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I ”professionali” e il rapporto scuola/lavoro.

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Ripubblichiamo questo testo apparso sulla rivista Gli Asini che analizza da un punto di vista interessante la storia e le trasformazioni che riguardano gli istituti professionalizzanti sia pubblici che privati mostrandone la fusione sempre maggiore tra formazione e professionalità, ossia la conseguente legittimazione della messa a valore per il profitto permessa dalla scuola-azienda. 

 

Lorenzo Parelli aveva 18 anni e frequentava un Centro di Formazione Professionale regionale privato – non una scuola statale quindi – dove assolveva al suo obbligo scolastico e formativo. E’ morto sul luogo di lavoro mentre svolgeva uno stage necessario per prendere una qualifica triennale di formazione professionale che lo avrebbe condotto direttamente nel mondo del lavoro, non mentre svolgeva una alternanza scuola-lavoro oggi chiamata PCTO, Percorsi per le competenze trasversali e l’Orientamento nella scuola statale. Questo non cambia niente e non assolve nessuno ma è necessario metterlo a premessa del discorso per comprendere il mondo della scuola in cui era immerso e le connessioni con la reazione studentesca.

Questa morte ha infatti innescato in tutta Italia le proteste degli studenti, che hanno condensato intorno a questo evento tutta una serie di critiche rispetto alla gestione della scuola durante la pandemia, alla fatiscenza e inadeguatezza di molti degli edifici scolastici destinati alla secondaria superiore, alla mancanza di spazi di democrazia e di partecipazione degli studenti alla vita scolastica e a quel processo di aziendalizzazione della scuola ormai esplicito e che ha ridotto l’educazione e l’istruzione ad una sommatoria di “competenze” – da acquisire, valutare, certificare – fra le quali spicca l’imprenditorialità.

Basta leggere alcuni documenti europei come il quaderno Eurydice “L’educazione all’imprenditorialità a scuola in Europa”, in cui è possibile trovare la definizione di questo concetto di aziendalizzazione: L’educazione all’imprenditorialità è definita come lo sviluppo nei discenti delle competenze e della mentalità necessarie a far sì che possano trasformare idee creative in azioni imprenditoriali. Questa è una competenza chiave per tutti i discenti, di supporto allo sviluppo personale, alla cittadinanza attiva, all’inclusione sociale e all’occupabilità. Essa è importante in tutto il processo di apprendimento permanente, in tutte le discipline di studio e per tutte le tipologie di istruzione e formazione (formali, non formali e informali) che contribuiscono a creare uno spirito o un comportamento imprenditoriale, con o senza un obiettivo commerciale. Tale modo comune europeo di intendere l’imprenditorialità come una competenza chiave indica una duplice enfasi. In primo luogo, lo sviluppo di attitudini, abilità e conoscenze imprenditoriali dovrebbe consentire alla persona di trasformare idee in azioni. In secondo luogo, l’imprenditorialità non riguarda solo le attività economiche e la creazione di imprese, bensì, in senso più ampio, tutte le aree della vita e della società. Le azioni innovative e creative possono essere promosse all’interno di una nuova impresa oppure di organizzazioni esistenti, come “attività intraprenditoriali” (pp. 29-30).

A parte la capacità di questo linguaggio tecno-burocratico di creare incredibili neologismi come quello di intraprenditorialità e di riportare l’intera vita di un essere umano nell’alveo di una attività di impresa, da questo documento emerge chiaramente la decisa curvatura che l’ideologia liberista europea sta imprimendo alla scuola. In rete è possibile trovare nei siti di alcuni istituti comprensivi anche i tentativi di declinare dentro i curricoli della scuola d’infanzia conoscenze, abilità e atteggiamenti necessari per sviluppare negli infanti lo spirito d’iniziativa e la competenza di imprenditorialità attraverso il gioco.

Quando poi lo “spirito critico” e il senso di iniziativa lo interpretano i movimenti studenteschi a modo loro nelle piazze la risposta è di tipo repressivo. L’alternanza scuola-lavoro rientra pienamente all’interno di questa logica aziendalista e per questo è l’obiettivo critico dei movimenti.

La morte di Lorenzo però chiama in causa anche altri aspetti del rapporto fra scuola e lavoro che bisogna chiarire analizzando i contesti in cui questo rapporto avviene.

L’istruzione professionale in Italia è stata storicamente divisa tra un’istruzione professionale di competenza statale e assolta dentro gli Istituti Professionali statali (IP), che rilasciano diplomi quinquennali validi in tutto il territorio nazionale, e una formazione professionale di competenza delle Regioni e assolta dai diversi enti di formazione professionale (FP) privati, che sono spesso di natura confessionale, sindacale o organizzati da associazioni di categoria e accreditati localmente. Questi enti organizzano corsi rivolti ad adulti che hanno bisogno di riqualificarsi o che hanno perso il lavoro, giovani che dopo il diploma vogliono approfondire la propria formazione professionale e giovani in obbligo scolastico, per i quali è possibile assolvere l’obbligo acquisendo una qualifica di formazione professionale di tipo triennale riconosciuta a livello europeo. Spesso questa qualifica non ha una reale corrispondenza in termini retributivi nel mondo del lavoro italiano, poiché il titolo non garantisce agli studenti con la qualifica un inquadramento lavorativo chiaro ed entrano ancora nel mondo del lavoro come tirocinanti o apprendisti, prolungando di fatto di diversi anni la loro precarietà.

Questi enti di formazione professionale privati condizionati dalle Regioni e dai loro finanziamenti, dalle culture organizzative della formazione professionale dei vari enti e dai rapporti con il tessuto produttivo locale con le sue categorie professionali, finiscono per essere una realtà estremamente disomogenea se osservata a livello nazionale, di cui è impossibile fare una valutazione o una analisi complessiva sia della sua efficacia che dei suoi nodi critici. Dove il tessuto del mondo produttivo è più sano e ispettorati, sindacati ed enti locali sorvegliano e sono in dialogo con un mondo del lavoro regolato, l’esperienza dei ragazzi negli stage sui luoghi di lavoro può rivelarsi positiva. Viceversa in regioni caratterizzate da un mondo del lavoro dove molte sono le irregolarità, il lavoro nero, le condotte antisindacali, il caporalato e scarsi sono i controlli, lo stage può essere una esperienza pericolosa per i ragazzi oltre che per nulla formativa e molto vicina allo sfruttamento. 

Gli Istituti Professionali statali (IP) sono invece dentro il sistema scolastico nazionale centrale e sono stati negli ultimi decenni oggetto di diversi tentativi di riorganizzazione – vista anche l’emorragia di iscrizioni da cui sono caratterizzati – che però hanno sostanzialmente prima ridotto le ore e le risorse economiche per attrezzare al loro interno laboratori professionalizzanti, poi li hanno spinti ad entrare nel sistema della formazione professionale regionale accreditandosi come enti di formazione presso le regioni per poter rilasciare anch’essi, oltre ai percorsi che portano al diploma, le stesse qualifiche triennali che rilasciano gli enti di formazione professionale. Questo sistema integrato fra formazione e istruzione in cui è possibile assolvere l’obbligo scolastico o nella formazione professionale regionale o in quella statale si chiama IeFP, Istruzione e Formazione Professionale.

Nella scuola statale il rapporto fra scuola e lavoro si dà sostanzialmente nei PCTO – Percorsi per le competenze trasversali e l’Orientamento, che hanno una durata minima di 90 ore da svolgersi nel triennio nei licei mentre negli istituti tecnici il monte ore è di 150 e nei professionali di 210 ore.

Le scuole statali possono declinare questa esperienza in modo più o meno sensato: offrendo agli studenti corsi di informatica, corsi di lingua orientati al mondo del lavoro, attività di sostegno allo studio, esperienze esterne che possono avere una ampia varietà ed andare da esperienze nel sindacato, attività in aziende fino a corsi di marketing e imprenditorialità presso le sedi locali delle camere di commercio, ma ci sono anche laboratori con associazioni culturali o di volontariato, esperienze in musei o biblioteche. Molto dipende dalle scuole e dalle decisioni dei collegi dei docenti e dall’orientamento più o meno piegato alla cultura del management dei Dirigenti scolastici. E’ per questo che la democrazia e spazi di discussione su cosa debba fare e a cosa debba tendere la scuola sono fondamentali, e sarebbe fondamentale che a questa discussione partecipassero anche gli studenti visto che uno dei mantra più presenti nelle progettazioni e nei convegni che riguardano la scuola e i suoi problemi è quella di costruire comunità educanti, che però non sembrano mai essere costituite da persone in carne ed ossa (studenti, famiglie, insegnanti, educatori) ma piuttosto da un indistinto territorio fatto di imprese, associazioni, enti, istituzioni.

Nei percorsi IeFp, Istruzione e Formazione professionale, che quindi possono trovarsi sia dentro gli Istituti Professionali statali che dentro gli enti di Formazione regionali, il rapporto fra scuola-formazione e lavoro non è mediato da brevi esperienze di PCTO che spesso si risolvono in corsi a scuola ma da vere e proprie esperienze di formazione/addestramento in azienda attraverso la forma degli stage, che durano circa 3/400 ore ogni anno (più di un terzo del monte ore scolastico).

C’è da fare una distinzione quindi tra la formazione professionale regionale da una parte e i corsi di formazione dentro gli istituti statali ed essa riguarda le condizioni strutturali in cui si svolge la formazione. La scuola ha classi più numerose, meno dotazione di strumenti e laboratori, un personale docente impreparato a fare da ponte tra il mondo della scuola e quello del lavoro e che tende a sentirsi invaso da quest’ultimo, stante anche la minore capacità di gestione della complessità burocratica dei finanziamenti regionali.

Gli enti privati regionali sono invece spesso più piccoli strutturalmente, le classi sono meno numerose, hanno una migliore dotazione di strumenti e laboratori perché sono nati storicamente con la funzione di riqualificare al lavoro anche gli adulti, hanno una più stabile rete di aziende in cui inviare gli studenti in stage e figure come i tutor che hanno più tempo per seguire le esperienze dei ragazzi sul lavoro.

Migliori condizioni organizzative, almeno sulla carta, degli enti di formazione non hanno garantito a Lorenzo di tornare vivo dallo stage. Questo perché le 400 ore annuali che uno studente svolge di stage sono su quei luoghi di lavoro dove sono morte oltre 3 persone al giorno nel 2021. 

Le esperienze di stage possono essere anche esperienze di infortunio, di sfruttamento di manodopera gratuita, di relega dei ragazzi in attività per nulla formative e di bassa manovalanza, durante le quali i ragazzi e le ragazze possono subire molestie, essere oggetto di razzismo, subire trattamenti ingiuriosi.

Ma chi sono i ragazzi che a 14-15-16 anni scelgono i percorsi di formazione professionale triennali? 

Più della metà sono ragazzi fuoriusciti dai percorsi di istruzione tradizionali, espulsi dalla scuola attraverso bocciature e insuccessi scolastici; più della metà degli studenti sono maschi mentre le femmine si concentrano nei percorsi professionalizzanti molto connotati dal lavoro femminile come l’operatore alle cure estetiche; al Nord alta è la quota degli studenti figli dell’immigrazione. Sono ragazzi e ragazze che non andranno all’università, forse una parte di loro tornerà a scuola dopo qualche anno per prendere un diploma, ma saranno una minoranza. 

Con il lavoro hanno un rapporto diverso da quello che hanno gli studenti dei licei che spesso animano i movimenti studenteschi: non cercano un lavoro in cui realizzarsi e trovare soddisfazione, ma un lavoro da cui ottenere soprattutto sostentamento materiale, dignità, una alternativa alla precarietà del lavoro nero o dequalificato vissuto dai loro genitori o in cui confermarsi nella classe sociale di provenienza: popolare, operaia o artigiana.

Sono studenti spesso nelle scuole considerati difficili soprattutto nei primi anni scolastici: avrebbero bisogno di interventi educativi, di essere motivati, di attenzioni individuali, di orientamento, di ricostruire un senso di fiducia di sé. Sanno bene che sono visti dagli altri come studenti di serie B e non partecipano a manifestazioni o movimenti, sono proiettati in una vita da adulti, non potranno prolungare la loro giovinezza allungando il percorso formativo nell’Università: diventeranno subito a 18 anni lavoratori, precari o disoccupati. Rispetto al lavoro non hanno nessun idealismo, ad attirarli è soprattutto la possibilità di diventare adulti e conquistarsi una certa indipendenza dalle famiglie, di poter avere una casa, una famiglia propria.

I loro luoghi di lavoro non saranno gli studi grafici, gli uffici pubblici e privati, le scuole, le banche, ma saranno luoghi di lavoro più pericolosi come i cantieri, le fabbriche meccaniche, le cucine, i magazzini della logistica.

Chi parla di una scuola che deve formare alla cittadinanza e trasmettere cultura spesso dimentica che gli studenti non sono tutti uguali e che ognuna di queste parole si declina in modo diverso a seconda della classe sociale degli studenti. I discorsi che parlano di una scuola che deve rimanere separata dal lavoro sono molto permeati da una cultura umanistica che riconosce la cultura nella letteratura, nell’arte, nelle scienze ma fatica a riconoscere il contributo che le culture tecniche e professionali di contadini, operai e artigiani hanno dato ad una idea di lavoro che sia operosità, collettività, cooperazione e diritti dei lavoratori-cittadini. E’ in questo disconoscimento che il lavoro a scuola oggi diventa cultura di impresa, perché è un lavoro visto dall’alto di chi organizza e domina i processi economici, non di chi nel tentativo di superare quotidianamente l’alienazione, costruisce il mondo e il vivere sociale non per come esso è ma per come dovrebbe essere dentro e fuori i luoghi di lavoro: una vita a misura dell’essere umano, dell’ambiente, della comunità.

I movimenti studenteschi hanno ragione a opporsi con rabbia all’aziendalizzazione della scuola e le pedagogie attive novecentesche di Freinet, Dewey, Pestalozzi, di Goodman e del Kropotkin di “Campi, fabbriche e officine” possono forse guidarci verso una scuola capace di distinguere il lavoro vivo dal lavoro alienato e sfruttato e a ricomporre senza gerarchie lavoro intellettuale e lavoro manuale nella formazione.

di Fulvia Antonelli

 

 

 

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