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Il posto di Hamas (e di chi chi seguirà o precede) in Palestina

Qualche precisazione sul ruolo del movimento, all’interno di una più ampia cornice di lotta anticoloniale

di Lorenzo Forlani, da lorenzoforlani.substack.com

Mi sembra sia arrivato il momento, o forse non ha mai smesso di esserlo. Vogliamo parlare di Hamas? E parliamo di Hamas, una volta per tutte, tentando di scrollarci di dosso paranoie, tensioni mai sopite, il rischio di malintesi, premesse attese, condanne preventive, artifici retorici, circumnavigazioni del tema, ipocrisia. Prendiamola larga ma arriviamoci.

Quella palestinese è, per usare un gergo politologico, una (delle tante) “guerra di popolo”. Dovremmo avere già una discreta familiarità con questa nozione, perché sono state “guerre di popolo” non solo praticamente tutte quelle anti coloniali (tra cui Etiopia contro Italia) del secolo scorso, quella di Mao Zedong e l’Armata rossa contro il regime feudale cinese e l’invasore giapponese, o quella (in parte ispirata a quest’ultimo) del Vietnam, ma anche, banalmente, quelle occidentali, come la stessa rivoluzione americana o il nostro caro Risorgimento.

Una guerra di popolo lega indissolubilmente civili e combattenti, insabbiandone il confine, sempre più labile. Si verifica in diverse condizioni ma quella ineludibile è l’enorme squilibrio di forze rispetto al nemico. In epoca moderna, cioè del primato dell’aviazione, avviene soprattutto quando una aviazione intenzionata a colpire i nemici dall’alto, senza rischiare truppe sul terreno (o minimizzandone i rischi), si ritrova a colpire non degli hangar, non (solo) delle fabbriche di armi o munizioni, non solo delle acciaierie ma tutto ciò che si trova nei paraggi, con l’obiettivo di eliminare il nemico stesso.

A chi si trova sul terreno, oltre alla resistenza armata ad oltranza (sancita dal diritto internazionale per chi è sotto occupazione), non rimane che la speranza di fare leva sul diritto umanitario, sulla necessità di proteggere i civili dai bombardamenti indiscriminati, magari trasformandosi in “scudi umani”, che fungano da deterrente. Ora, a parte suggerirvi di leggere il bel libro di Nicola Perugini e Neve Gordon sul tema, è evidente come quel diritto sia impotente, inerme di fronte ad Israele, che anzi, similmente a quanto fatto dal regime fascista a suo tempo in Etiopia, dai nazisti in Polonia, oppure dagli americani in Vietnam, e da tanti altri, da tempo recrimina e basa la sua retorica sulla deliberata frapposizione da parte delle milizie palestinesi di “scudi umani” tra loro stessi e i jet israeliani.

Ho già scritto in passato cosa penso degli scudi umani in Palestina, di come essi segnalino, più che la “inciviltà” di chi si trova ad usufruirne, la sperequazione di forze sul campo, la condizione di prigionieri semi disarmati dei palestinesi, l’assenza di un qualunque sostegno militare estero nei loro confronti, la riduzione massima degli spazi di strategia e di manovra militare per una milizia che opera in un teatro urbano densamente abitato e poco esteso, e la profonda interconnessione tra la società civile di una prigione a cielo aperto e le milizie armate anti coloniali che vi operano. È verosimile, per riprendere le classificazioni ricordate nel libro, che a Gaza gli scudi umani siano di tutti e tre i tipi: volontari, involontari e di prossimità. È ragionevole credere, considerando la longevità della lotta palestinese (attraversata da diverse ideologie dominanti nel corso dei decenni), nonché i tanti esempi in Asia e Africa nel corso del secolo scorso, che siano però più abbondanti quelli volontari, nell’ambito della citata guerra di popolo (e che costituiscono una delle più nobili, strazianti ed eroiche iniziative di resistenza non violenta della storia dell’Uomo), e quelli di prossimità, vista la limitata estensione della Striscia di Gaza.

Nel 1965, ricorda “Scudi umani, una storia dei corpi sulla linea del fuoco”, la CIA inaugurò il programma Phoenix per “smantellare le infrastrutture dei vietcong”, cioè i civili vietnamiti che sostenevano attivamente i guerriglieri, dando loro da mangiare, curando i feriti e offrendo loro un nascondiglio. Se nel 1965 quelle “infrastrutture” erano sopratutto fattorie tra le foreste, le risaie e le paludi del ben più esteso Vietnam, oggi sono gli ospedali, le scuole, le abitazioni civili di una città relativamente piccola come Gaza, nonché le altre conurbazioni adiacenti nella striscia.

Nello stesso periodo, gli americani lanciarono l’operazione Rolling Thunder, una campagna militare che vide un enorme dispiegamento di truppe, quasi mezzo milione nel 1969. Proprio come fanno oggi e da sempre gli israeliani, quando sostengono di disporre del “più morale esercito del mondo”, che “come nessuno cerca di evitare vittime civili”, mentre sganciava una tonnellata di bombe il presidente Johnson dichiarava che i suoi militari stavano mettendo in campo uno “sforzo senza precedenti nella storia della guerra”, per evitare uccisioni indiscriminate. Come gli israeliani, pensarono di lavarsi la coscienza sganciando con gli aerei milioni di volantini, per convincere i contadini vietnamiti che sostenere la resistenza fosse contro i loro interessi.

Come in quelli israeliani, nei volantini americani si leggevano frasi come “perché i viet cong usano i vostri villaggi come basi per combattere?”, “perché si nascondono evitando di affrontare le truppe sul campo?”, mentre bombardavano a tappeto con gli aerei gente a malapena provvista di difese aeree, e mentre sul terreno incontravano le difficoltà che poi concorreranno al loro ritiro. Diversamente dagli israeliani – che forse però si aspettano che i miliziani palestinesi si posizionino nel deserto, lontani dai centri abitati, a favore di radar, per farsi colpire dai jet -, nei volantini americani poi si esortavano i contadini (che ricordiamolo: erano sostenitori degli insorti, sostenitori non violenti della lotta) a “esortare i viet cong a combattere nei campi”.

Sebbene l’Occidente abbia fatto esperienza delle sue guerre di popolo, ed anche grazie ad esse si sia evoluto in senso più plurale, gli USA come Israele hanno preferito e preferiscono utilizzare in questi casi la stessa retorica sugli scudi umani utilizzata dai fascisti in Etiopia (e metodi simili, visto che i fasci usarono l’iprite come Israele usa il fosforo bianco), con cui gli insorti venivano bollati come “selvaggi che non conoscono i principi di diritto internazionale”.

Ovviamente il tentativo di delegittimare la guerra di popolo, riducendola all’uso di scudi umani, faceva parte di una strategia più ampia, volta a negare il diritto di resistere contro un invasore straniero (peraltro in contrasto con la stessa storia americana, se leggiamo quella contro i britannici come una guerra di popolo, ed europea).

Le morti civili (insieme alle perdite militari americane, che alimentarono opposizione alla guerra negli USA) in Vietnam ovviamente aumentarono, e parallelamente, proporzionalmente, aumentò il sostegno dei civili vietnamiti verso gli insorti. Come avviene ovunque, da sempre.

Insomma, ricorda ancora il libro, non solo le tattiche di “contro insurrezione” americane (ancora riprese nel 2025 da Israele) erano del tutto inadeguate, ma lo stesso diritto internazionale, al tempo, non aveva strumenti per regolare conflitti tra eserciti regolari e guerriglieri che combattevano per un popolo, formato da civili che però non potevano sempre essere considerati “passivi”. In ogni caso, gli americani, colpevoli della innumerevoli stragi di civili in Vietnam, si appellarono proprio al diritto internazionale per denunciare le tattiche adoperate dagli insorti nella loro guerra di popolo, tra cui l’utilizzo appunto di “scudi umani”. Anzi, a ben guardare gli americani, per i quali era inconcepibile che qualcuno si opponesse alla loro missione civilizzatrice, riducevano la stessa nozione di “guerra di popolo” all’uso di scudi umani, che ovviamente venivano descritti come scudi involontari, costretti dagli insorti ad essere tali.

Nulla di più fantasioso: quella vietnamita, ma anche quella palestinese, è anzitutto una lotta politica, di auto affermazione, di auto determinazione, ed in ultima analisi, esistenziale, per quel che riguarda i secondi. Dura, va avanti nelle peggiori condizioni, resiste, cade e si rialza, resuscita e rimane viva perché esistono una convinzione ed una coesione di natura politica a sostenerla, oltre che un incrollabile attaccamento alla terra. Avete presente, gli slogan “morire per la causa”, “morire per un’idea di giustizia”, “morire per le prossime generazioni”? Ecco, non sono sempre slogan, fuori dal nostro cortile.


E quindi, veniamo ad Hamas, che tende a mettere d’accordo tutti, dai sostenitori della causa palestinese ai “filo israeliani moderati”. E’ diventato un passepartout, o se volete un rifugio dialettico. Una premessa, con un rapido ritorno alle manifestazioni palestinesi “anti Hamas” a Gaza di qualche settimana fa. Coloro che hanno concentrato le loro attenzioni su di esse finiscono, senza forse volerlo, per sottendere alcune cose un po’ ipocrite, nonché un po’ pericolose:

che il problema dei palestinesi e dei gazawi nello specifico sia l’assedio, la mancanza di ‘pace’, nel senso di assenza di guerra;

che la situazione sia quella che è dal 7/10/23 e non da decenni prima, non per via dell’occupazione militare a Gaza dal 2005 (prima c’erano le colonie, dal 2006 si tratta di una prigione open air controllata dall’esterno, in cui nessuno ‘governa’, nella misura in cui il capo mafioso di una prigione – Hamas – non governa la prigione, che è governata invece dalle autorità carcerarie), e nemmeno per i bombardamenti incessanti da un anno e mezzo ma anzitutto per via del fatto che Hamas non libera gli ostaggi, cioè la narrazione del governo israeliano;

che, sebbene si ribadisca il diritto alla resistenza armata all’occupazione come sancito dal diritto internazionale, i ‘governanti’ palestinesi non avrebbero mai dovuto investire soldi in una rete di tunnel (che servono a far passare clandestinamente beni preclusi e certamente anche armi, oltre a fungere da infrastruttura militare di per sé, non avendo basi, aerei e hangar, bunker e/o difese aeree) ma costruire hotel, musei, start up e centri culturali in una prigione, da cui esce ed entra solo quel che dice il vicino/direttore del carcere, e che da esso – spegnendo prima la luce, tagliando l’acqua e azzerando lo spazio virtuale – può essere rasa al suolo potenzialmente ogni anno.

che Hamas trattenga gli ostaggi per sadismo, e non perché si tratta della sola carta negoziale in suo possesso, senza la quale un governo suprematista e stragista come quello israeliano non avrebbe più alcuna residua remora (non che ora mostri di avere a cuore gli ostaggi ma tant’è);

che sotto sotto andrebbe tutto sommato bene, arrivati a questo punto, se i palestinesi potessero aspirare ad un protettorato – sempre controllato, sigillato o alimentato esternamente – che si estenda diciamo su 3/4 dei 360kmq della Striscia, mentre la West bank viene annessa inesorabilmente ed unilateralmente;

che i membri di Hamas e del Jihad islamico (nati 40 anni dopo la fondazione di Israele), palestinesi nati e cresciuti nella rabbia, nella frustrazione, nella assenza di dignità e di prospettive, nel disagio psicologico permanente, nell’umiliazione e nel fango dei campi profughi gazawi, siano un qualcosa di “esterno” alla Palestina – o peggio ancora una ‘proxy’ dell’Iran: una delle cose più offensive, stupide e ignoranti che abbia mai sentito in questo ambito -, un gruppo di avventori malevoli da ‘cacciare’, nonché cerchiobottisticamente speculari agli “estremisti” israeliani, nati, protetti, garantiti e cresciuti in un paese sovrano, prevaricatore strutturale, impegnato nell’occupazione, protetto e tutelato dalla principale potenza mondiale. L’intensità dell’accento sul protagonismo regionale iraniano quando si parla di Palestina è inversamente proporzionale alla considerazione che si ha dell’autonomia palestinese e della dignità della propria lotta, per la quale è logico che cerchino dei sostenitori, finanziatori, sponsor, alleati, sodali. Senza perdere mai di vista la forma e i limiti delle proprie aspirazioni. E la povertà del racconto sulla Palestina a ben vedere risiede proprio in questo, nella tendenza ad esplorare quasi esclusivamente il piano geopolitico, il piano dei grandi e presunti disegni regionali, il piano delle potenze e delle superpotenze, degli “Assi”, dei fronti, dei blocchi, relegando la dimensione nazionalistica e auto deterministica palestinese a dettaglio, alla cipria che maschera un progetto accessorio del grande dominio islamista di Teheran sul mondo, e altre idiozie assortite.

che i movimenti armati palestinesi – oggi perlopiù islamisti, ieri perlopiù socialisti e laici, ma sempre e comunque definiti dall’Occidente con la lente esclusiva e totalizzante del “terrorismo”, cioè di una condotta/metodo militare – abbiano la possibilità concreta di esercitare deterrenza contro Israele attraverso mezzi militari convenzionali, e non ahimè con i metodi utilizzati da sempre ed ovunque dai movimenti anti coloniali, cioè con la mera guerriglia, o con azioni terroristiche, queste si, a ben vedere del tutto speculari a quelle condotte da Lehi, Irgun e Hagana contro palestinesi ma anche britannici tra il 1920 e il 1948, anno in cui raggiunsero l’obiettivo della creazione di Israele e confluirono in gran parte nel neonato Esercito israeliano;

che le stesse autorità israeliane, compresi ex premier ed ex capo del Mossad, non abbiano più volte ed in più epoche affermato che se fossero stati palestinesi avrebbero combattuto con ogni mezzo per raggiungere la propria autodeterminazione;

che la definizione di ‘movimento terrorista’, oltre a sostantivizzarsi a partire da ‘terroristico’, come ad alludere ad una condizione connaturata, non legata alla realtà concreta ma alla propria ontologia, non possa convivere con altre, altrettanto precise definizioni di Hamas stessa, cioè movimento di liberazione nazionale, milizia e partito.

Per i siriani durante lo scorso decennio di guerra civile, come per gli ucraini, valeva e vale l’idea che andare a combattere (e quindi ad uccidere) per la propria libertà fosse e sia meritorio, accanto però all’idea riflessa per cui rifiutarsi di combattere non dovesse e non debba MAI permettere a qualcuno di parlare di vigliaccheria o cose simili, costituire motivo di vergogna o di riprovazione, anzi.

Per i palestinesi a mio avviso dovrebbe valere lo stesso: capisco, ritengo onorevole e coraggioso chi, dopo aver perso tutto quel che ha, si espone e trova la forza di prendersela anche coi propri miliziani e con le loro strategie, con chi sceglie metodi non violenti anche dopo 80 anni, ma non trovo giusto – specie dal suolo di questa Europa non più credibile, che parla in modo commovente della resistenza ucraina ma allo stesso tempo riesce a convivere con quel mammut nella stanza che si chiama resistenza palestinese, non menzionandola mai, non sostenendola mai, anzi, sostenendo orgogliosamente l’occupazione – gerarchizzare, non trovo giusto suggerire da qui l’idea che opporsi ad Hamas e non ad Israele sia in fin dei conti la scelta corretta, giusta, la scelta da caldeggiare, in modo che i palestinesi possano finalmente mettersi in riga per la conta, ed essere sistemati entro un recinto.

È molto triste ma è la realtà: quando non ci sono due paesi che si fanno la guerra, ma c’è un paese occupante, super potenza militare e tecnologica, che persegue una precisa strategia coloniale, contro delle primitive formazioni armate che rappresentano ‘militarmente’ (e magari parzialmente) un popolo sotto occupazione, è verosimile che le seconde faranno prima o poi uso del terrorismo, cioè di azioni che generino terrore in un nemico più potente, che lo spiazzino o li spingano a più miti posture, nella convinzione (forse ingenua, perché abbiamo capito che Israele non ha nessuno scrupolo) che ciò possa spingerlo ad un minore massimalismo. D’altronde lo diceva provocatoriamente, tra gli altri, Ghassan Kanafani, che avrebbe odiato Hamas con tutte le sue forze intellettuali: “dateci gli aerei e non vedrete le bombe”. Dateci gli hangar e non vedrete i tunnel, dateci le difese aeree e l’aviazione e non vedrete gli attentati. E cosi via.

Come accennato in principio, è ipocrita affermare il diritto dei palestinesi – privi di uno stato e di un Esercito – a resistere con le armi contro un mostro, che fa la guerra quasi solo con l’aviazione e lancia bombe da 900kg, e poi allo stesso tempo pretendere o immaginare in modo realistico che i miliziani di Hamas si allontanino dalla densamente abitata Gaza e accettino di sistemarsi in campo aperto, agitando le braccia, così da poter essere meglio inquadrati dai mirini dei caccia israeliani, e non usare così gli “scudi umani” (che invece Israele utilizza sadicamente nella west bank, durante operazioni delle IDF); oppure che queste armi vadano usate in un mondo parallelo, immaginario, chissà forse – per poter essere guardati da noi con una lente umanizzante – provando a sparare coi kalashnikov proprio a quegli aerei di ultima generazione.

La strategia di un qualunque movimento armato anti coloniale, di qualunque matrice ideologica (domani vedrete qualcosa di molto peggiore rispetto ad Hamas), impegnato in una lotta contro un soggetto che gode di impunità pratica – il sostegno a qualunque costo e in qualunque condizione da parte della prima potenza mondiale – e di impunità giuridica – il disprezzo esplicito del diritto internazionale e della CPI da parte di Israele e degli stessi Usa, anche a prescindere da Trump, cioè dal presidente che nemmeno riconosce l’esistenza dei palestinesi, let alone i loro diritti -, non può che essere una strategia a perdere, una strategia tragica. Ma se deponi le armi senza lo straccio di uno Stato, con la west bank inghiottita da Israele e Gaza ridotta ad un cumulo di macerie, vieni cancellato dalla mappa geografica e mentale del mondo, e perdi i residui della tua già pericolante identità.

La strategia di questi movimenti (non in quanto tali dal punto di vista ideologico ma soprattutto in quanto, al momento, maggioritari, figli dell’epoca in cui sono nati ed evoluti) è a perdere ma allo stesso tempo, in queste condizioni di mastodontica solitudine, è anche l’unica che tiene in vita “l’idea” di una Palestina, l’unica che, forse (anzi di sicuro) utopisticamente, a fronte delle distopia configurata da Israele, permette a molti palestinesi disperati e senza prospettive di credere che prima o poi, magari gradualmente, magari no, gli israeliani scambieranno il desiderio di sicurezza permanente e tranquillità con il riconoscimento dei palestinesi (attualmente non riconosciuti come tali) e della Palestina stessa.

In caso contrario, in molti – ma per me non potranno mai essere definiti più degni di chi la pensa e agisce (o non agisce) in modo opposto – potranno dire di aver lottato per la propria autodeterminazione, non confondendo mai la sconfitta con la resa, non volendo mai scambiare una giornata di sole con la propria casa, non volendo mai barattare il suono della brezza con una rinuncia alla propria terra, e tramandando questa lotta ai propri figli, da ormai 5 generazioni.


Un altro punto importante è che salvo rare eccezioni, quel che accade da decenni in Palestina viene raccontato in Italia, nel migliore dei casi, come di una questione di “pace, convivenza e sicurezza”. Nel migliore dei casi, la narrativa a beneficio dei profani è: due popoli con eguali ragioni che, detestandosi, si scontrano per un territorio in cui dovrebbero e potrebbero convivere, e con gli estremisti (sostanzialmente da un lato solo della barricata) che di tanto in tanto sabotano questa idea di pace e convivenza.

La pace come punto d’arrivo. Cioè, la rinuncia alla liberazione dall’occupazione e all’autodeterminazione palestinese, percepite, sempre nel migliore dei casi, come delle velleità. Quando invece sono i punti centrali, gli unici che possono far immaginare una conseguente pace o convivenza. Finché non si capirà questo punto, verranno pronunciate frasi idiote ed incoerenti.

Potremmo limitarci a dire, se volessimo fare una cronaca asettica del fatto in sé, che lo spettacolo di Hamas con le bare dei 4 ostaggi israeliani esposte al pubblico solo qualche mese fa è una roba orribile, molto triste, e soprattutto molto dolorosa per chi è coinvolto personalmente nelle vicende iniziate il 7 ottobre.

Altri potrebbero rilevare che esporre le bare degli ostaggi al pubblico non è tanto peggio dei soldati di un esercito regolare di un paese (occupante e) sovrano, che girano centinaia di video su Tiktok di razzie e violenze commesse sui palestinesi, sulle loro case, sui loro residui e abbandonati averi. Non è tanto peggio di far camminare nudi, legati e bendati i prigionieri palestinesi in mezzo alla strada, o legarli ai blindati. Non è tanto peggio che annunciare al mondo una pulizia etnica ed un progetto di deportazione con la scusa di dover sconfiggere “animali umani” (Gallant).

Non serve. Il punto è che manca la premessa in grado di sorreggere o inquadrare meglio lo sdegno che scaturisce da immagini sadiche. La premessa è che Hamas come detto è oggi il principale rappresentante della legittima resistenza armata palestinese. Lo è diventato, e sappiamo anche come. E quindi è Hamas, e non il partito dei fiori eduli, a intestarsi non solo le operazioni come quella del 7 ottobre ma anche gli scambi di prigionieri che da essa derivano, e che dopo un anno e mezzo di assedio vengono percepiti da molti come una vittoria, magari di Pirro, ma una forma di vittoria contro l’occupante, con l’imposizione di alcune condizioni nonostante lo stato di totale devastazione. Contro l’occupante, ripeto, non contro uno stato speculare a quello palestinese, abitato però da gente che ai palestinesi sta antipatica.

Bisogna capire insomma che non vedere le premesse significa non vedere che il rapporto non è paritario. Tra società, tra “Stati”, tra “eserciti”, tra sostegni internazionali. E se non è paritario, e se nessuno racconta mai quel che accade nemmeno come un conflitto (che non è, perché si tratta di una occupazione e di una conseguente lotta di autodeterminazione), bensì come la complicata guerra di Israele – che è “come noi”, che è Occidente, che è la parte giusta da cui stare – contro gli estremisti, che precludono una vita tranquilla ai palestinesi, beh è chiaro come lo spettacolo di propaganda di Hamas non solo alimenti la nostra amnesia su quell’80% degli israeliani a favore della deportazione dei gazawi (sondaggio del Jewish People Policy Institute), sugli spettacoli osceni messi in piedi dalle Ddf o da cittadini israeliani che difendono gli stupri ai danni dei palestinesi, ma risulti anche fine a se stesso.

E’ invece il sintomo, la dimostrazione del fatto che si viaggia su frequenze diverse: qui si guarda a quello spettacolo come allo spettacolo di un gruppo terroristico sadico, che non vuole far vivere i palestinesi in pace. Che ha questo, come obiettivo: la guerra perpetua per il gusto di farla, anzi per puro antisemitismo. Anche se in quel caso avrebbe avuto più senso uccidere tutti gli israeliani possibili, anziché rapirne centinaia ad uso scambio.

Lì, a Gaza, per tanti, uno spettacolo del genere è anche un moto d’orgoglio: il moto d’orgoglio di un movimento di liberazione nazionale sotto assedio da un anno e mezzo, contro una macchina bellica senza pari. Un movimento terroristico? Terroristico è e deve rimanere un aggettivo, deve continuare a caratterizzare delle azioni, nn può essere un sostantivo. Il terrorismo viene usato anche dalla stessa Israele, e non è opinabile questo. Anche volendo dimenticarsene, non è possibile continuare a confondere la spiegazione, la contestualizzazione di una condotta come la sua giustificazione.

Il terrorismo è una risposta rozza all’occupazione, e la fine dell’occupazione è il traguardo, non i “cessate il fuoco”. Insistere sui cessate il fuoco sposta abilmente il focus su aspetti secondari, struttura e alimenta la fuorviante idea per cui se il fuoco cessa, in Palestina si sta bene. Insomma, il contrario della realtà sacrosanta per cui no, il 7 ottobre non è nato dal nulla.

Nel terrorismo, nel prendere di mira i civili per raggiungere obiettivi politici, c’è in qualche modo anche l’utilizzo degli “scudi umani”, di cui abbiamo parlato all’inizio.
Davvero c’è qualcuno che crede che Hamas o chi per lei possa portare avanti una efficace resistenza armata, esercitare una qualche forma di deterrenza contro l’occupazione, cercando di lanciare dei razzi contro basi militari israeliane, iper difese da strumenti infinitamente più avanzati? C’è davvero qualcuno che crede che un miliziano palestinese qualunque, armato di ak47 e magari di qualche granata, possa fronteggiare “eticamente” una aviazione che dal cielo lo inquadra nel mirino o lo rileva con il termico, dei carri armati raggruppati nella piazza distrutta del suo quartiere, e dei battaglioni di soldati con armi di ultima generazione, non so, posizionandosi in un campo di grano, lontano da ogni abitazione civile, così da ergersi a pupazzetto dei videogames? Si tratterrebbe di un grosso imbecille, per evitare fraintendimenti. È persino offensivo dover spiegare una cosa così. Un miliziano gazawi fa guerriglia urbana, sa fare solo quella, ed è ovvio che debba nascondersi nel tessuto urbano, nei palazzi, negli edifici per organizzare qualche forma di attacco, o per difendere la propria posizione mentre una invasione di terra e dei bombardamenti aerei in grado di polverizzarlo sono in corso. E’ altresì ovvio che dei miliziani organizzino una rete di tunnel, non avendo appunto basi militari.

Facciamo un po’ di ordine. I palestinesi combattono per l’autodeterminazione e per la fine dell’occupazione, prima e dopo Hamas. Non hanno un esercito, non hanno diritti, non hanno sovranità, non hanno nulla, e vengono vessati da chi avrebbe strumenti per fare la guerra alla Cina.

Se accettiamo questa premessa, capiamo che i palestinesi non hanno ormai nulla da perdere, e quando non hai nulla da perdere la tua soglia di sopportazione si abbassa, che ci sia Ghandi o Sinwar a organizzare la faccenda. Quando non hai nulla da perdere ma dall’altra parte c’è un cyborg, tu ricorri a qualunque strumento sia per provocare nel nemico-cyborg dei danni, sia – soprattutto in questi tempi – per guerreggiare sul piano della propaganda e della comunicazione.

Avete notato cosa hanno detto le autorità israeliane prima dell’ultimo scambio di ostaggi? No, perché c’erano state delle minacce davvero da bulli di quartiere ma nessuno, e ripeto nessuno ci ha fatto caso.

Dopo un anno di genocidio, dopo un anno di Gaza ridotta in macerie, dopo 100 mila morti o giù di lì, e mentre un imbecille alla guida del più potente paese al mondo annunciava l’imminente ed eccitante compravendita di Gaza per farne un resort, le autorità israeliane avevano pubblicamente dissuaso, diciamo così, i palestinesi dal “festeggiare pubblicamente il ritorno dei prigionieri”, pena la ripresa dei bombardamenti.

Avete capito? Quanto è paurosa, distopica una minaccia del genere? Quanto è indecorosa, quanto è primitiva? Se festeggi il ritorno dei prigionieri ti bombardo, perché non voglio che il mondo abbia solo la vaga idea che tu sia soddisfatto o sollevato da quel piccolo, irrilevante “successo”. Cosa è questa cosa, se non la definzione di bullismo, della gravemente malata auto percezione israeliana, dell’idea che tu sei inferiore, e quello che hai io te lo sto concedendo, ma stai attento perché se sorridi io ti tolgo il sorriso? Una violenza isterica, immatura, che lambisce la psicopatia, la perversione. Non tanto dissimile da un’altra operazione passata in sordina – forse perché temporalmente troppo vicina all’operazione TERRORISTICA dei cerca persone e all’assassinio di Nasrallah -, quella che nel sud di Beirut ha visto Israele bombardare delle banche, con l’esplicita e incredibile motivazione di dover bombardare dei depositi di CONTANTI di Hezbollah.

Avete mai sentito nella vostra vita, includendo romanzi e fumetti letti, un bombardamento di un deposito di contanti, peraltro all’interno di un’area urbana densamente abitata? In quel caso chi è lo scudo umano? Il lingotto? Le banconote da 100 dollari hanno la facoltà di nascondersi nelle cassette di sicurezza e da lì lanciare sanguinosi attacchi contro lo Stato ebraico, che quindi ha la necessità di dissuaderle? Nessuno ha detto A. Ahimè pochi anche in Libano. Ma è una schifezza incommensurabile, che apre la gabbia delle reazioni possibili nel medio e lungo periodo. E dagli anche torto. Hai di fronte il diavolo, Che compie raid su dei pezzi di carta negli edifici civili.

Quando mai si è visto un paese minacciare bombardamenti in un luogo NON per scongiurare una “minaccia”, NON per colpire obiettivi (e le loro “vittime collaterali”), NON per sventare operazioni, NON per colpire depositi di munizioni, e nemmeno per uccidere questo o quel leader, ma semplicemente, diabolicamente, per IMPEDIRE alle persone ivi residenti di mostrarsi gaudenti per un certo risultato politico ottenuto? Come si chiama quando bombardi qualcuno in ciabatte che agita un banner con scritto “a morte Israele, evviva i nostri prigionieri che tornano a casa, abbiamo vinto”? Terrorismo? Ci devo pensare.

Queste minacce, sconcertanti anche se fossero all’interno di un film di Clint Eastwood, figuriamoci nella realtà, sono state ben recepite dai sopravvissuti leader miliari di Hamas, quelli che si sono occupati di questi scambi. Miliziani che fanno uso di terrorismo, e che prima di esser miliziani che fanno uso di terrorismo (così siamo apposto con i “premesso che”) sono profughi nati e cresciuti nei campi profughi, e prima di esser profughi sono palestinesi sfollati o figli di sfollati da tutta la Palestina.

Cosa fai, quando lotti per la tua autodeterminazione con tutti gli strumenti che hai a disposizione, quando vieni da un anno e mezzo di genocidio, quando vedi i tuoi fratelli nella west bank (che non puoi e non potevi vedere nemmeno prima del 7 ottobre, come se vivessero in Nuova Zelanda) soccombere di fronte alla brutalità dei pogrom settimanali, dell’apartheid e dell’espansione coloniale illegale, quando senti dire agli autori del genocidio che forse è il caso che te ne vai da Gaza per sempre, che la liberi dalla tua presenza, quando hai un orgoglio ed una dignità in quanto palestinese, in quanto palestinese – socialista, comunista, liberale, islamista, IRRILEVANTE – lasciato solo dal mondo intero, a partire da quello arabo, e quando Israele minaccia di ucciderti se organizzi dei festeggiamenti che in nessun modo possono minare la sua sicurezza?

Organizzi dei festeggiamenti. Anzi, organizzi uno spettacolo di propaganda anche sadica, per dire “se vuoi tentare di estinguere la mia lotta di autodeterminazione puoi uccidermi come nei videogames, puoi radere al suolo tutto ciò che mi circonda ma non puoi pensare di avere il management delle mie emozioni, la gestione dei miei comportamenti privati, non mi toglierai il diritto di festeggiare una conquista, di festeggiare il fatto che sono ancora qui dopo un anno e mezzo, non mi toglierai il diritto di motivare e motivarmi, persino di farmi beffe di te, anche se tu hai un centesimo dei miei morti”. Ed è quello che è accaduto.

Gli organizzatori della parata con le bare sono usciti vivi da un anno e mezzo di inferno accompagnato da annunci e invocazioni chiarissime (di ministri, non di imam presi qua e là) alla pulizia etnica, di gatto col topo, di apocalisse, di dipartita di decine di leader militari: non è quindi sorprendente che vengano visti come degli eroi, degli eroi da celebrare, o di cui celebrare le gesta, a prescindere dal fatto che non autorizzerebbero il gay pride o i cocktail bar a Gaza, o che non abbiano proprio una idea limpida di democrazia.

E’ triste quel che ha fatto Hamas con le bare ma mi rattrista per motivo precisi: perché mi metto nei panni dei parenti degli ostaggi morti (anche se probabilmente loro non fanno lo stesso coi palestinesi, a giudicare dai sondaggi citati) e mi sento male; e perché in fondo è la dimostrazione che i palestinesi sono più lontani di ieri dalla autodeterminazione e dalla liberazione nazionale. Che devono appunto ricorrere alla guerra psicologica, in assenza di risultati concreti, quasi impossibili da raggiungere quando si combatte da soli, con mezzi rudimentali, contro un dragone militare.

E mi rattrista altresì, o forse soprattutto, perché le reazioni alla parata di Hamas mi ricordano come abbiamo ridotto e com’è sbilenco il baricentro della questione, un baricentro da cui è stato praticamente estratto, rimosso, oscurato il problema principale, il padre di tutto il resto dei problemi. L’occupazione. Contro cui non è obbligatorio, inevitabile, ma è SEMPRE meritorio combattere con ogni mezzo. Anche quelli della propaganda. Sopratutto quelli della propaganda. Perché dopo 80 anni e varie ere politiche (sono lontane quelle in cui avevano un sostegno maggiore di quello tenue offerto oggi o ieri dall’Iran), non riuscirete a convincere i palestinesi che non ne vale la pena, che non è conveniente, che debbano rinunciare alla propria liberazione in cambio dello straccio di qualche giornata di sole.


In conclusione, così come è evidente che se non fosse Israele o uno Stato occidentale qualunque lo Stato che si sta rendendo protagonista di un genocidio, noi oggi ci staremmo attrezzando per bombardarlo, per invaderlo, per mettere in campo una forza militare che il diritto internazionale imporrebbe di mettere in campo per fermare un genocidio, e così come è evidente che non siamo in grado nel concreto di riconoscere il diritto alla resistenza armata palestinese come l’abbiamo di fatto riconosciuto e incorporato nelle nostre Costituzioni, è altrettanto evidente che nel giudizio nei confronti di Hamas – a parte gli agenti inquinanti, l’intorbidamento dell’informazione su quanto accaduto il 7 ottobre 2023 – pesi in particolare la loro ideologia, il loro orientamento politico religioso. Hamas in alcune esteriorità, così come in alcune azioni, ricorda a troppi le gesta dei tanti gruppi jihadisti attivi nella regione e altrove. Risveglia altresì riflessi condizionati dall’islamofobia.

Non serve star qui a ricordarne l’ascesa nel corso dei decenni, e di come essa sia stata favorita concretamente dallo stesso Netanyahu, che voleva indebolire l’Olp. Quel che rileva è l’oggi, cioè un’epoca in cui, piaccia o meno, Hamas rappresenta il principale soggetto armato della resistenza palestinese. Un soggetto che, come abbiamo visto il 7 ottobre, anche per ragioni geo-demografiche, è fortemente radicato nel proprio tessuto sociale, tanto da aver visto migliaia di civili palestinesi entrare in Israele appena dopo l’inizio dell’attacco.

Non so davvero come il pubblico si immagini una milizia gradevole, una milizia virtuosa, una milizia che assolva all’imperativo di resistere con le armi all’oppressione sistemica ma allo stesso tempo che risulti simpatica, non troppo violenta nell’organizzazione di azioni o risposte violente, presentabile. Io non ho un’idea di come debba essere strutturata una milizia di questo tipo, e non ho in mente esempi di milizie che si opponessero all’occupazione senza le bombe, che invocassero la “pace” senza avere lo straccio di una giustizia in mano, o che “dialogassero” con un nemico impegnato a sterminarli, come “un collo che parla con una spada”, per dirla sempre con Khanafani.

Teniamolo a mente: il fatto che Gaza sia nei fatti (già spiegato poco sopra perché e per come) una prigione a cielo aperto, dove tecnicamente e giuridicamente Hamas NON governa un bel nulla ma si limita ad organizzare le proprie attività militari, non dovrebbe comportare solo la presa d’atto di una tale condizione: dovrebbe aiutarci a capire da un lato le condizioni psicologiche di intere generazioni di palestinesi, che – capirete – hanno ottime possibilità di diventare anche solo individualmente delle persone violente e prive di prospettive, e dall’altro che a maggior ragione in un contesto del genere, chi diventa un miliziano non è certo una persona che ha delle alternative soddisfacenti. Chi diventa un miliziano, chi va a fare la guerra, a Gaza come in Ucraina e come ovunque, può essere sovente qualcuno che proviene o si è ritrovato nel corso della propria esistenza all’interno di un segmento sociale particolarmente radicalizzato, particolarmente efferato, particolarmente propenso a uccidere e farsi uccidere. Non mi fate dire la cosa sul pranzo di gala.


Tutti si trovano benissimo con la formula “sto coi palestinesi ma contro i gruppi armati e il terrorismo”, nessuno vuole trovarsi nella sconveniente posizione di prender atto che certi movimenti portano avanti una legittima lotta armata, e che le modalità con cui poi esercitano il loro potere, o quanti siano democratici al loro interno, è argomento molto laterale e secondario.

Hamas ci assolve da tutti i nostri mali, ci lava la coscienza, ci fa agitare il ditino, e forse ci permette, ogni tanto, di fare delle pause, di stabilire delle “tregue” dialettiche con la parte dialogante dei difensori di Israele. E non serviva il 7 ottobre, perché Hamas ha inaugurato periodi di terrore (attentati alle fermate del bus o talvolta locali) anche in altre epoche, anche negli anni 90. Sono questi gli strumenti militari che hanno, e che erediteranno i loro eredi, diretti o indiretti, contro un Esercito israeliano che spende più della Cina ed è ipertecnologico.

Non ci sono alternative in termini di lotta armata, bisogna chiarirlo, anche perché oggi, a differenza degli anni di Arafat, non c’è nemmeno una malandata Unione Sovietica a fornire sostegno. C’era o ci sarebbe l’Iran, che però sul piano statuale sconta lo stesso pregiudizio, o meglio lo stesso ragionamento che si fa con Hamas (a cui si aggiunge la crescente ostilità nei suoi confronti nel mondo arabofono): eppure l’Iran ha in buona sostanza agito in modo analogo all’Urss, finanziando la resistenza palestinese nei soggetti considerati a lei più affini, per mantenere un’idea anche solo accennata di deterrenza nei confronti dell’imperialismo coloniale israeliano, e ovviamente per tutelare i suoi interessi di importante attore regionale, in una regione in cui se non ti muovi, qualcuno si muoverà prima di te. O su di te.

A differenza di quanto scritto sui volantini americani in Vietnam, quelli israeliani sui cieli di Gaza sono un po’ meno circostanziati, e non invitano i miliziani a combattere “nelle risaie, nei campi, ecc” (che a Gaza non ci sono), bensì “invitano” soltanto i residenti a lasciare i palazzi (o meglio, la loro intera esistenza, in 5 minuti al massimo, provate voi) che stanno per distruggere: chissà, forse esiste un margine misterioso di pudore nel guardarsi bene dall’assurdo di invitare i miliziani in campo aperto, per essere individuati meglio e uccisi come formiche; oppure esiste anche un margine di cautela, visto che sul campo, al di là degli slogan di Tsahal, dopo 500 giorni di genocidio, di eliminazione di una serie di leader palestinesi (anche e soprattutto POLITICI), la resistenza palestinese continua a mostrarsi militarmente attiva e resiliente, infliggendo perdite che l’Esercito israeliano non rivela nel loro esatto ammontare. In Libano, sul terreno, le cose sono andate peggio, fino al cessate il fuoco (poi violato quasi giornalmente da Israele, anche mentre scrivo): nonostante una sofisticazione militare infinitamente maggiore rispetto al 2006, e nonostante il dispiegamento di quasi il doppio degli effettivi, le truppe israeliane coadiuvate dall’aviazione sono penetrate per non più di 4 km all’interno del Libano, sostenendo perdite che si stimano fino a 5 volte tanto. Nel 2006, l’Esercito israeliano era penetrato per 25 km.

I miliziani islamisti di varia estrazione e afferenza, sul terreno combattono molto volentieri. E’ l’unica cosa che hanno imparato a fare, forse, e come ha ricordato lo scorso 15 maggio Walid Jumblatt nel corso di una intervista concessa a Middle east eye, sono mediamente dei bravi combattenti (e lui può dirlo, avendo combattuto anche contro Hezbollah, ma essendo un leader filo palestinese ed antisionista). Non lo fanno per il gusto di farlo ma perché credono fortemente in una causa e nella paternità sulla terra. Una causa che nel caso dei libanesi non li riguarda in modo diretto ma si connette facilmente ai diffusi e reali timori degli abitanti del sud rispetto ad una espansione israeliana (i cui confini non sono dichiarati), nonché alla ovvia e antica questione dei rifugiati palestinesi in Libano (a sua volta connessa al loro status giuridico in Libano).

Dalle nostre è forse giunto il momento di fare delle operazioni di metodo. E’ la causa ad essere importante, molto più di chi la difende attivamente, molto più dell’orientamento politico di chi la difende con le armi. Le premesse su Hamas, le condanne preventive, le prese di distanza, finiscono per depotenziare la causa stessa: perché è in quell’esatto momento, nel momento della presa di distanza, che da un lato spostiamo l’attenzione dal problema reale ad un problema che semmai è accessorio e consequenziale; e dall’altro, che finiamo per mettere in pausa, in standby la questione palestinese, a lasciarla “in attesa” che si presenti qualcuno a loro nome che ci sia gradito, che abbia il nostro taglio di capelli. Che poi, ovviamente, non arriva mai, quello col nostro taglio, perché il nostro ombelico è sempre meno spesso il baricentro del Globo.

Nessuno dall’esterno può stabilire al posto dei palestinesi e dei palestinesi gazawi chi debba costituire il principale soggetto politico-militare palestinese. Nessuno, e tantomeno l’occupante. Hamas o chi per lei, può sparire o meglio confluire in un governo unitario e sovrano palestinese, quando ci sarà uno Stato palestinese sovrano, continuo e unitario. Questo sul piano politico. Sul piano militare, le sue brigate Izzedine Al Qassam potranno a loro volta, realisticamente, confluire in un Esercito unito della Palestina (si spera misto, in una Palestina libera, abitata liberamente ed equamente da ebrei musulmani e cristiani palestinesi), quando questo Esercito potrà nascere, accanto allo Stato.

Fino a quel momento, è sano, salutare, benefico smettere di usare anche solo inconsciamente dei doppi o tripli registri. Smettere di sostenere un giorno che i palestinesi sono oppressi, vessati, separati, rinchiusi, non sovrani su nulla, in condizioni di dover resistere ad una occupazione, e l’altro che “i miliziani di Hamas avrebbero potuto spendere i loro fondi in fiori e biblioteche, anziché in armi e tunnel”, come se esistesse una realtà parallela in cui i palestinesi sarebbero invece molto ma molto felici di vivere da prigionieri “nella Gaza che gli abbiamo dato” (virgolettato attribuibile al 90% degli israeliani di ogni orientamento della Knesset, per avere un saggio della postura coloniale), se solo non ci fossero i perversi disegni militari dei miliziani di Hamas, che turbano l’idillio esistito fino al 7/10/23.

Hamas avrebbe potuto non esserci. E non solo: avrebbe potuto esserci anche in altre forme, magari migliori, magari peggiori. Le personalità politiche più ragionevoli di Hamas sono state nella gran parte dei casi assassinate da Israele, spesso in modo gratuito (non configurando alcuna minaccia concreta) e vigliacco, nel sonno e durante una visita di Stato, come nel caso di Ismail Haniyeh a Teheran. O come nel caso di Sheikh Yassin, ucciso su una sedia a rotelle, e di tanti altri. Le personalità militari più solide sono sempre state sostituite da personalità egualmente solide (Sinwar aveva imparato l’ebraico, per dire), ma con ancor meno scrupoli. I turning point per Hamas sono stati numerosi, e spesso, troppo spesso Israele è sembrata impegnata a fargli imboccare la strada più radicale, quella che poi avrebbe giustificato le peggiori nefandezze.

Bisogna smettere di prestare il fianco a questo giochino: non avere timore di dire che l’orientamento politico maggioritario e odierno della resistenza palestinese non ci deve riguardare, che i metodi non convenzionali che utilizzano Hamas e Jihad segnalano banalmente l’assenza di un Esercito e lo squilibrio di forze tra un Esercito e una popolazione impegnata in una “guerra di popolo”, che i palestinesi fanno da “scudi umani” sia perché sanno che se evacuano non possono tornare, sia perché ritengono che la resistenza armata non abbia speranza di sopravvivere senza l’ambiente circostante, e che per dirla come Mao Zedong, la resistenza armata sono i pesci, mentre la popolazione è l’acqua.

Bisogna smettere di accettare anche solo in principio l’idea che, vista la sua impareggiabile forza e le sue tutele esterne, la questione palestinese si risolva o faccia passi avanti attraverso delle “concessioni israeliane” – “terra per pace” e tutte quelle offensive stronzate coloniali senza pudore, specie quando vengono da sinistra -, attraverso una buona condotta palestinese che un eventuale buon governo israeliano potrebbe premiare.

O, peggio che mai, attraverso il “riconoscimento dell’esistenza e del diritto a difendersi di Israele”, cioè una cosa mai esistita nella storia del diritto, e ancor meno ricevibile se ad esser chiamati a riconoscere questa esistenza devono essere proprio i palestinesi, cioè coloro che si vedono negata, preclusa proprio da Israele la propria esistenza e sovranità, come popolo e come individui. NESSUNO Stato, nessun paese ha “diritto di esistere”. Proprio concettualmente. Le persone, come individui o come gruppi etnici, confessionali, ecc, hanno “diritto ad esistere” e a veder tutelata la loro vita e dignità, possibilmente.

Gli Stati, cioè i meccanismi e le strutture istituzionali che organizzano e regolano in N modi la vita comune di N persone in un dato territorio, non hanno questa facoltà, questa caratteristica. Esistono, possono esistere, e anche cambiare, cambiare confini, capitali, smettere di esistere, trasformarsi.

Credit: Reem Saab

Bisogna capire che “se muore la Palestina, rimarremo tutti orfani”, come anni fa ho letto – inciso sulla polvere con le dita – sul portellone di un camion che aveva attraversato la valle della Beqaa. E’ urgente rafforzare questa convinzione con un genocidio in corso, a fronte di un immobilismo globale ormai istituzionalizzato, incredibile nella sua desolante plasticità, concretezza, a fronte della disinvoltura con cui leader politici mondiali parlano di Gaza come se fosse un terreno acquisito per costruirci un parco giochi, a fronte della serenità con cui si parla di “paesi che vogliono accogliere i palestinesi”, a fronte della insolenza con cui Netanyahu rivendica la “totale distruzione di Gaza”, come se si parlasse di un alveare, e non di un luogo in cui 2,3 milioni di persone avevano – nonostante tutto, nonostante Israele – costruito le loro esistenze.

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