Monica Brunatto, poi c’è Faina, il quale poi porta alle conseguenze estreme (è una persona a cui ho voluto un bene dell’anima, ho continuato a vederlo anche all’interno dell’Autonomia, poi ci siamo visti in galera poco prima che morisse in maniera tragica). C’è tutto questo gruppo che, effettivamente, è stato fondamentale nella rottura con Panzieri al momento del passaggio a Classe Operaia, che però evidentemente poteva nutrirsi del rapporto con i romani, i quali tuttavia hanno sempre agito in una maniera estremamente ambigua, e poi con noi, cioè con l’ala diciamo del nord-est, che però comprendeva anche l’Emilia, soprattutto a Bologna c’era un radicamento profondo, da cui è poi uscito il movimento studentesco bolognese, dai Bifo a tutti gli altri.
Qual è la tua analisi e il tuo giudizio politico su Classe Operaia, sulle varie posizioni e sul suo dibattito interno?
In Classe Operaia il problema era molto semplice: il discorso non ha mai decollato perché Classe Operaia aveva una struttura di partito ed è stato in realtà un gruppetto di intellettuali. Dal punto di vista dell’influenza teorica e politica è fuori dubbio che Quaderni Rossi sono stati molto più importanti (qui parlo di Quaderni Rossi fino alla rottura perché poi anch’essi diventano un gruppetto). Classe Operaia è una cosa importante dal punto di vista della formazione: per esempio nel Veneto forma veramente una cinquantina di quadri di prim’ordine, che si trovano tra il ’63 e il ’67, ma questo vale anche per Milano, Como, vale a Roma per i Piperno, i Ceccotti, questi gruppi asorrosiani, che poi costituiscono l’asse portante di tutta una serie di cose, la matrice è quella lì. Dal punto di vista di formazione e di estensione di discorso è molto importante, e poi nella generalizzazione di pratiche di intervento, ma senza grandi innovazioni e invenzioni teoriche: quello di Classe Operaia è soprattutto un momento di grande processo formativo. Dal punto di vista del dibattito politico interno, io penso che la teoria valga sempre quando si confronta con le cose, ho sempre molti dubbi quando vedo la gente litigare attorno a cose insussistenti, linee: in Classe Operaia c’erano veramente molti litigi, in particolare ce n’era uno ed era quello sull’entrismo, sul quale, devo dire, le ambiguità sono state enormi da parte di tutti, tranne i veneti-emiliani. Perché poi c’era una cosa stranissima che stava succedendo: noi, proprio perché uscivamo da quella esperienza di cui parlavo prima, della modernizzazione, della costruzione del sistema industriale, ci trovammo anche a fondare i sindacati. Entrati cioè in quella fase eroica, che era quella della formazione proprio della scoperta dell’interesse economico collettivo da parte di questa classe operaia che arrivava per la prima volta, noi moltiplicavamo le lotte sapendo perfettamente che alla fine di queste lotte c’era la costituzione di un sindacato interno; evidentemente noi imponevamo anche i comitati nello stesso momento, però i comitati si prendevano la direzione del sindacato nella vecchia commissione interna, era la prima cosa che facevano molto concretamente, e non c’erano molte illusioni su questo. Noi all’entrismo da un lato non ci credevamo per nulla, avevamo un senso molto preciso di quello che era un rapporto di forza da stabilire comunque con questo grande pachiderma che era l’organizzazione sindacale e politica, attaccavamo i suoi contenuti politici riformistico-opportunisti fino in fondo, ma ci interessava essere presenti sui livelli istituzionali in termini maledettamente concreti e senza avere la merda sotto il naso. Ci trovavamo spesso in situazioni di compagni che in realtà non avevano invece alcun tipo di rapporto sia perché il controllo del sindacato era più forte, sia perché il controllo del padrone era più forte, bisogna ricordarsi che la Fiat in quegli anni lì è una situazione tremenda, anche se comincia a costruirsi qualcosa qua e là, la situazione alla Fiat si rovescia nel ’68 e matura nel ’69: mi ricordo in tutti quegli anni con Classe Operaia andavamo in giro a distribuire i volantoni, queste dichiarazioni contro il piano, andavamo in giro dappertutto ma in realtà lì la sentivi la situazione, a parte alcune fabbriche (che proprio si contavano sulle dita) non c’era rapporto alcuno. Per non parlare poi di quello che era l’altro tema, che era la socializzazione del salario operaio e quindi la necessità di seguire i rivoli di questa socializzazione e di riuscire a capire un momento dove si ponevano scontri di potere nel sociale: anche questo si tentava di fare, noi in particolare avevamo la fortuna di agire in determinate situazioni. Ad esempio ci fu una cosa estremamente importante nel Veneto, che poi proseguì, furono le prime lotte sui trasporti, che cominciarono già negli anni ’60. Questi primi momenti di lotta sociale c’erano stati nel Veneto perché noi avevamo questo enorme vantaggio: dato che c’era questa concentrazione di fabbriche su Marghera e un’identificazione sul territorio (non un’identificazione immediatamente metropolitana ma diffusa) di centri da cui venivano gli operai, il problema dei trasporti si è quindi posto dall’inizio come uno dei problemi assolutamente centrali, fondamentali, ma da tutti i punti di vista; per esempio, era più facile fare intervento sui trasporti, sedersi con gli operai per prendersi il treno, che so, da Treviso a Porto Marghera o distribuire i volantini sugli autobus. Avevamo poi, per esempio, cominciato un’altra cosa molto bella, che avevamo fatto sempre in quegli anni, ed era l’intervento lungo il Brenta, nelle fabbriche, andavi lì e scoprivi queste cose incredibili già allora, trentamila operai che lavoravano nei calzaturifici già a struttura completamente diffusa, con fenomeni di sfruttamento mostruosi, le morti, gente con la mano tagliata, salari da ridere, violenza sessuale tremenda, erano veramente delle cose spaventose e allucinanti quelle che succedevano; eppure lì riuscivi a mettere in piedi degli scioperi, col blocco delle strade. E tutto lo scoprivamo, perché il Movimento Operaio non ci aveva insegnato nulla da questo punto di vista, era tutto estremamente ufficiale, e noi scoprivamo queste nuove forme di lotta, era veramente una cosa di una forza fresca estrema.
Quindi, Classe Operaia secondo me può essere definita proprio come un grande periodo di apprendistato. Alla fin fine anche il dibattito su entrismo o no, quello posto dai romani, da Tronti in particolare, è stato un dibattito, se si vuole, da questo punto di vista pedagogicamente utile, nel senso che per quanto riguarda me e le persone che mi erano più vicine (come Luciano Ferrari Bravo, questi grandi compagni di allora) lì è stato veramente fondamentale, anche per Cacciari devo dire, perché lui è uno che per esempio è riuscito poi a costruirsi una vita politica, dopo la rottura con noi del ’69-’70, con un cinismo totale nei confronti delle organizzazioni, passandoci, uscendoci. Quindi, Classe Operaia poi termina, perché fondamentalmente a Torino e a Milano non riescono a tenerla in piedi, poi i soggetti vanno in crisi; a Milano si tiene in piedi una continuità effettiva attraverso i compagni che sono lì e fondamentalmente Sergio Bologna, il quale rappresenta una grossa continuità da questo punto di vista, anche Giairo. Però Torino praticamente è completamente persa.
Poi c’è questa esperienza di Contropiano: è un mio tentativo completamente indipendente dal lavoro che in realtà si faceva, che continuava nelle fabbriche, che ormai era diventato Potere Operaio, che non è quello nazionale, è quel Potere Operaio veneto-emiliano, avevamo continui contatti con i pisani, con Della Mea fondamentalmente. Contropiano è un tentativo di tenere insieme questa sorta di discorso intellettuale, considerando che in fondo c’era una certa autonomia del discorso intellettuale come tale, che c’erano comunque dei relais universitari che era estremamente importante tenere congiunti proprio come produzione di discorso culturale in quanto tale. Quindi, questo è stato per me un tentativo al quale Asor Rosa è stato, salvo il fatto che poi ci troviamo in mezzo al ’68, a quel punto lì come fai?, non è che si poteva più mantenere la relativa autonomia del discorso culturale e universitario. A quel punto comincia un’altra storia, lì cambia proprio il paradigma.
Rispetto a Classe Operaia, qual è il tuo giudizio su Tronti, Alquati, Asor Rosa, Cacciari, Gasparotto, Berti, De Caro?
Cacciari per esempio c’è pochissimo, credo che non abbia mai scritto un articolo su Classe Operaia. I personaggi grossi di Classe Operaia sono Alquati senz’altro, Tronti, Asor; De Caro è già molto sullo sfondo, lui è un uomo eccezionale ma sarà infinitamente più importante nel periodo dell’Autonomia, dove ricompare, sostiene. De Caro, Grillo e questi qui sono persone che si vedono abbastanza nelle riunioni che si fanno, ma non mi sembra che siano importanti dal punto di vista del dibattito. Un personaggio che scompare sempre ma che invece è estremamente importante in queste cose è Sergio Bologna, c’è poi Mauro Gobbini, sono personaggi estremamente importanti in tutta questa storia. Anche Mauro è a Milano in quel periodo, lui è un funzionario della Rai, conduce le prime lotte lì e poi viene cacciato e lo mandano a Pesaro o lì vicino, poi finisce a Napoli e qui si mette a fare Potere Operaio. Poi c’era quel matto di Gobbi, vicino a lui c’era D’Este, c’era Faina. Ognuno aveva il suo pezzo di pazzia, mica si creda che fosse facile, quelle erano riunioni da diventare matti, ogni tanto veniva fuori qualcosa di intelligente, però per il resto veramente se non avevi voglia di perdere tempo erano un po’ disperanti.
Qual è il tuo giudizio e la tua valutazione politica delle varie posizioni che si sono confrontate all’interno di Classe Operaia?
A me sembra che tutti quanti siano un po’ diventati scemi con la vecchiaia, forse anch’io. Mi pare che ci sia una ricerca di purezza e di innocenza in quel periodo, per cui ci sono quelli che sostengono che loro alla lotta armata non ci hanno mai pensato, altri che dicono che invece non bisognava entrarci dal principio nel Partito Comunista e smetterla di fare i furbi: queste sono tutte cose che non c’entrano nulla con quella che era la discussione di allora, che cercava una linea politica operaia, senza trovarla, e da questo punto di vista Tronti era molto lucido, però era veramente il pessimismo della ragione. Era molto lucido perché diceva: “Qui non esiste possibilità di lotta operaia”, e man mano questa lotta operaia, questa lotta di classe che doveva approfondirsi lui non la vede altro che come un momento di impatto, di scontro sul partito. E su questo dico che ha ragione dal suo punto di vista, con il piccolo torto che ha che non prevede, non sente, non ha fiducia sul fatto che l’intero sistema era a un punto di crisi e che la pressione operaia esercitata non solo sul regime del salario ma in generale sull’insieme delle strutture che governano la riproduzione sociale va in crisi, e che qui non si aspettavano minimamente una generalizzazione delle lotte come il ’67 e il ’68 rivelano. Questi non avevano comprensione della fabbrica per capire che quel tipo di produzione non si poteva più tenere: il taylorismo è in crisi, noi registriamo già una situazione di questo tipo a partire dai primi anni ’60. In Italia, lo sappiamo benissimo, il taylorismo nasce negli anni ’20 come forma generale egemonica di produzione, però in Italia viene imposto a un certo momento, alla metà, alla fine della ricostruzione, ed è già in crisi sul livello mondiale e soprattutto non può reggere queste ondate di lotta operaia che gli si rovesciano addosso, dal ’48, al ’53, al ’63, al ’67, bum, scoppia. In più non può sostenere la mobilità, nord-sud, sud-nord, diventa anche quello un fatto di rottura. Ci sono questi fenomeni enormi, Tronti e quegli altri non capiscono assolutamente niente su questo, ma secondo me neanche Alquati, il quale poi non lo capisce neanche dopo. Lì c’è questo fenomeno enorme che è il cambiamento di paradigma industriale che noi ci giochiamo interamente in quegli anni. Qui è inutile fare i furbi e dire “il lavoro immateriale, il lavoro materiale, ce n’è più di uno, ce n’è più di un altro”: lì cambia il modello, in cui le proporzioni di quanto ci metti di mano e di muscoli e quanto ci metti di testa nel lavoro cambiano radicalmente. E chi non l’ha capito allora non l’ha più capito. Sia nel Veneto che in Emilia noi abbiamo fondamentalmente avuto la fortuna di aver avuto due fabbriche grosse, noi lavoravamo al Petrolchimico di Marghera e di Ferrara. Devo dire che lì c’è per me questo personaggio (uno di quelli di formazione) che è Guido Bianchini, un personaggio incredibile, che ha sempre avuto un culto enorme per Romano Alquati, perché è lui che poi ha curato gli scritti e si sa benissimo che mettere le mani sugli scritti di Alquati è dura: io è una cosa che ho fatto per anni, rovinandomi il fegato e poi essendo insultato da lui ogni volta dopo aver sistemato e reso leggibili le cose, io lo mandavo a quel paese e tutto finiva bene. Ma Bianchini, poverino, veramente lo adorava, ed era un uomo di una grande intelligenza nell’analisi di fabbrica: era uno che aveva fatto il sindacalista da piccolo, poi si era messo a studiare e a lavorare, era un uomo estremamente intelligente, con contatti molto diffusi, larghi.
Per quanto riguarda lo scontro che avviene in Classe Operaia le cose vanno in questi termini. Si era in una situazione di lotte che si diffondono, dopo il gatto selvaggio, quello che è successo a Torino, dopo quello che è successo al Petrolchimico, ci sono lotte molto grosse a Genova, a Trieste, tutte praticamente fuori dal controllo sindacale, si ha questa impressione netta dell’aprirsi di una fase di lotta; all’interno di questa fase c’è chi spinge per un’organizzazione propria e chi spinge per un’organizzazione propria che stabilisca un rapporto con il partito. Quindi, sull’organizzazione propria si è d’accordo, sull’organizzazione propria che abbia un rapporto con il partito si è in rottura. Si tentano momenti di generalizzazione delle lotte a livello nazionale, cioè su alcune grosse situazioni: non si riesce a farlo, a quel punto lì quelli che ritenevano di dover stabilire un rapporto più forte con il partito traggono le conclusioni. C’è di mezzo una situazione nella quale non si riesce a generalizzare la lotta, anche se si spinge, perché, per esempio, a Marghera, anche se in quel periodo non si riescono a fare grosse lotte, si mantiene comunque un livello di conflittualità maledettamente alto; a Torino, però, la cosa va abbastanza sotto, tentiamo in maniera molto pesante a Genova, tentiamo a Piombino, a Firenze, ma praticamente la cosa non funziona proprio, il diventare piccoli strumenti di generalizzazione di lotte non funziona. Poi la situazione politica ormai vede il PCI spostarsi decisamente a destra, e non c’è modo di trattenerlo in questa fuga che comincia allora e che non è più finita, adesso è più a destra della destra, siamo alla follia. Insisto ancora sul fatto che sia in quelli che vogliono l’immediata generalizzazione delle lotte (da questo punto di vista c’era un po’ di spontaneismo), sia in quelli che vogliono l’immediato riferimento al partito in ogni caso c’è un’insufficiente considerazione di quello che è il rapporto tra la fabbrica e il sociale, quello che ci sta attorno. Perché in realtà quello che stava maturando, più che in fabbrica maturava fuori, era questa insofferenza generale del regime industriale, nel Veneto indubbiamente e profondamente legato a quella che era la recente industrializzazione, ma anche altrove: c’era ormai l’insopportabilità dei fenomeni di emigrazione così come si erano vissuti, Torino è una città da impazzire in quel periodo. Quindi, il dibattito all’interno di Classe Operaia trova forme estranee e poi di assenza: ad esempio ad un certo momento c’è l’infatuazione di alcuni per Socialisme ou Barbarie, che c’era alle origini ma poi viene ripreso, o l’entrata in gioco indubbiamente di elementi presituazionisti; non parlo tanto di cose culturalmente definite, quanto di stati proprio di sensibilità.
Nel frattempo noi viviamo questa incredibile esperienza che è quella degli m-l, nel Veneto in particolare: noi ci troviamo al centro della nascita di questi gruppuscoli m-l che fanno capo a Calò e agli altri. Questo gruppo si chiamava Viva il Leninismo, parte al principio egli anni ’60 e nel Veneto mantiene una sua continuità lungo tutto quel decennio, con presenze anche operaie soprattutto nella valle del Brenta, tra i calzaturieri e in certe fabbriche di Marghera. Lì lo scontro tra noi e loro diventa molto forte, forse questo è dire troppo, ma nel senso che prefigura un po’ quello che succederà dopo con questi m-l. Per esempio, loro rifiutano tutte le istanze unitarie, ti sabotano nei momenti della lotta, proprio con un comportamento molto settario. Questa, ad esempio, è una cosa che su noi pesa moltissimo, non riusciamo minimamente a comunicare. Noi eravamo molto avanti nella discussione anche delle forme nelle quali si gestivano le lotte, a Torino per esempio è impossibile porlo questo problema, per non dire Roma, dove non sapevano neanche di cosa si parlava.
Secondo me in Classe Operaia il problema era che cosa significava il fare politica operaia. Fare politica operaia non è semplicemente la teorizzazione del rapporto classe-partito, su questo potevano parlare anche i filosofi: il problema invece era proprio il dire come si fa, come ci si sta dentro, e una volta che ci sei dentro chi dirige chi. Che cos’è il partito? Il discorso classe-partito era fissato, immobilizzato dalla definizione del partito come Partito Comunista Italiano; mentre invece lì c’è un altro problema. Tutti noi alla fin fine eravamo convinti, anche quelli del Partito Comunista, che le lotte erano autogestite in realtà, le facevano le avanguardie operaie, e se non volevano farle sicuramente non le faceva né il sindacato né nessuno: ma il problema era anche quello di capire come questa autogestione delle lotte si determinava, quali erano i meccanismi. Noi avevamo cominciato ad avere esperienze che erano state incredibili lì a Marghera, proprio di gestione. Praticamente noi viviamo dentro Classe Operaia, senza averne coscienza, da un lato un processo di formazione, nel senso proprio di quadri politici, e dall’altra parte una specie di vuota polemica su classe e partito. E poi c’erano naturalmente gli arricchimenti della tematica dell’analisi di fabbrica, che però secondo me restavano bloccati, certe volte diventavano addirittura approfondimenti estremamente ottimi da infiniti punti di vista però restavano bloccati a quella che era un’incapacità di ricollegare direttamente proprio la classe operaia al suo territorio, alla sua società: sono state cose che poi gli anni ’70 hanno chiarito fino in fondo, ma negli anni ’60 mancava proprio questo. Quindi, quando Classe Operaia si autodistrugge, io credo che non ci sia stata alla fin fine un grande dolore, un grande lutto: tanto le cose che erano vive sono andate avanti, e quelle che non erano capaci di andare avanti sono morte, a un certo punto le cose vanno così, c’è anche una legge dell’effetualità che viene fuori. Quelli che non sapevano come andare avanti si sono bloccati, o alcuni sono diventati matti, e soprattutto più che matti si sono trovati completamente sbalestrati di fronte a quella cosa che doveva accadere qualche anno dopo e che era il ’68: allora c’è stato questo ingresso nel PCI e questa emersione di un’autonomia del politico addirittura feticistica, per non parlare d’altro, questi uomini che si sono messi a fare i consiglieri del principe. D’altra parte, invece, ci sono state situazioni di isolamento o l’incapacità di vivere fino in fondo le nuove esperienze che si facevano. Torino è come al solito estremamente significativa da questo punto di vista, io credo che effettivamente se Torino avesse continuato quella presenza di discorso politico che Classe Operaia aveva rappresentato in parte, anche in piccolissima parte, ci saremmo risparmiati Lotta Continua, per parlarci chiaro.
Quali sono state le ricchezze e soprattutto i limiti delle esperienze di Potere Operaio prima e successivamente dell’Autonomia Operaia?
Io riesco molto difficilmente a mettere insieme Potere Operaio, il quale resta comunque due o tre cose diverse: esiste un Potere Operaio romano, per esempio, che finisce praticamente nelle Brigate Rosse, anche se i suoi dirigenti no, però quando si va a vedere cosa sono le BR che fanno Moro è il servizio d’ordine di Potere Operaio. Sono dei ragazzi estremamente intelligenti, bravissimi, le capacità di organizzazione e di radicamento nel territorio sono assolutamente mostruose, ma non hanno nulla a che fare con quello che trovi nel Veneto o in Emilia: c’è una mancanza di direzione che è fondamentale in Potere Operaio dal principio, una divisione di settori che ne costituiscono per certi versi la ricchezza, ma anche lì immediatamente si va alla rottura, pareva che andassero a nozze, scivolati dentro. C’è un grandissimo ed elevatissimo salto teorico: sia le cose dei Quaderni Rossi che quelle di Classe Operaia sono illeggibili oggi, mentre invece quelle di Potere Operaio e dell’Autonomia sono leggibili e attuali. Sia Quaderni Rossi che Classe Operaia sono dentro la dogmatica marxista (non sto dicendo male del marxismo ma della dogmatica), invece con Potere Operaio e soprattutto con l’Autonomia si apre un vero marxismo creativo adeguato ai tempi: l’analisi di fabbrica si collega all’analisi sociale e viceversa, si riesce a riconquistare il discorso economico generale. Questi per esempio sono limiti enormi di Quaderni Rossi e di Classe Operaia, il fatto di non volere intervenire su certi terreni: paradossalmente l’unico terreno disciplinare sul quale si interviene è la letteratura, con Asor e il suo “Scrittori e popolo”, ma né sul terreno del diritto né sul terreno dell’economia politica si interviene granché, tranne nella fase di Classe Operaia quando si apre il discorso sulla finanza, sulla moneta ecc., che sarà un discorso comunque che maturerà dopo, il discorso alla Lapo, per dire, che poi arriva fino a Marazzi, però sono cose che si aprono dopo, acquistano un’originalità solo successivamente. In realtà c’è un operaismo molto stretto, che è fondamentale dal punto di vista della formazione, dal ’58 al ’68 sono veramente anni di apprendistato. Io ero un po’ più vecchio, gli altri erano più giovani, ma insomma non si è andato molto fuori da questo, e come tutti gli apprendistati e le formazioni è un apprendimento settario alla fin fine, anche se ricchissimo. Però non è che quando sei riuscito a scoprire la legge fisica più importante l’universo ti si dipana davanti: la legge fisica resta la legge fisica, noi avevamo in mano alcune leggi fisiche, alcune leggi operaie della lotta che funzionavano benissimo ma l’universo non ce lo facevano vedere. Comunque è lì che a un certo punto bisognava rompere e questo è avvenuto dopo il ’68.
Potere Operaio e l’Autonomia: io lo rifarei ancora, questo è fuori dubbio. E’ vero che lì siamo stati travolti non solo dalla repressione, anche se è fuori dubbio che essa ha pesato: ma quando parlo della repressione non parlo del ’79, dell’ultimo momento, ma parlo effettivamente della capacità dello Stato di intervenire, dalla politica delle stragi, al terrorismo di destra, alla repressione sistematica, continua e violenta di ogni lotta e via di questo passo. La cosa assolutamente eccezionale, soprattutto vista nei confronti degli altri movimenti europei, è la continuità, e questa cosa si spiega solo appunto se si va a quel periodo di formazione: la continuità, questo movimento che produce un ’68 che dura dieci anni, può nascere solo già da una ricchezza di quadri, una consistenza sociale del movimento che ne permette la riproduzione. Lì c’è un soggetto politico che riproduce e che ha la capacità di farlo, e la capacità significa un casino di cose, non è che un movimento nasce si regge sulla base di quattro persone intelligenti, si tratta di un movimento che ha una capacità appunto di riprodursi in termini di denaro, di produzione di materiali di propaganda, di formazione e di informazione, dal volantino alle radio insomma; un movimento che in qualche modo risolve la questione economica, la quale non è secondaria, con tutto il problema delle sedi, dei luoghi di riunione politica e dei luoghi di riunione collettiva; inventa il sistema che ancora adesso si chiama centri sociali, inventa questi grandi strumenti; allarga enormemente i meccanismi di valutazione e di lotta sul salario, dal salario di fabbrica al salario sociale; man mano identifica un soggetto critico, che è fondamentalmente quello delle nuove generazioni che entrano nel mercato del lavoro che è sconvolto dalla modificazione del modo di produrre, il passaggio dal taylorismo al post-taylorismo, dal fordismo al postfordismo; dà a questa generazione una prima possibilità di lotta, innova teoricamente assumendo queste tematiche all’interno, per esempio tutto il problema della scuola (da questo punto di vista lì ci sono i contributi di Alquati che sono davvero fondamentali); e via di questo passo. Ci sono un casino di cose in positivo da dire. E poi c’è tutta anche un’altra cosa maledettamente importante che secondo me è non è da sottovalutare, che è la costruzione di una struttura di resistenza, cioè il fatto di rendere coscienti le forme della resistenza che prima erano semplicemente clandestine e sotterranee all’interno della classe operaia, il fatto di averle generalizzate, portate fuori, mese in luce. Poi ci sono invece quelli che sono i limiti, l’incapacità del coordinamento: non tanto l’incapacità di costruire una direzione, quanto l’incapacità di mettere in moto un meccanismo che determinasse direzione, e quindi a quel punto di nuovo l’apparire, ma questa volta in forma distruttiva (perché prima era apparso in maniera inutile) del rapporto partito-classe.
Praticamente il movimento muore sul problema da cui era partito: era cominciato con la speranza che la classe potesse investire il partito e finisce nella convinzione che questo non era possibile, che quindi in realtà bisognava usare le due corsie, quella dell’avanguardia e quella del movimento di massa, e questo diventa distruttivo, noi siamo sconfitti su questo. E poi siamo sconfitti anche da quella che è stata la forza del nostro radicamento, e anche questo è il paradosso se si vuole: la forza del nostro radicamento era appunto determinata dalla presenza, si pensi alle 50.000, 100.000 persone che riuscivi a mettere in piedi, dei semplici militanti, a Milano e a Roma, era una cosa enorme, in più i soli militanti. In più avevi però questo radicamento sociale nei quartieri, ci sono stati momenti nei quali nelle città era effettivamente una cosa assolutamente impressionante, io parlo di Milano perché in quel periodo ci stavo, ma la stessa cosa potrei dire del Veneto e a Roma ogni tanto lo vedevo. D’altra parte c’era continuità, sia la continuità che il radicamento alla fine sono stati fenomeni che hanno rappresentato l’isolamento, in Europa eravamo ormai soli, in Francia il movimento era finito da lungo tempo; e tutto questo ha determinato una situazione pazzesca di pura repressione laddove negli altri paesi europei proprio la brevità del movimento aveva in fondo permesso il suo riassorbimento in una modernizzazione più ampia del sociale che comunque apriva possibilità reali di sviluppo, mentre invece in Italia ci hanno buttato dentro, e poi oltretutto l’hanno pagata anche loro perché alla fin fine guarda dove sono finiti, hanno dovuto affidare il paese a Craxi prima e poi c’è stata questa totale mancanza di ricambio politico, di capacità di seguire o di inseguire la modernizzazione che è stata per loro una cosa spaventosa.
Come analizzi oggi le categorie di spontaneità e organizzazione? Al di là del confronto dinamico con il contesto reale, è cambiato nel tempo il tuo rapporto con queste due categorie? Come è cambiato? Oggi scriveresti ancora “33 lezioni su Lenin”? Se sì, come le riscriveresti?
Non credo che le scriverei ancora, “33 lezioni su Lenin” erano legate veramente a quel periodo: il modello di organizzazione che di lì veniva fuori era quello in realtà del partito del fordismo vincente, di una classe operaia. Oggi il problema è diventato assolutamente diverso. Oggi come le riscriverei? E’ questo il problema semmai. E’ proprio il problema rispetto al quale, per esempio, c’è un vuoto assoluto nell’ultimo libro sull’impero. Nell'”Impero” c’è in fondo l’identificazione di quelli che sono i processi tendenziali, la modificazione dell’accumulazione capitalistica non è semplicemente che il capitalismo è diventato mondiale, questa è una cagata: c’è un ordine biopolitico che si è stabilito sul livello globale e delle forme di organizzazione capitalistiche che vanno istituendosi, all’interno di questo è saltato tutto. Questa storia dell’organizzazione è evidentemente il grande buco nero: in una situazione nella quale con tutta probabilità ci saranno ancora cicli di lotta ma non si vedono, quello che è sicuro è che il ciclo di lotte operaie che noi conoscevamo nel fordismo è saltato. Oggi abbiamo dimensioni della produzione che sono diventate infinitamente più ampie sia ovviamente dal punto di vista globale che dal punto di vista della socializzazione di questo modo di produzione; abbiamo d’altra parte appunto questa flessibilità e mobilità che diventano flessibilità e mobilità anche del ciclo economico, nella misura in cui questo è proiettato sui beni finanziari. Quindi, siamo in una situazione in cui l’analisi deve essere riaperta su questi punti. Resta il fatto che la cosa paradossale malgrado tutto è che questa straordinaria vittoria operaia c’è stata: la mondializzazione, la globalizzazione è la vittoria reale. Nella globalizzazione un’altra vittoria reale è il fatto che sono finite le forme dittatoriali del socialismo, le transizioni che bloccavano proprio la capacità di sviluppo della forza operaia, la mistificavano, la tradivano. Poi è aumentato in maniera enorme il livello dei bisogni, la capacità produttiva legata ai bisogni, ai desideri: questa è una grande vittoria, il capitalismo deve regolarsi oggi su questo nuovo livello e non è detto che ce la faccia. In questa situazione ci sono appunto questi movimenti esodanti di popolazioni che sono forse la cosa più interessante che può darsi, alla quale collegare con tutta probabilità movimenti di lotta, e ci sono le nuove dimensioni dell’immaterialità che diventano sempre più importanti. Tutto questo non significa assolutamente che lo sfruttamento non avvenga più sui settori più poveri della forza-lavoro, però è anche vero che ormai dovremmo cominciare a configurare dei blocchi di soggettività che vanno molto al di là di quella che è la vecchia considerazione della classe operaia. Quindi, non so assolutamente, ci sto lavorando, perché il secondo volume di “Impero” dovrebbe essere su questo, cioè cosa vuol dire moltitudine, cosa vuol dire corpi della moltitudine, cosa vuol dire la moltitudine o no come corpo: qui si tratta veramente di ritematizzare la scienza politica, e la scienza politica eversiva o sovversiva, in maniera assolutamente radicale.
L’unica cosa sicura è che dopo il ’68 non si ragiona più nella stessa maniera in cui si ragionava prima: questo lo vediamo nella nostra piccola storia e possiamo vederlo anche nella storia grande. Qui siamo veramente in un mondo completamente nuovo e chi non lo capisce peggio per lui: il mutamento è stato assolutamente radicale, se Dio vuole è finito il socialismo, ci si rende conto?, è finito un secolo e mezzo di storia organizzata o anche di più che si apre dalla rivoluzione francese in poi, e tutto questo finisce tra il ’68 e l’89, finisce e non tornerà se Dio vuole. Solo che a questo punto si tratta di capire in questa nuova situazione che cosa si fa, come si ri-inventa il mondo della sovversione, e cioè il mondo della potenza: e qui siamo tutti noi che continuiamo a produrre. Però, esiste uno sfruttamento che sta nella divisione, più che nell’accumulazione di quantità specifiche di pluslavoro credo che stia fondamentalmente nel comando, nell’esercizio del comando che diventa sempre più parassitario dal punto di vista produttivo, economico, quanto invece diventa più pieno dal punto di vista del disciplinamento del controllo. Queste sono tutte cose che nascono dopo, almeno per quanto mi riguarda sono cose che io ho imparato in Francia. Quello che è molto importante, per esempio, è quanto l’operaismo italiano sia stato importante su autori come Foucault, Deleuze e questi qui: ha proprio costituito parte della loro esperienza, che poi hanno rovesciato nel loro discorso e che oggi può essere in parte recuperato. Questo è molto, molto importante, io scherzo spesso dicendo che bisognerebbe veramente sciacquare i nostri panni nella Senna, ma proprio con questo giro che c’è stato. Quello dell’organizzazione credo che sia un problema di ri-invenzione di un’antropologia politica reale: si tratta di capire che cosa sono i corpi oggi, che cosa significa lottare, su che bisogni, quindi quali sono le forme di coordinamento, di cooperazione, le forme specifiche, si tratta veramente di mettere in piedi proprio una nuova antropologia. Il marxismo da questo punto di vista veramente l’abbiamo scavato fino in fondo, a questo punto bisogna inventarsene un altro di marxismo; il marxismo resta comunque utile, fino in fondo, sempre, però ce n’è proprio un altro da scavare.
In un tuo articolo nel primo numero di Posse c’è un pezzo in cui dici: “[…] Quello che vive, nel contesto biopolitico globale, vive contro il biopotere dei padroni […]”. In che senso? Chi vive è spontaneamente contro? La soggettività espressa è di per sé antagonista? La composizione di classe è di per sé antagonista?
No, assolutamente, ci mancherebbe altro, il per sé antagonista è solamente un’illusione, un sogno di uno spontaneismo che non esiste. Io credo che effettivamente le condizioni della riproduzione generale oggi siano le condizioni nelle quali la riproduzione del genere umano (non del genere femminile o maschile) sono tali per cui non c’è più bisogno di quell’organizzazione capitalistica, o del comando capitalistico, nell’organizzazione della produzione che prima era dato. Quando dico questa cosa, esattamente come prima quando dicevo che non c’è più un rapporto di misura e che quindi è un rapporto parassitario quello che si pone, lo dico in questi termini: non c’è più un rapporto tra comando, valore e lavoro, tutte le relazioni in proposito sono saltate ed è bene che siano saltate, non è che sono nascoste, sono proprio saltate. Il valore del lavoro non si dà più in qualche maniera fuori da quello che è il sistema della sua estrazione: si dà dentro, non c’è più fuori. Da questo punto di vista io mi diverto a dire che siamo in un’età postmoderna, il moderno è finito, anche se poi parlo di età, parlo di ontologia postmoderna e non il mondo di pure finzioni. Quello che mi interessa, in questo caso, è il fatto che le condizioni nelle quali il lavoro umano si riproduce, produce ricchezza, non esigono più delle funzioni di comando: quindi, il comunismo è pensabile, il comunismo è attuale da questo punto di vista, non c’è più bisogno di programma di transizione. C’è bisogno di rivoluzione comunque, anche se nessuno più sa definirla perché parlare di rivoluzione e parlare di organizzazione è la stessa cosa evidentemente, non è che chi parla di organizzazione parla di organizzare l’egemonia, che cavolo significa? Organizzi l’egemonia per la rivoluzione, di Gramsci puoi parlare solo in questi termini. C’è tutto questo tentativo di sociologizzare sistematicamente Lenin, Gramsci e tutta la tradizione del discorso organizzativo: o hai questa espressione di potenza che ci sta dentro a questo discorso o se no dici le barzellette.
A me sembra che effettivamente bisogna andare avanti nell’analisi di questa nuova antropologia della moltitudine. Ci sono già cose bellissime, le nuove forme di lotta, come si organizzano, come vengono fuori; adesso, per esempio, sto facendo un grosso sforzo per raccogliere tutti i materiali rispetto soprattutto al grande ciclo di lotte nel sud-est asiatico, nell’estremo oriente, dalla Corea fino all’Indonesia, che adesso sono state poi stravolte in guerriglie identitarie e via di questo passo, ma tutto ciò ti dà ancora di più la misura di quale deve essere stato proprio il contenuto di classe e di sovversione che c’era dentro a tutto questo processo. Attraverso questi compagni americani con cui lavoro sto appunto cercando di rimettere in piedi questo tipo di analisi, perché lì hanno l’enorme facilità di vedere questa gente, possono fargli fare le tesi su questi argomenti, cosa che qui purtroppo non si ha; poi c’è letteratura, ci sono traduttori anche delle lingue più bastarde. Quindi, io cerco di far fare queste cose qui e poi d’altra parte invece di andare a fondo proprio nello studio dell’antropologia, per esempio mi interessano enormemente tutte le cose sull’antropologia soprattutto del femminismo più avanzato, ci sono delle cose molto belle ormai, che non hanno più quel senso polemico e quelle forme che ti impedivano veramente anche la lettura certe volte, perché si spostavano su obiettivi che erano poi di emancipazione: oggi invece sono proprio tematiche di antropologia di liberazione reale, quindi cominciano a essere estremamente interessanti. Vediamo se riusciamo a combinare tutta una serie di temi filosofici nel secondo numero e lì cominciamo a mettere giù con questi compagni americani una serie di tematiche su queste cose, mettendo insieme analisi delle lotte, analisi del lavoro ovviamente, analisi della riproduzione sociale, e poi dico veramente antropologia del corpo, perché lì diventa fondamentale, nuova origine dei bisogni, queste cose qui. Per esempio, che cosa significa salario oggi? Se di queste cose ne parli con Christian Marazzi gli scappa persino da ridere, ti dice che il salario per gran parte dei vecchi svizzeri significa le azioni che hanno lì, è questo il loro salario, è guardarsi alla mattina come sono andate ecc.; ma anche in questi quartieri periferici qui intorno che fan paura, il Prenestino e via dicendo, non è molto diverso. Io lavoro con un paio di comitati di fabbrica, ci divertiamo da morire a fare delle cose bellissime (nel prossimo numero di Posse ci saranno queste analisi di fabbrica che sono molto belle): allora vado lì e veramente ci sono questi qua davanti alle banche, ci sono gli schermi in cui corrono i prezzi delle azioni e loro sono lì a guardarseli, a giocare, passano il tempo, guadagnano la vita, cosa vuoi di più? Sono proprio felici.
Tu prima dicevi che è aumentato in maniera enorme il livello dei bisogni, che il capitalismo deve regolarsi su questo nuovo livello e non è detto che ce la faccia…
Non si tratta di bisogni, si tratta delle forme di cooperazione, che è una cosa diversa. Ci sono delle forme di cooperazione che devono commisurarsi ai bisogni: per esempio, se io ho dei bisogni che cominciano a diventarmi puramente intellettuali, è chiaro che ho bisogno e devo cooperare per produrre in questi termini, cioè a livello di quelle che sono le mie capacità mentali. E se mi viene negato questo, mi viene negata quella che è una cosa assolutamente centrale, fondamentale, una cooperazione in divenire linguistico, ma poi vicino anche a questo è il divenire finanziario, economico, materiale, tutto quello che c’è insomma. Quando si parla di nuove forme di cooperazione si parla evidentemente del modo di stare nel sociale, di costituire il sociale. E quando tu approcci questa necessità una delle caratteristiche assolutamente fondamentali di tutto questo è di essere smisurato, nei due sensi: da un lato non è possibile farne misura, dall’altra parte è talmente ricco da non poter essere adeguato alle misure attuali. C’è veramente una crisi di misura nello sviluppo capitalistico oggi, ed una crisi di misura è una crisi fondamentale, centrale. Per battere la classe operaia, per battere il socialismo il capitale ha fatto un salto in avanti mostruoso, recuperandolo dai bisogni dei movimenti, dal rifiuto del lavoro in su: e a questo punto non è detto che ci riesca, o comunque deve innovare la sua organizzazione in maniera enorme, l’ha già fatto attraverso la globalizzazione, adesso bisogna vedere per il resto.
Ma non pensi, però, che occorra considerare che questi bisogni derivano anche da una sostanziale colonizzazione della soggettività di classe da parte del capitale?
Ma questo c’è sempre stato, non è mica male che ci sia: il capitale è mica una roba brutta, il capitale è brutto quando comanda ma quando produce beni non me ne frega niente! Non sono assolutamente ecologista io, proprio in nessun senso, o meglio lo sono in quanto certamente i bisogni ecologici sono un’altra cosa, se tu rovini la natura non respiri più, io ho un’asma da morire, non ne posso più, vado su e giù dalla galera e mi fa un male da morire, a questo punto veramente sono cose da distruggere queste produzioni di miasmi: ma questo non è il capitale, è il comando, la Chiesa produce altrettanti miasmi che il capitale.
Nel contesto che delinei, ha secondo te senso parlare della soggettività politica? Cosa intendi con questa categoria?
A me sembra completamente inutile porsi queste domande, perché fin da quando l’uomo è uomo sempre di più la soggettività c’è stata, cioè c’è quello che tira e quelli che vanno dietro. Questa storia della soggettività politica mi sembra così banale e ovvia: che problema fa? Si è mai vista una cosa diversa al mondo? No. E’ chiaro che ci vuole il soggetto, che ci vuole qualcuno che fa così: il problema grosso è quello di definire i soggetti collettivi, e poi attorno ad essi ci saranno quelli che tirano di più e quelli che tirano di meno. Così è sempre stata la vita: in una fabbrica ci sono quelli che tirano e quelli che non tirano, a scuola è la stessa cosa. Il grosso problema è la forma nella quale si esercita il comando, nella quale si decide. Qual è per esempio la forma in cui decide la moltitudine? Qui ci sono grossi problemi teorici: e decide ancora nella forma dell’uno, come pretende la filosofia classica e reazionaria da sempre, o decide in forma diversa, nella forma della molteplicità? Adesso c’è la ciliegina, decide nella forma della rete: ma che rete, lasciatela stare poverina, essa è una forma di comunicazione orizzontale, c’è sempre qualcuno che decide dentro o fuori dalla rete. Allora come si decide, qual è la forma della decisione? L’analisi delle lotte, che cos’era? Era capire chi l’aveva fatta partire la lotta, come, quale soggetto era intervenuto. Non esiste il processo senza il soggetto: è vero che lo si può analizzare come se, ma se tu lo analizzi come se è proprio per costruirlo coscientemente. Tutte queste storie della soggettività, dov’è il soggetto e via dicendo, sono tutte robe da filosofi, astratte, che valgono se ne parliamo così tra noi, però quando poi vai a vedere come vanno le cose in concreto il soggetto c’è sempre, il problema è che bisogna identificarlo. Qual è in questa moltitudine il soggetto?
Solo identificarlo o anche trasformarlo?
Certo, trasformarlo, come si trasforma. Mettendola in termini paradossali, qual è i leninismo di quest’epoca? Io non so, il leninismo di quest’epoca può essere, non so, il luxemburghismo, ma insomma diciamo solo delle cazzate se si ragiona così. Il problema è volta per volta di vedere come vanno le cose. Ad esempio, io lavoro in queste fabbrichette, erano delle fabbricone che adesso sono diventate delle fabbrichette, che sono passate da 15.000 a 2.000 persone e però producono tre volte tanto: così allora vai a vedere questi operai dentro che ti dicono “il nostro gran problema è quello di metterci assieme agli altri, fuori”. Poi hanno capito perfettamente che non è il problema di ricostruire l’out-sorcing e di rimettere insieme i canali come se si trattasse di reparti distribuiti sul territorio; no, dicono “con quelli più vicino, gli studenti della scuola tale, che sono quelli che poi verranno più o meno a lavorare qui ma saranno comunque implicati nell’elettronica che noi produciamo”. E lì immediatamente vedi che cosa vuol dire soggettività: soggettività vuol dire anche la piccola cosa che poi ognuno di questi va a fare una conferenza nella scuola vicina, ma questa è la piccola cosa che però aiuta a costruire tutte le altre. L’idea che il partito abbia in mano l’intera complessità della serie degli elementi che conducono a un processo di trasformazione radicale è un’idea da paranoici, è come dire “io sono Dio”; e la storia della rivoluzione e del partito bolscevico spesso ce l’hanno presentata in questa maniera ma era una balla, perché in realtà ci sono tutti i fenomeni che stavano attorno. Basta aver vissuto una fase rivoluzionaria, una sola, per capire la complessità degli elementi che entrano in gioco: ma non la complessità fatta per confondere, quella di cui parlano i postmoderni, ma quella invece degli elementi che convergono, che si attraversano e che certe volte bisogna recidere, dove la dose di caso e la dose di volontà restano sempre. Questo mi sembra che sia proprio l’ABC del Machiavelli, del “bignami” Machiavelli.
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