Il container urbanism: da dove viene la nuova installazione in Piazza Verdi?
E di colpo in bianco una pila di container si ammassa in piazza Verdi a Bologna. Ma davvero spunta ‘da zero’? Proponiamo in seguito una panoramica per provare a comprendere il significato profondo su questa nuova frontiera di un mobile urbanism.
Come abbiamo raccontato approfonditamente un po’ di mesi fa il Container, simbolo della movimentazione delle merci su scala planetaria, della Logistica, più incisivo dei trattati di libero commercio per consentire la globalizzazione, nasce nel Dopoguerra. La Ideal X, una vecchia nave petroliera, salpa il 26 aprile del 1956 dal porto di Newark (NY) con a bordo il primo carico di container. Quarant’anni dopo il 90% del commercio mondiale si muoverà in container spostati da navi-cargo disegnate per trasportarli. La prima nave costruita come porta-container salpa l’anno successivo, e prende il nome di Gateway City…
Il container è stato ideato da Malcom McLean, ex camionista.
«Se il nome di Henry Ford è assunto come simbolo del tipo di industria che, usando la catena di montaggio per la produzione di massa, contraddistingue la prima metà abbondante del Novecento, McLean merita di essere menzionato tra coloro i quali contribuiscono a superare il fordismo o quantomeno ad innovarlo radicalmente – consentendo l’organizzazione di una gigantesca fabbrica senza pareti su distanze inedite. Con la trasformazione logistica indotta dal container le economie si riorganizzano avendo un peso sempre più sbilanciato sull’ambito della distribuzione e circolazione piuttosto che su quello della produzione diretta, potendosi estendere ad libitum geograficamente».
Oggi, come ipotesi, questa estensione di un modo di produzione a traino logistico sta direttamente esondando su tutte le spazialità urbane. Non solo dunque punti di condensazione, grandi hub come l’Interporto (costruito a fine anni Ottanta ed entrato a pieno regime nei primi Novanta), ma una tendenza alla ‘fluidificazione’ dei tessuti urbani, che devono, così come la forza-lavoro, divenire flessibili, mobili, pronti ad essere modificati secondo i ‘capricci’ dei movimenti dei capitali, della finanza. Ecco dunque che in due-tre anni AirBnb espelle centinaia o migliaia di studenti e famiglie dal centro di Bologna. Ecco che si fa un’opera come Fico per far arrivare i turisti, ecco il Comune che lancia un algoritmo, “Bologna è…”, per brandizzare la città. Ciò che nell’articolo sopra richiamato abbiamo definito come “il divenire-hub della città globalizzata”.
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È noto che da alcuni decenni gli Stati Uniti elaborano tendenze commerciali che, con qualche ritardo, arrivano quindi in Europa. A metà anni Novanta la mitologica figura dei cool-hunter, i cacciatori di nuove tendenze, iniziava a sguinzagliarsi per i ghetti di Los Angeles dopo i riot del 1992. Alla faccia di chi pensa al ghetto come un qualcosa di ‘esterno’, ‘fuori’ dai processi di valorizzazione, è proprio lì che invece queste figure catturano (è solo un esempio tra i tanti, e di ben più profondi si potrebbe raccontare) il fatto che molti ragazzi e uomini portino i pantaloni col cavallo molto basso. È la ‘moda’ di chi esce dal carcere, all’interno del quale non si possono tenere le cinture e quindi spesso i pantaloni sono calanti. Nel giro di poco tempo il pantalone col cavallo basso passa da dressing code dei neri poveri di South Central alle passerelle di moda di Hollywood. La moda è arrivata in Italia un po’ di anni dopo. Chi ha fatto le superiori nei primi Duemila ricorderà che quel tipo di pantalone era un must, un po’ stracciato per ‘gli alternativi’, costosissimi e con una orripilante scritta ‘Rich’ sul culo per i fighetti. Se dunque allora il passaggio tra le due sponde dell’Atlantico impiegava qualche anno a imporsi, con la diffusione massiccia di Internet questi tempi si sono progressivamente ristretti.
È solo da pochi mesi che sulle riviste di architettura statunitensi si possono trovare foto di container usati per costruire nuove spazialità urbane. Ma ecco che Bologna è capace di adottare al volo questa innovazione. I container in piazza Verdi! Quanto siamo avanti…
Come scrivevamo qui, eccoci proiettati all’interno delle ‘nuove frontiere dello sviluppo urbano’: il “Platform urbanism’:
«Città-vetrina, turistificazione, nuove infrastrutture ed edifici… Ma c’è anche una forte relazione temporale insita in tutto ciò. E non si tratta solo dell’aumento esponenziale di supermercati aperti h. 24 cui fa da contraltare la desertificazione notturna o la sua perimetrazione in aree funzionalizzate alla movida. Né si tratta solamente del progressivo affermarsi dell’e-commerce e della consegna a domicilio, che con un click conduce direttamente a casa o in qualunque luogo urbano qualsiasi tipo di merce in fasce orarie sempre più estese. È una più generale idea del just in time e del “tempo-bolla” quella che viene affermandosi. Un urbanesimo just in time che si definisce nell’uso dei container per organizzare bar ed eventi in zona universitaria…».
È dunque nel processo di “messa in movimento” del territorio che tutta la zona attorno alla piazza viene invasa di container stagionali. Usati come bar la scorsa estate, quelli nuovi, invernali (il “Winter Village”, come l’hanno chiamato…) al centro della piazza sono invece pensati come punti per turisti (sopra campa la scritta: “La promenade di Bologna” -sic!). Bisogna allora cercare di capire cosa c’è in atto. Gentrificazione? In parte, perché rispetto a piazza Verdi e limitrofi non si tratta tanto o solo di spostare una popolazione che ha casa lì con un’altra. Turistificazione? In parte, ma non c’è solo il progetto di rendere il centro di Bologna una grande vetrina per shopping e turismo dietro tutto ciò. Lotta al “degrado”? In parte, ma è noto come su questo terreno si giochino e misurino la costruzione di una percezione sociale più che dei veri e propri fenomeni concreti. C’è di tutto un po’ insomma, ma per quel che qui interessa è al nodo politico sotteso che bisogna guardare.
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Politicamente questa zona della città ha rappresentato negli ultimi anni un focolaio di ‘ingovernabilità’ sociale, potenziale per lo più, con però una sequenza di punte di conflitto significative. Sarebbe allora da ingenui pensare che questa strategia di containerizzazione non sottenda (anche) un’idea politica, di governo del territorio. D’altronde in molti stanno sostenendo che sempre più il capitalismo logistico nel quale viviamo debba essere analizzato con la lente di una critica dell’economia politica, in grado di mostrare la politicità di quanto invece viene presentato sempre e solo come ‘soluzione tecnica’. Questo vale su tutti i piani. Pensiamo solo alla cosiddetta ‘Nuova via della seta’, questa immensa costruzione di nuovi corridoi e infrastrutture per il trasporto merci dalla Cina all’Europa. Chi mai potrebbe credere davvero che si trattino, come da dichiarazioni ufficiali dei politici dei due continenti, di semplici opere per agevolare il commercio? Ci sono dunque politiche logistiche, potremmo dire. La containerizzazione della zona universitaria bolognese è, nel suo piccolo, una di queste.
D’altronde già più di un secolo fa Walter Benjamin aveva mostrato come l’architettura e l’urbanistica moderna siano discipline capitalistiche nate in risposta all’ingovernabilità delle città, sviluppatesi in risposta all’insorgenza del 1848 in particolare. E, si potrebbe dire oggi, le grandi operazioni di distruzione delle città di stampo ancora medievale che hanno fatto nascere la metropoli erano vere e proprie politiche logistiche. Si doveva fare spazio a un tessuto urbano aperto alla circolazione delle merci, adatto alla loro produzione, nonché adeguato al controllo della popolazione e per il libero passaggio degli eserciti. Ecco allora che le operazioni urbanistiche vanno sempre analizzate anche come progetti di ingegneria sociale e di counter-insurgency. Oggi non è più tempo (per ora quantomeno) di distruzioni e ricostruzione di ampia portata di pezzi di città. Ecco dunque l’uso dei container. Torniamo dunque a noi. A piazza Verdi.
C’è stato un punto di svolta nella sua storia recente. Parziale ovviamente. Che si è mosso su dinamiche sociali ben più ampie e profonde. Ma assolutamente significativo. Era il maggio 2013. La polizia veniva cacciata a calci dalla piazza. Ma è interessante soprattutto ricordare quel che è successo dopo tale evento. Per intere settimane le istituzioni, tutte (Comune, Questura, Università…) si erano ritirate attonite, frastornate. In quella piazza l’agibilità politica dei collettivi antagonisti era a un livello assolutamente inedito. Alla fine di un corteo che rivendicava gli scontri, era stata piantata, con tanto di aiuola, una pianta in mezzo alla piazza come omaggio alla rivolta turca allora in corso. Quello che era una per lo più stato pensato come elemento simbolico, aveva prodotto però un effetto molto più profondo. E non per le centinaia di persone che si fermavano sempre a farsi delle foto con la pianta. Né perché molti studenti turchi si erano messi in più occasioni silenziosamente attorno ad essa, replicando una forma di protesta allora in corso in Turchia del movimento nato per piazza Taksim. C’era qualcosa in più. L’inserire autonomamente un elemento fisico nuovo nell’ambiente urbano era un segno di potere, inaspettato. Compreso forse prima dalle controparti istituzionali che da chi quell’elemento l’aveva inserito nello scenario urbano. Ne avevamo in qualche modo parlato qui. Ce lo insegna d’altronde Henri Lefebvre che lo spazio è un qualcosa che si produce, e che la sua configurazione porta il segno di un rapporto di forza sociale. Spazio e potere, dunque. Possiamo allora dire che, quattro anni e mezzo dopo, la pila di container montata laddove stava quella pianta è un tentativo simbolico ed estremamente materiale di stabilire un nuovo ordine, o quantomeno di gettarne le (mobili) fondamenta?
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Forse sì. Ma vediamo brevemente cos’è successo da quel 2013 a oggi. Si è lentamente mossa una serie concentrica di processi, una complessa e sottile trasformazione socio-urbanistica.
1) Da piazza studentesca tra le altre, piazza Verdi è ora unico luogo o quasi del centro città rimasto per stare assieme la sera non chiusi in un locale; 2) Una chiara strategia poliziale che ha inserito in questa zona una popolazione che i sociologi direbbero ‘marginale’, fatta di venditori ambulanti e spacciatori, spingendola via e concentrandola qui; 3) Una continuità delle retoriche del degrado sui media e delle ordinanze amministrative; 4) Il tentativo claudicante di aprire all’esterno il teatro comunale (anche qui, a proposito di mobilità, da ricordare la piazza Verdi trasformata nel 2014 in parcheggio di auto blu e di lusso per una Prima del teatro, coi ricconi scesi dai colli per andare a teatro e temporaneamente così conquistare la piazza); 5) Una avvenuta e completa pedonalizzazione; 6) La sostituzione del posto di vigili urbani sotto al portico con la sede di un Comitato; 7) Mentre permanente è rimasta la presenza dei blindati all’angolo della piazza, presidio militare del territorio ‘inutile’ concretamente ma eloquente simbolicamente; 8) L’apertura di nuovi locali costosi e bar hipster in tutta l’area, culminata con una nuova immensa pacchianata che ha sostituito il bar studentesco Le Scuderie con un nuovo pezzo della city of food. E si potrebbero portare tanti altri esempi…
Il punto su cui val la pena soffermarsi, come ipotesi, è comunque che dopo la rottura del 2013 si sia progressivamente ricomposta una governance nell’area. Se dunque un suo Governo (quindi, semplificando, una sua gestione ‘dall’alto’, fatta di atti amministrativi e legislativi del Comune e gestione della Questura) è fallito, ecco la governance. Ossia una strategia che include privati e pezzi di ‘società civile’ nel prisma governamentale. Ecco allora che questa strategia arriva simbolicamente all’apice coi container impiantati al centro della piazza. Dalla cui torretta si possono guardare i vari murales su piazza Verdi e via Zamboni, segno ancora tangibile di una presenza politica, e di un’onda lunga del rapporto di forza accumulato negli anni, monito di una potenziale minaccia.
Questa nuova produzione di spazio via container, proprio nell’immaginare di inserire una torretta (al contempo dispositivo militare per il controllo del territorio e segno archetipico di possibilità di, dall’alto, poter ‘vedere di più’), mostra tuttavia la sua debolezza. Quel territorio che sfuggiva di mano ai poteri cittadini nel 2013, che ancora si incendiava nella notte dei tornelli, presenta oggi condizioni nuove per ri-pensare e agire un conflitto urbano su una nuova scala. Più alta. Quindi più perturbante. E potenzialmente più potente.
Qui si può aprire una nuova immaginazione e suggestioni, e una nuova pratica antagonista in grado di aggredire i processi in corso. Per sabotarli, in parte. Deviarli verso altri fini, laddove possibile. O semplicemente per starci dentro e contro, cogliendone le possibilità di rottura e indagandone gli spazi per la costruzione di autonomia. Quale pratica antagonista dunque dentro questo mobile urbanism? Come si lotta nella piazza dei container? Come si può vivere meglio nella piazza dei container? È possibile un loro contro-uso? Qui non si tratta (solo) di capire politicamente se e cosa, se e quali forze ci sono, per vivere e agire antagonisticamente quel territorio oggi. C’è in ballo anche la possibilità di elaborare strategie politiche e d’intervento in una città e un mondo che muta veloce. Tutte domande e nodi assolutamente aperti. E da sciogliere nella produzione di nuove dinamiche di conflitto sociale.
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