Guerra, crisi, migrazioni: tre rovesciamenti
Introduzione (da Bologna) all’assemblea “Guerra/migrazioni/crisi. Dai conflitti nel vicino oriente alle frontiere della Fortezza Europa”, domenica 19 giugno
All’interno della complessiva dissoluzione della costituzione materiale e dei quadri analitici forgiatasi nel corso della modernità e all’interno di quella lunga transizione senza meta che definiamo come epoca neoliberale, anche i temi della guerra, della crisi e delle migrazioni sono presi in un movimento che ne ridefinisce radicalmente le coordinate. Per cogliere queste mutazioni e per approntare degli strumenti in grado di sviluppare processi di lotta attorno a questi nodi, bisogna partire dalla sostanziale assenza di conflitti espliciti su questi temi e da una complessiva fase di blocco che avvolge i percorsi antagonisti. Ciò che si può fare per riflettere attorno a guerra, crisi e migrazioni è dunque più che altro l’indicare alcuni spunti politici ed ipotesi analitiche, provando ossia a proporre una griglia mobile di lettura, sicuramente parziale. Ciò che è certo è che in questo periodo non sono le evocazioni sterili della “rottura”, le retoriche senza prassi, il ricorso a una lettura integralista dei “testi sacri” a promettere l’apertura di nuovi scenari. All’interno di una complessiva e ripida fase di ridefinizione, è probabilmente l’adozione di una attitudine eretica e spregiudicata, nonché la sperimentazione vera di nuovi terreni e nuovi immaginari, a porsi come una possibile e feconda possibilità di scaturigine per nuove traiettorie del conflitto.
Guerra, crisi e migrazioni, dunque. I tre termini andrebbero di per sé problematizzati, e sicuramente una loro analisi li può scindere solo analiticamente, in quanto essi rappresentano un complesso concatenamento. Assumendo però questo schema, che tuttavia potrebbe trovare anche altri punti di ingresso, è possibile in prima battuta mettere in evidenza come di fronte a ciascuno di questi concetti ci si trovi di fronte a uno specifico rovesciamento. In termini evidentemente semplificati, si può sostenere che per tutti e tre i termini si sia passati da una loro costruzione moderna che li leggeva come altrettante eccezioni, ad una attualità che invece li pone come condizione normale della vita collettiva. In termini sintetici: la guerra è stata in passato vista come l’irruzione episodica di un conflitto tra Stati, i quali tuttavia “normalmente” garantivano una pace al loro interno e una stabilità al loro esterno grazie al diritto internazionale. E’ tuttavia evidente come oggi questo scenario non spieghi assolutamente più nulla delle dinamiche che informano il presente. La crisi è stata anch’essa tendenzialmente pensata come momento- limite, come interruzione di un tempo progressivo che faceva dello sviluppo economico e della crescita le condizioni di normalità nella riproduzione del sistema capitalistico. Anche in questo caso, quello che la contemporaneità pare indicare è piuttosto l’ordinarietà della crisi, il suo divenire forma di governo, mentre lo “sviluppo” appare ora come una situazione temporalmente limitata. Anche per le migrazioni può vigere un ragionamento analogo. Se infatti nei secoli passati si guardava allo spostamento di masse di individui come ad un caso particolare e limitato nel tempo, all’interno di insiemi omogenei di popolazioni che tali infine rimanevano, oggi invece il fenomeno migratorio sembra indiscutibilmente una costante, un dato epocale che mette in movimento e modifica di continuo le società.
Questi tre ribaltamenti sono il prodotto contingente di un rapporto antagonistico, di una serie di conflitti che conduce dunque a non guardare ad essi come prodotti esclusivi del comando o come forme intaccabili di dominio. Si tratta piuttosto di ricercare le tensioni soggettive alla loro base, le spinte di parte che ne sono premessa e al contempo possibile condizione di sovversione. Più che di fronte a un nuovo ordine, guerra crisi e migrazioni segnalano piuttosto proprio l’instabilità, il continuo ridefinirsi delle dimensioni sistemiche. In ciò che segue si tenta allora di misurare alcune coordinate di queste aree di ragionamento, per concludere abbozzando ad alcuni possibili indicatori politici per le lotte a venire.
Crisi. All’oggi uno dei contributi più utili per un’interpretazione della situazione attuale rimane quello elaborato da Midnight Notes. Qui si propone una lettura di lungo periodo, dove la destabilizzazione finanziaria partita dall’insolvenza dei mutui subprime nel 2007-2008 viene ricondotta a un tessuto di lotte e resistenza che affonda le proprie radici a partire dai decenni precedenti. Non si capisce molto della cosiddetta crisi attuale se non collocandola dunque in una prospettiva ampia, all’interno ciò delle molteplici scie di provenienza che si sono sviluppate in tutto il pianeta nella resistenza alla restaurazione neoliberale innescatasi tra fine anni Settanta e primi anni Ottanta. E’ qui che si attiva un potente ciclo che, marxianamente, potremmo definire come “nuova accumulazione originaria”. O meglio, qui emerge come la cosiddetta accumulazione originaria, lungi dal limitare la sua violenza di distruzione creativa alle origini del sistema capitalistico, tenda piuttosto a riprodursi continuamente. Ecco dunque che i quarant’anni di neoliberalismo divengono, in questa prospettiva, un’epoca di distruzione delle condizioni di vita precedenti, dall’Africa all’Europa, nel tentativo di definire un nuovo ordine di accumulazione.
E’ all’interno di questo mutamento che si inverte il rapporto tra sviluppo e crisi, o meglio che si manifesta l’essenza di crisi permanente del sistema capitalistico. L’illusione di un tempo lineare e progressivo si infrange definitivamente, il mondo si multipolarizza, la crisi assume la consistenza di un dispositivo di governo. All’interno di questo cambiamento non si può che rimettere in profonda discussione uno dei punti di vista più produttivi che hanno caratterizzato la stagione di rielaborazione critica delle categorie marxiane negli anni Sessanta e Settanta. Laddove allora infatti uno dei baricentri analitici ruotava attorno all’inscindibilità del legame tra lotte e sviluppo, e alla primazia delle prime sul secondo, oggi questo rapporto è come minimo problematico, se non decisamente scisso. In una fase che piuttosto che espansiva e distributiva si mostra proprio in direzione contraria, il rapporto di capitale produce distruzione e spoliazione, scarti e resti, nonché forme sempre più radicali di esclusione (o comunque di integrazione gerarchizzata fortemente al ribasso). Se questa è, ovviamente per grandi linee, la situazione del momento, la crisi appare oggi più che altro un nome per definire l’instabilità prodotta dal definirsi di un nuovo rapporto di capitale nel tempo globale.
Migrazioni. Anche questo è un tema assolutamente generale, che contiene una pluralità di fenomeni e ancoraggi teorici. Quel che si prova a fare è dunque il proporre una serie di punti che tentano di inquadrare alcuni dei movimenti concreti e teorici e delle tensioni che l’elemento migratorio pare stia determinando nei territori del mondo.
1) E’ necessario leggere le migrazioni all’interno di un doppio schema indissolubilmente intrecciato. Da un lato esse sono esito di una serie di dispositivi, tecniche di governo, strategie geopolitiche e fattori esogeni (come guerre, carestie ecc…). Dall’altro esse sono però anche il prodotto di una potente spinta soggettiva, della ricerca di frammenti di libertà e di migliori condizioni di vita. Esse vanno dunque sempre lette all’incrocio di questi due campi, come processo di confinamento e rottura dei blocchi alla mobilità;
2) I migranti e le migranti non solo sfidano il sistema dei confini, ma mettono in tensione, ridefiniscono e fanno evaporare una serie di elementi costitutivi dei sistemi politici moderni. Gli effetti dei movimenti migratori sono leggibili infatti anche a partire dal loro incidere sull’idea stessa di rappresentanza, nonché di nazione e di popolo. Questi criteri sono costretti a rinserrarsi su improbabili ritorni all’indietro o a misurare la loro inadeguatezza rispetto alla mutazione che definiscono gli uomini e le donne che attualmente, a milioni, si spostano sul pianeta, risultando uno dei fattori più rilevanti nella trasformazione degli Stati;
3) L’attuale consistenza delle migrazioni deve essere ricondotta, così come per quanto da poco affermato rispetto alla crisi, a una lettura di lungo periodo. Al di là delle contingenze, esistono numerose evidenze che inducono a indicare ancora una volta negli anni Settanta uno dei momenti di scaturigine del fenomeno. Dissoltosi l’ordine coloniale e con l’innesco dei processi di restaurazione neoliberale, iniziano in maniera nuova i movimenti migratori che possono essere letti con una specifica continuità sino ad oggi. In altre parole: migrazioni e instaurazione di quella che genericamente viene definita globalizzazione sono due facce della stessa medaglia;
4) E’ possibile leggere le migrazioni come un vero e proprio movimento sociale? Un movimento che evidentemente si riproduce per codici, dinamiche e caratteri che nulla hanno a che fare con le rappresentazioni e le tradizioni dei movimenti sociali cui siamo abituati. Ciò non toglie che provare ad adottare questa lente analitica possa essere un esercizio politicamente produttivo, a patto che non si cada nel tranello di costruire un “soggetto migrante” come categoria unitaria, mentre al suo interno si annidano una molteplicità di soggettività, esperienze, vissuti e prospettive che rifuggono costitutivamente questa riduzione;
5) Quanto appena affermato non toglie però il fatto che la portata delle migrazioni attuali indica che ci si trova di fronte a un fenomeno di massa, che collide con i procedimenti di individualizzazione tipici delle società neoliberali. Laddove la “massa” nasceva con il costituirsi della metropoli, oggi una nuova massa in movimento si definisce all’interno dell’urbanizzazione planetaria, ponendo il problema di come pensare una politica che sia all’altezza di questa “novità”;
6) La tensione da poco descritta tra la spinta soggettiva e i dispositivi di contenimento delle migrazioni deve essere ricondotta alla molteplicità dei confini che attualmente punteggiano i variegati territori del pianeta. Non è infatti solo sulle frontiere degli Stati che confliggono i movimenti migratori. Seguire questi movimenti porta infatti in luce una innumerevole sequenza di confini organizzati lungo tutto il territorio, all’interno delle città, nelle procedure giuridiche, nelle discipline lavorative ecc… Evidenziando come sia necessario ricondurre le lotte su questo terreno a dimensioni generali.
A partire da questa serie di elementi si pongono una serie di domande e questioni che evidentemente potranno trovare “risposte” solo a partire dalle lotte. Di fronte a questo movimento che eccede costitutivamente i piani organizzativi delle attuali strutture politiche antagoniste esistono già molte lotte che hanno avuto il protagonismo di una “componente migrante”. Tuttavia spesso, si pensi alle lotte nella logistica e per il diritto all’abitare, si è verificata in molti casi anche una tensione al negarsi in quanto soggetto migrante all’interno di queste stesse lotte. Ciò va probabilmente ricondotto alla necessità appena indicata di non assumere una unitarietà di un soggetto migrante, così come è necessario anche analizzare i conflitti prodottisi di recente sulle frontiere italiane alla luce dei vari problemi che hanno posto. Mentre le ultime mobilitazioni al Brennero, alcune più opportuniste altre più genuine, hanno mostrato l’impossibilità di uscire da un piano esclusivamente simbolico, i processi sviluppatisi a Ventimiglia hanno indubbiamente un significato maggiore. Essi hanno infatti quantomeno alluso a una relazione col territorio, e sono stati agiti assieme ai migranti, e non in loro voce. Qui si situa probabilmente il crinale decisivo, in quanto è proprio su questo terreno che va orientata la ricerca militante.
Guerra. L’ormai lungo processo di crisi e ridefinizione della forma-Stato ha come specifico effetto quello di una profonda mutazione del paradigma bellico. La data che è possibile inquadrare per trovare un passaggio decisivo è quella del 1991, quando finisce l’esperienza dell’Unione Sovietica e inizia la prima guerra del Golfo. Finita la pax atomica della Guerra fredda, da allora si è assistito a uno stiramento del guerra che da strumento in mano agli Stati è sempre più divenuta un termometro dell’irregolarità e dell’asimmetria dei conflitti. Per cogliere questo spostamento è necessario adottare lenti differenti da quello dello Stato per comprendere cosa oggi sia la guerra, nonché il suo tendenziale definirsi come una guerra civile globale, molecolare, diffusa e permanente. L’attualità presenta innumerevoli verifiche di questa lettura.
Se è vero che sempre più il mondo globale deve essere immaginato come se le metropoli dei vari continenti non fossero altro che i quartieri di una grande meta-città planetaria, questa città riconduce appunto a quella che i Greci definivano come statis, ossia quella guerra civile che di fianco alla polis e al polemos mostra la circolarità della condizione politica. All’interno di questo schema deve essere criticata una lettura rigida dei piani geografici attorno ai quali si è organizzato il mondo del passato, oggi appunto in via sfarinamento. Non esiste più una secca scalarità, che a partire dal basso (il locale), sale verso il nazionale, giunge al continentale (si pensi all’Europa), per poi giungere al globale come vertice della scala stessa. Questi piani sono oggi intrecciati, sovrapposti in maniera rapsodica e mutevole. L’urbano e il globale, diceva qualcuno, si sovrappongono e si sconvolgono reciprocamente. Organizzati attorno alla moltiplicazione dei centri che definisce il campo di tensione del presente, la guerra e una opposizione ad essa non possono che essere pensati che a partire da una loro radicale ridefinizione.
E’ evidente che non è più possibile riproporre ricette di mobilitazione del passato. Concluso da tempo il ciclo No war, una contrapposizione sociale alla guerra deve probabilmente prendere le mosse proprio dalla sua stessa liquefazione in molteplici rivoli e luoghi. Non è d’altronde un caso che le uniche esperienze di rilievo si trovino laddove si verifica un evidente impatto territoriale, come nelle mobilitazioni sarde contro il sistema militare. Se le operazioni belliche, invece che definirsi come invasione di Stati nemici, tendono sempre più a diventare operazioni internazionali di polizia indissolubilmente legate alla difesa o promozione degli interessi economici di ditte e interessi specifici (un caso su tutti: l’attuale missione italiana per la difesa dell’appalto vinto da un’azienda per la ristrutturazione di una diga a Mosul), qualcosa di nuovo va pensato a riguardo. D’altro canto quanto sta avvenendo in questi mesi in Francia è un indicatore importante per questo discorso. Mentre lo Stato francese è sempre più impegnato su innumerevoli fronti, mentre le incursioni dirette da Daesh sul suolo nazionale portano in luce l’esistenza di numerosi foreign fighters partiti dalle città francesi, lo stato d’emergenza dichiarato dal governo viene duramente sfidato da un movimento che prendendo a spunto una legge sul lavoro produce mesi di scontro nelle piazze individuando nella polizia, poco prima santificata dai media per le operazioni contro il terrorismo, il primo nemico. Qui non è l’opposizione alla guerra in quanto tale il tema mobilitante e preso di petto, bensì qualcosa ad essa intimamente connesso ma evidentemente più sottile. Un altro caso, all’interno di una ampia raggiera di luoghi, che deve essere preso in considerazione è quello del Rojava. Alla fine del ciclo insurrezionale apertosi tra il 2010 e il 2011, questa esperienza rivoluzionaria rimane il portato più importante di questa stagione che ha profondamente destabilizzato il quadro sistemico. L’opzione bellica con la quale si è determinata la risposta alle insurrezioni ha trovato qui una capacità di rovesciamento della guerra di importanza storica. Tuttavia, anche su questo fronte, non si può che registrare l’insufficienza con la quale le componenti antagoniste in Italia (e non solo) hanno avuto la capacità di sostenere e in qualche misura tradurre questa esperienza.
Per concludere, guerra crisi e migrazioni pongono una serie di domande aperte alle soggettività antagoniste che non possono che prendere il là dalla necessità di rivedere e scomporre questi macro temi. Nella crisi delle forme politiche attorno alle quali si sono organizzate negli ultimi anni le realtà antagoniste, si tratta di capire che tensioni trasformative è necessario seguire per contrapporsi alle tipologie del ristrutturarsi del comando attorno ai nodi qui presi in considerazione. In seconda battuta, bisogna domandarsi come le forze attuali possano mettersi a servizio di uno sviluppo dei conflitti che si irradiano attorno a questi nodi, ricercando nuovi ingressi, nuove linee di contrasto, inedite costruzioni politiche. Una delle dimensioni metodologiche che può essere utile approfondire è il come legare costantemente i macro-temi come quelli di guerra, migrazioni e crisi all’interno di specifiche composizioni sociali, così come all’interno delle specificità che si presentano nei territori. Una necessaria fase di sperimentazione si apre, che richiede una buona dose di ricerca della trasformazione, di spregiudicatezza, di ambizione. Che richiede che della necessità di mutazione, dello “sporcarsi le mani” che talvolta rischia di diventare logora retorica, si faccia una prassi. Si rischierà, si sbaglierà, si ritenterà meglio. L’importante è dismettere la ripetizione di vecchie ricette, imboccare l’uscita dalle gabbie ideologiche e dalla “forma-movimento” alla quale siamo abituati (con tutti i suoi specifici corollari). In questa direzione c’è probabilmente molto da ragionare e da tentare attorno alle tensioni che si aprono proprio laddove il vecchio pare ripresentarsi nel nuovo.
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