Gli spazi contesi: conflitti urbani e occupazioni dei centri sociali nelle città che cambiano
Decimo e ultimo contributo dei materiali preparatori per il convegno del 3 ottobre a Bologna organizzato dal Laboratorio Crash! intitolato “Città, spazi abbandonati, autogestione” (qui il programma, qui i precedenti scritti di Pietro Saitta, Gennaro Avallone, Ugo Rossi, Henri Lefebvre, Salvatore Palidda, Giorgio Agamben, Salvo Torre, Tiziana Villani e Raffaele Sciortino) inviatoci da Gianni Piazza, sociologo dei fenomeni politici presso l’università di Catania.
Gli spazi contesi: Conflitti urbani e occupazioni dei centri sociali nelle città che cambiano
Gianni Piazza
Le città sono sempre state luoghi del conflitto, sia come palcoscenici dove i vari conflitti venivano rappresentati – promossi, organizzati, vissuti – sia anche come posta in gioco contesa tra gli attori collettivi dei conflitti: con le loro strutture di potere, di produzione e riproduzione, i loro spazi pieni e vuoti, oggetti di controversie materiali e simboliche. È questo il caso dei conflitti urbani, perché non tutti quelli che avvengono nelle città riguardano specificamente il tessuto e lo spazio urbano. Sono conflitti che non nascono spontaneamente, ma sorgono in relazione ai processi socio-politici, alle specifiche strutture istituzionali e socioeconomiche che governano e costituiscono il contesto delle città: dalle reazioni/interazioni coi processi di riqualificazione urbana, ai modelli decisionali di governance, alla dimensione socioeconomica (Andretta et al. 2015). E mutano col mutare delle città e le trasformazioni delle aree metropolitane. Le mobilitazioni urbane nelle città occidentali, infatti, hanno subito profondi cambiamenti a partire dalla fine degli anni ‘70, a causa proprio delle trasformazioni urbane caratterizzate dall’indebolimento delle politiche keynesiane relative al welfare e dall’ampia diffusione delle politiche neoliberiste (Musterd 2005). Se già negli anni ’80 si intravedeva un mutamento verso la “città globale postindustriale”, in cui lo spazio urbano diventava una “nuova arena istituzionale strategica”, negli anni ’90 si affermava un nuovo modello egemonico dello sviluppo urbano, basato su progetti di ristrutturazione su larga scala e l’agenda della “nuova politica urbana” (NUP). Questo modello si è sviluppato in seguito a una serie di processi transnazionali che hanno sempre più caratterizzato le città più importanti di tutto il mondo: la privatizzazione e la mercificazione delle risorse urbane, la gentrificazione residenziale, la dispersione e lo spostamento (deportazione) delle persone a basso reddito (spesso dai quartieri centrali e a quelli periferici) e l’impatto crescente del turismo nelle aree urbane centrali; più di recente le nuove tendenze verso la cosiddetta “smart city”, lo sviluppo dei meccanismi di controllo digitale e la ripartizione spaziale attraverso meccanismi di inclusone ed esclusione (nuovi poveri/migranti /rifugiati, ecc.). Tutti questi processi erano e sono volti a ridefinire l’ambiente urbano per rendere le città più attrattive per i potenziali investitori, principalmente gli attori economici privati, ma anche pubblici come l’UE, promotori dello “sviluppo” dell’economia neoliberista. La “necessità” (volontà) di essere competitivi e di attrarre investimenti pubblici e privati ha innescato e causato conflitti non solo tra le città (competizione tra chi si aggiudica le risorse) ma anche all’interno di esse: le città per le persone contro le città per il profitto (Brenner et al. 2013); cioè, da un lato, la città come valore d’uso, in cui le persone usano il tessuto urbano come un luogo dove vivere, lavorare e promuovere rivendicazioni politiche, sociali e ambientali per la comunità; dall’altro, la città come valore di scambio, in cui le élite economiche e politiche utilizzando la metropoli come fonte di profitto e consenso elettorale, avevano dato vita alle “growth machines”. Se le proteste contro queste “macchine urbane per la crescita” (Vicari, Molotch 1990) erano diminuite negli anni Novanta, negli anni più recenti i conflitti urbani si sono intensificati, diventando sempre più visibili a causa delle crescenti disuguaglianze sociali e della diminuzione della legittimità delle istituzioni politiche. In particolare, le proteste hanno contrastato la gentrificazione dei centri (storici) delle città e il deterioramento degli altri quartieri, soprattutto quelli periferici, la crescita del traffico e degli impianti inquinanti; hanno promosso la difesa delle aree verdi, dei beni comuni e dei servizi pubblici; hanno rivendicato alloggi popolari e spazi sociali, nonché le attività di auto-aiuto e di solidarietà/resilienza durante la Grande Recessione. Ma le proteste hanno anche diviso i cittadini sulla sicurezza urbana e la questione dei migranti/rifugiati sia regolari che “clandestini”. I conflitti urbani a volte hanno coinvolto inizialmente piccoli gruppi organizzati su basi micro-locali, con obiettivi molto pragmatici, spesso in grado di mobilitare competenze scientifiche e tecniche e sostegno dei mass media; a volte invece hanno dimostrato la capacità di costruire alleanze tra gruppi diversi e sviluppare strutture e rivendicazioni più ampie. Dopo il credit-crunch del 2007-2008, le città e i territori sono emersi come epicentri e vittime della crisi globale, in cui i conflitti urbani si sviluppano principalmente su due linee: la continua mercificazione della città e lo smantellamento del sistema dello stato sociale (Mayer 2013). Le mobilitazioni urbane hanno trasformato e trasformano lo spazio e contribuendo alla produzione delle “risorse” a disposizione dei cittadini per la pretesa del loro “diritto alla città” (Harvey 2012; Andretta et al. 2015).
Tra i movimenti urbani che maggiormente hanno trasformato, gestito e dato significati alternativi agli spazi nelle città europee a partire dagli anni ’70, i più longevi e significativi sono quelli delle occupazioni abitative e dei centri sociali, spesso intrecciate tra loro e a quelle dei migranti (Frazzetta 2017). Per limiti di spazio mi soffermerò brevemente solo sulle occupazioni degli spazi prima abbandonati e poi occupati/autogestiti come centri sociali, attori della protesta urbana con una dimensione e raggio d’azione spesso extra-locale, che hanno preso parte ai più importanti movimenti dei decenni trascorsi. Per lo stesso motivo non è il caso di tracciarne la lunga storia ed evoluzione in Italia e in Europa (Piazza 2012), ma forse evidenziarne alcuni nodi problematici per attivisti e occupanti – relativi alle loro strategie e ai contesti in cui vengono attuate – potrebbe fornire un contributo alla discussione sulle città e gli spazi abbandonati. Da un lato, infatti, abbiamo le scelte soggettive che militanti e occupanti fanno in base ai loro orientamenti politico-ideologici. Innanzitutto, sul significato da assegnare ai luoghi da occupare, tra “spazi liberati”, in cui l’obiettivo principale è la sperimentazione dell’autogestione come forma di liberazione dai rapporti del dominio capitalistico, e/o “luoghi del conflitto politico”, in cui si organizzano lotte e campagne al di fuori degli spazi occupati e dentro le contraddizioni del tessuto sociale metropolitano; provare a tenere insieme le due dimensioni o privilegiarne una resta ancora uno dei dilemmi strategici dei militanti negli ultimi decenni di occupazioni. Meno attuale sembra, negli ultimi anni, quello relativo alla scelta se accettare o rifiutare trattative/negoziati con le istituzioni locali per l’assegnazione dei locali, anche per la chiusura delle opportunità da parte di quasi tutte le amministrazioni locali (centro-destra, centro-sinistra, pentastellate), ad eccezione di quella napoletana (nel caso italiano). Altra scelta strategica dettata da orientamenti soggettivi, è quella relativa ai rapporti con altri gruppi e organizzazioni di movimento: cercare relazioni cooperative e solidali anche per finalità tattiche, oppure privilegiare percorsi egemonici, e spesso solitari, in cui diffidenza e tensioni sembrano inevitabili corollari. Ma attivisti e occupanti non si muovono nel vuoto metropolitano. Infatti, dall’altro lato, si trovano ad affrontare una serie di vincoli e opportunità che il contesto politico-istituzionale e socio-spaziale pone loro davanti (Martinez 2013). Intanto, la disponibilità di luoghi fisici, vuoti e non utilizzati, da occupare e autogestire; se prima abbondavano, adesso sembrano scarseggiare, anche per la svendita del patrimonio pubblico, tra necessità di “fare cassa” e sostegno ai gruppi privati: proprio le proprietà private (e pubbliche) non vogliono lasciare spazi che non possono essere utilizzati per il loro valore di scambio. E quelli vuoti, se vengono occupati, lo sono per poco perché la proprietà li richiede, facendoli sgomberare, per venderli o trasformarli a fini speculativi. Quindi, la collocazione spaziale di questi luoghi nel tessuto metropolitano – centri storici, quartieri periferici, extra-urbani, ecc. – che permette maggiore o minore visibilità e attrattività per gli abitanti della città e/o dei quartieri cui i militanti rivolgono la loro azione. Ancora, col peso forse maggiore, il grado di repressione e tolleranza verso le occupazioni da parte delle istituzioni politiche (locali e non), ma soprattutto quelle coattive, magistratura e forze dell’ordine, che spesso determinano durata ed esistenza delle occupazioni e innescano spirali conflittuali, tra sgomberi e ri/occupazioni (con i corollari giudiziari penali e amministrativi); conseguenza di politiche nazionali sempre più repressive soprattutto negli ultimi anni che rendono ancor più difficile la pratica delle occupazioni. Da ultimo, ma non per importanza, il ruolo svolta dai media mainstream, nazionali e locali, nello stigmatizzare – se non criminalizzare – i militanti, creando un clima d’opinione generalmente ostile, che attivisti e occupanti devono continuamente affrontare.
Tuttavia, dall’interazione continua tra questi vincoli esterni, che mutano col mutare delle città e il loro governo, e le scelte strategiche e soggettive dei militanti per gli spazi sociali nascono e si alimentano lotte, resistenze e progettualità alternative – non uniche ma imprescindibili – che modificano il tessuto delle metropoli.
Riferimenti bibliografici
Andretta, M., Piazza, G. and A. Subirats (2015), “Urban Dynamics and Social Movements”, in D. della Porta and M. Diani (eds.), The Oxford Handbook of Social Movements, Oxford University Press, Oxford: 200-215.
Brenner, N., Marcuse, P., and Mayer, M., eds. (2012). Cities for People, Not for Profit. London: Routledge.
Frazzetta, F. (2017). “Palazzo Bernini: an experience of a multicultural squatted house in Catania”, in Mudu P. e Chattopadhyay S. (eds), Migration, Squatting and Radical Autonomy. New York: Routledge, pp. 99 – 103.
Harvey, D. 2012. Rebel Cities. London: Verso.
Mayer, M. 2013. “First World Urban Activism”. City. 17.
Martìnez, M. (2013). “The Squatters’ Movement in Europe: A Durable Struggle for Social Autonomy in Urban Politics,” Antipode. 45(4): 866–887.
Musterd, S. 2005. “Social and Ethnic Segregation in Europe”. Journal of Urban Affairs, 3.
Piazza, G. (2012). “Il movimento delle occupazioni di squat e centri sociali in Europa: Una Introduzione.” In Il movimento delle occupazioni di squat e centri sociali in Europa, a cura di G. Piazza, special issue di Partecipazione e Conflitto 4(1): 4–18.
Vicari S., Molotch, H. 1990. “Building Milan: Alternative Machines of Growth”. International Journal of Urban & Regional Research, 4.
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