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iFu. L’ambivalenza rimossa di Steve Jobs

Steve Jobs è stato un capitalista nell’accezione più classica di questo termine: ha saputo appropriarsi della ricchezza creativa della controcultura e della cooperazione degli anni ’70 ed ’80 statunitensi e servirsene per creare e veicolare bisogni e tendenze di mercato. Destreggiandosi, con abilità da riconoscere, tra cyber-èlite e masse, contribuendo alla perdita d’aureola delle prime ed alla messa a lavoro generalizzata dell’intelligenza delle seconde, tramite interfacce sempre più semplificate.

In particolare, l’attraversamento della scena dell’Homebrew Computer Club, fucina di numi dell’ICT da Richard Stallman a Lee Felsenstein è stata un prerequisito indispensabile per Jobs per agire pienamente nella successiva fase di socializzazione del web. Molti attacchi vengono rivolti a Steve Jobs da parte del mondo hacker, che lo accusa di aver svenduto al grande business l’innocenza della comunità amatoriale – profittando egli stesso del decisivo apporto tecnico del cofondatore di Apple Steve Wozniak.

Il che è vero, tanto più inserendosi in un graduale e generalizzato processo di cattura e massificazione del desiderio degli informatici presso il grande pubblico che porterà al declino dell’autonomia dei cosiddetti cybersoviet.

Ma ci si deve anche chiedere: si potevano socializzare diversamente queste spinte? Cosa ha portato a non farlo?

Per ironia della sorte, il gran ritorno di Jobs alla guida di Apple avviene a fine anni ’90, in concomitanza con l’ascesa dell’open source come strategia di sviluppo e commercializzazione del software libero; un processo storico che non lascia indifferente l’uomo di Cupertino, come prova l’implementazione di Mac OS X. Ma mentre l’open source facilita la circolazione del codice – pur certamente in maniera interessata ed ambigua – la nuova Apple con l’avvento dei nuovi device di consumo di beni digitali fa presto a trincerarsi nell’approccio closed. IPod, iPhone, iPad: basta una lettera, quella “i” davanti, per conferire alla particolarità (l’individualismo, il prodotto personale e ricercato) un’identità e una dimensione collettiva.

Identità e dimensione collettiva soggette alle istituzioni telematiche made in Cupertino: iTunes, AppStore, iCloud. “Giardini recintati” in cui giacciono, prigionieri e commercializzati, quei beni digitali che in precedenza si reperivano attraverso i canali del peer-to-peer, su cui transitavano liberamente.

L’aura di Steve Jobs deriva anche da questo: dalla capacità di ricontestualizzare la “chiusura” come “esclusività”; e dallo spostare il baricentro dell’attenzione attorno ad un nuovo gadget chiuso dalla “paranoia” del produttore alla “curiosità” del consumatore. Il logo della mela è così diventato un catalizzatore di emozioni positive, ed apporlo a nuovi dispositivi ha reso possibile il boom di implementazioni capitaliste inizialmente di nicchia (il mercato dei tablet poi egemonizzato da iPad) o passate nell’indifferenza – se non diffidenza – generale (iCloud)

Con questo non vogliamo fermarci a ripetere “si, ma lui quell’invenzione l’ha copiata da qualcun’altro” (ovvio, se si pensa all’adozione da parte di Jobs di interfacce e tecnologie sviluppate dalla Xerox: abbiamo però sempre dato per scontato che la produzione di innovazione sia un processo collettivo, in quanto innervato da molteplici relazioni ed influenze), ma sottolineare come la socializzazione dell’innovazione da parte (e di parte) di Apple sia stata veicolata da una straordinaria capacità di torsione del presente, insita nel potere messianico del suo fondatore. Che si struttura a partire da una forte organizzazione della comunicazione: leadership (accentramento delle responsabilità interne di Apple sullo stesso Jobs), marketing (utenza Apple come status symbol), estetica (design e simbolismo), tutti interrelati nella costruzione spettacolare di eventi di massa come i keynote.

Così viene valorizzata a posteriori la ridondanza dell’innovazione (dell’interfaccia grafica alla Xerox non sapevano che farsene), i difetti dell’Iphone passano in secondo piano (attaccando quelli degli altri smartphone) o diventano motivanti sfide di hacking, gli operai-schiavi cinesi della Foxconn spariscono, il greenwashing partito al momento giusto accontenta le sensibilità ambientaliste. Non è facile per le voci critiche decostruire questi passaggi: ad esempio Phonestory, un edugame di Molleindustria per Iphone ed Android che illustrava il ciclo di produzione degli smartphone e le loro funzionalità di tracciamento, è stato rimosso dall’Apple Store senza preavviso.

Ma il traguardo più compiuto di Steve Jobs è stato quello di aver creato il primo vero brand emozionale dell’età dell’informazione attorno alla propria creatura, per spingerla inesorabilmente al centro del mercato: fino a diventare la prima azienda hi-tech al mondo per quotazione di borsa nel 2010. In maniera non dissimile da quanto realizzato da Henry Ford in epoca industriale.

Tutto a partire dallo spot del Macintosh del 1984, lanciato durante uno dei picchi più intensi della guerra fredda, in cui non si pretendeva di vendere un prodotto, ma la libertà dal grande fratello del consumo di massa. Il fatto che il culto della personalità di Jobs, e la sua concezione del mercato abbiano creato rapporti di forza altrettanto coercitivi è passata in secondo piano, perché intanto i clienti si sono trasformati in fan, gli oculati compratori in eccitati zeloti. Ed il fatto che l’operazione sia riuscita legando le emozioni ed i cervelli dei lavoratori della conoscenza alle macchine made in Apple – con la collaudata miscela di persistente ed effimero, design e spettacolo sopra descritta – non potrebbe essere più esplicativo.

Un modello di business da un lato rivoluzionario, dall’altro profondamente votato alla salvaguardia dell’esistente: che ha posto fine a qualunque pretesa di anarchia ed universalità della rete, tramite l’imposizione di rapporti economici mediati negli spazi angusti dei “giardini recintati”. Non è un caso che in queste ore la scomparsa di Jobs venga commentata da tante voci della grande industria discografica ed editoriale. Salvate dal tracollo, quando non confermate nei loro ruoli di potenti intermediari, grazie agli accordi stipulati a peso d’oro con la casa di Cupertino. Per tacere della canonizzazione in mondovisione del leader di Apple da parte di una classe politica cianotica, e incapace di esercitare lo stesso potere messianico sui propri subalterni in tensione.

Più importante che elencare gli elogi di lassù è mettersi in ascoltato delle voci dal basso, anche quando traboccanti di falsa coscienza. I necrologi dei fanboy più accaniti hanno ad esempio paragonato l’importanza della mela di Jobs a quella di Newton e al frutto proibito dell’Eden. Noi possiamo scorgere in questi slanci il riflesso di un’estetica della conoscenza e della morte, dal cambiamento della percezione del mondo alla consapevolezza della dipartita. Lo stesso fondatore di Apple allude nel celebre discorso di Stanford alla funzione della morte quale tramite di motivazione (rispetto al tempo individuale) e rinnovamento (rispetto al tempo universale). Un costrutto emotivo e simbolico potentissimo. Piegato in queste ore, tramite media tradizionali (tra cui le copertine patinate di Wired e dell’Economist) e rete internet, alla celebrazione, consacrazione e riproduzione del simulacro del self made man Steve Jobs. E con esso la perpetuazione del sogno americano, dell’ideologia californiana, dell’individualismo proprietario che ad esso sottendono.

In questo senso la scomparsa del CEO di Apple non è, semplicemente e cinicamente, “l’ultima grande campagna promozionale di Apple”, come alcuni l’hanno definita: bensì quella di un intero modello economico, culturale e relazionale.

E’ questa la sfida. Il capitalismo informazionale perde oggi uno dei suoi esponenti di punta, un grande persuasore e un abilissimo manipolatore di senso comune attorno alla qualità dei rapporti di produzione e consumo odierni.

Demistificare Jobs sottolineandone l’ambivalenza: è il primo passo per portare alla ribalta la brutalità dei rapporti economici del mondo che ha contribuito a creare. E stavolta, il turno di mordere la mela della conoscenza collettiva è il nostro.

InfoFreeFlow (@infofreeflow) per Infoaut

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