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Il calcio italiano come paradigma della crisi italiana e non

 

Catania, stadio Massimino. Uno di quegli anticipi di campionato che vanno in scena ad orari assurdi, per accontentare le televisioni a pagamento, consentendogli di catturare maggiori fette di pubblico diversificando le face orarie delle dirette. Cosa che da sola dovrebbe già suscitare qualche riflessione. Si gioca Catania-Juventus. In sostanza la partita viene decisa da due errori arbitrali: uno apparente e uno autentico (forse). Il primo episodio, al 27″, racconta del classico goal convalidato e poi annullato. Vediamo nello specifico l’ordine degli avvenimenti. Il guardialinee ne attesta la validità, considerando giustamente Borgessio in posizione regolare, e l’arbitro Gervasoni convalida. La panchina della Juve protesta vivacemente e il giudice di porta, Rizzoli, che tra tutti si trova nella posizione meno adatta a valutare correttamente l’accaduto, sentenzia via auricolare che l’attaccante del Catania si trovava in offside. Sinossi: l’arbitro Gervasoni annulla sotto le pressioni dell’unico suo collaboratore che non era nella posizione fisica di poter giudicare l’episodio e il cui ruolo sarebbe quello di controllare se la palla varchi o meno la linea di porta e tenere sotto controllo l’area. Il giudice di porta è una figura nuova nel calcio italiano. Preferita al freddo e insindacabile mezzo elettronico che a detta di molti “interessati” toglierebbe quel fascino tipicamente umano e fallibile al calcio giocato. O forse semplicemente toglierebbe agli “interessati” margini di manovra. Così si sono aggiunte queste grigie figure intermedie, ufficialmente subordinate all’arbitro, squisitamente tecniche, meno esposte alla luce dei riflettori, che sono in grado attraverso piccoli gesti di cambiare una partita, occupandosi per l’altro di una materia tanto delicata come nel calcio è l’area di rigore. Qui e oggi, il caso estremo, eclatante, non funge che da spia di una realtà molto più composita e sfuggente. D’altronde per cambiare il volto di un campionato non occorrono mille stratagemmi. Bastano pochi colpi ben assestati. D’altronde non si chiede che la squadra outsider vinca il campionato. Ma che la squadra più forte o una delle due più forti, ottenga quei sei o sette punti aggiuntivi che possono farle vincere un campionato e garantire un accesso in Champion’s League agli altri sodali-concorrenti (altro concetto base attorno a cui ruota il calcio ma faremmo meglio a dire il Capitale tout court). Lo scandalo che ha portato alla squalifica della Juventus con retrocessione e restituzione dei famosi due scudetti è evidentemente il minimo che si poteva chiedere a questo potentato di sopportare perché lo spettacolo continuasse. L’altro sforzo è stato quello richiesto per esempio a Milan e Inter costretti a contenere le spese e i “colpi di mercato” per non dare troppo nell’occhio. E via scendendo nella scala gerarchica delle punizioni e dei premi. L’Inter è stato nel 2006 l’imprevisto. Una squadra leader, che spendeva molto ma non riusciva, per incapacità o per impossibilità, ad esercitare le leve adeguate. Così Babbo Moratti si è spazientito è scuotendosi ha causato il cedimento strutturale che ha fatto tremare l’edificio facendone paventare il crollo. Crollo che però non è avvenuto. Il sistema si è auto-riformato e come è evidente non è cambiato nulla. Nella fattispecie, Rizzoli ha un paio di precedenti anomali e recentissimi con la Juventus: un rigore assegnato alla Juve a Pechino, nella finale di Supercoppa col Napoli. Rigore che è stato definito “dubbio” dallo stesso d.g. della Juventus Giuseppe Marotta; un espulsione assurda e una fallo da rigore iniziato in realtà fuori area, nel match di campionato contro l’Udinese. Il secondo episodio che caratterizza il match da pranzo di oggi è il goal della Juventus, viziato dal fuorigioco di Brendtner. A molti la sentenza pare scontata. Rizzoli e Gervasoni sono i corrotti, chi paga è la Juventus, all’estero queste cose non succedono. Questa è esattamente quel genere di semplificazione (o forse dovremmo dire de-complessificazione) che ha favorito l’immolazione rituale di quel farabutto di Moggi sull’altare dell’eterno ritorno. Moggi non è ovviamente un chierichetto, anzi, è il più bravo della masnada. E’ il primo della classe che si è trovato nel ruolo dell’animale sacrificato perché il sistema non si sgretoli, espulso o “eliminato” affinché il gruppo restante affermi la propria coesione (il cui legante è indubbiamente il profitto), perché le regole del gioco non cambino pur cambiando i protagonisti o meglio alcuni di essi. Moggi è il vero capro espiatorio. Altri personaggi hanno invece una funzione complementare nel compimento del rito. Ad esempio l’ex arbitro Paparesta che non a caso oggi può comodamente sbraitare dalle Pay TV contro Rizzoli. Potremmo dire che il suo sostanziale silenzio sui retroscena dei campionati incriminati del 2005 e del 2006 è stato pagato (direttamente o meno poco importa) con un futuro comunque dorato, se non da arbitro almeno da esperto nelle trasmissioni sportive. Il risultato paradossale, ma significativo e nient’affatto secondario, è che lui sia diventato il pubblico fustigatore del malcostume che un tempo gli è appartenuto.

Che le cose stiano così ce lo dice il buon senso e una qualche conoscenza della natura del potere. Come può restare in equilibrio un sistema di poteri equivalenti e contrapposti senza reciproche complicità e concessioni? Come può stare in piedi il tutto se non si parla più o meno la stessa lingua? Quanto alla squadra dello storico gruppo Fiat, non dimentichiamo che gli si contrappongono quella di Berlusconi e quella di Moratti, due concentrati formidabili di potere finanziario e non.

La storia del calcio italiano andrebbe poi letta sotto il profilo dei continui conflitti e delle continue sovrapposizioni tra la FIGC (ovvero l’istituzione calcio) e la Lega Calcio (ovvero l’organizzazione di tutte le squadre dalla serie A ai campionati provinciali, dunque il riflesso perfettamente gerarchizzato di chi conta nel calcio). Si scopre una storia lunga e datata di commissariamenti straordinari e di uomini che passano da una presidenza all’altra come se i due incarichi fossero in qualche modo uno il proseguimento dell’altro. Peraltro alla FIGC è affiliata l’Associazione Italiana Arbitri e pur senza approfondire granché direi che il cerchio si chiude. Una storia che ricorda molti altri settori dell’economia politica italiana, dove l’emergenza, la straordinarietà, è infine il sale stesso del funzionamento ordinario del sistema, la condizione irrinunciabile acciocché tutto funzioni. Un inestricabile groviglio di controllati e controllori che oggi rivela la corda di un organizzazione sociale di cui il calcio non è che un riflesso quasi insignificante se non fosse per il ruolo simbolico e di (de)compressione che svolge all’interno delle società europee. Forse varrebbe la pena approfondire questi meccanismi se non altro come cartine tornasole più o meno sensibili di una realtà economica in disfacimento e di un sistema ormai obsoleto persino rispetto alla riproduzione stessa del Capitale. Non saprei dire come si strutturino in Inghilterra o in Spagna questi sistemi. Certo è che anche in quei Paesi girano svariati miliardi intorno al calcio e che non ci troviamo neppure lì al cospetto di amanti dello sport o “simpatici ricconi” appassionati di calcio bensì di speculatori potenti. Sono sicuro che scopriremmo anche lì sistemi di potere ben strutturati e molto poco plurali che hanno cristallizzato meccanismi e modi tipici del mercato, della concorrenza e della guerra. Magari senza quegli eccessi carnevaleschi e un po’ ridicoli che dalle nostre parti finiscono sempre per nascondere la montagna dietro al dito, magari infilato da un bel anellazzo d’oro di bregana memoria.


MM

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