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Il rapporto Oxfam sulle diseguaglianze ci parla dell’infamia del capitalismo globale

Nel 2011 il movimento Occupy si diffondeva a macchia d’olio nel pianeta a partire da una felice intuizione sloganistica: siamo il 99% che si contrappone all’1% di potenti che tengono in mano le fila dell’economia e della politica mondiale. Per quanto si trattasse appunto di uno slogan – e che in quanto tale fosse incapace di esprimere i sotto-livelli di dipendenza sociale che fanno sì che quell’1% in realtà abbia l’appoggio materiale e ideologico di una buona parte del 99% – oggi, a più di quattro anni di distanza, un rapporto Oxfam sembra certificare anche nei dati quella che era una trovata comunicativa d’impatto: secondo quanto raccolto dalla ong all’interno della ricerca “An economy for the 1%’s”, il primo centile dei paperoni mondiali possiede una ricchezza maggiore di quella di tutto il resto del pianeta messo insieme.

Non solo: sessantadue  esseri umani  (62!) posseggono ricchezze tali da pareggiare quelle dei 3,5 miliardi di persone più povere del pianeta. Un dato in continuo peggioramento dato che nel 2010 erano solo in 388. Anche nel nostro paese la tendenza è quella descritta a livello globale: l’1% degli italiani più ricchi possiede infatti il 23,4% della ricchezza netta, e oltre la metà della ricchezza creatasi negli ultimi 15 anni è stata appannaggio del 10% più ricco dei cittadini.

La ricerca offre una testimonianza della polarizzazione economica sempre più evidente all’interno del mondo globalizzato. La crisi del 2007-2008 si rivela così sempre più un grandissimo volano di redistribuzione della ricchezza nelle mani di sempre meno persone, con le ricadute politico-economiche che questo fenomeno comporta: da un lato la stagnazione dell’economia derivante dall’inutilità per i mega-ricchi di impegnarsi sul terreno della produzione reale di beni e servizi, a cui viene preferita la rendita; dall’altro l’emergere anche a livello politico di una governance sempre più arrogante e sfacciata nella difesa dei suoi privilegi, come dimostra la campagna elettorale di soggetti come Donald Trump.

La questione dell’economia parassitaria che ormai caratterizza il pianeta si legge anche in quella che è la dinamica dei paradisi fiscali: nel rapporto si stima che “ il valore del patrimonio finanziario mondiale depositato nei paradisi fiscali a livello globale ammonti a circa 7.600 miliardi di dollari, circa l’8% della ricchezza finanziaria individuale, per un mancato introito fiscale per i governi di circa 190 miliardi di dollari ogni anno.”

Una dinamica che aldilà delle dichiarazioni di facciata dell’Unione Europea degli ultimi tempi sulla necessità di mettere fine a questa condizioni non sembra assolutamente arrestarsi, anzi: perfino Presidenti un tempo ritenuti progressisti come Hollande hanno completamente abbandonato i progetti di tassazione progressiva della ricchezza arroccandosi anch’essi nella difesa degli interessi dei grandi privilegiati che in un quadro di democrazia sempre più formale e meno reale assicurano a questi pagliacci di rimanere sul loro trono.

Interessante come Oxfam inserisca nel rapporto cifre che includono anche i possessori di debito per esempio relativo alla formazione tra i “poveri”, sottolineando in questo modo la necessità di prestare attenzione alle possibili “bolle” che minacciano la tenuta dell’economia globale e che rischiano di aggravare ulteriormente la situazione.

Questa posizione è stata attaccata da chi sostiene la vulgata che l’assetto capitalistico stia tirando fuori dalla povertà milioni e milioni di persone: un dato reale (si pensi alla Cina) solo se però si chiudono gli occhi rispetto alle condizioni a cui questo avviene (basti pensare alle relazioni industriali nel sud-est asiatico) e soprattutto se non si tiene conto del carattere relativo del rapporto, che si concentra soprattutto sulla diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza.

Il trionfo del modello sociale neoliberista in territori una volta inesplorati e vergini contribuisce in modo importante agli esiti del rapporto: è soprattutto la divaricazione sociale in paesi come la Cina, l’India e il Brasile a produrre questa situazione, che offre allo stesso modo però però possibilità importanti di unificazione delle condizioni sociali a livello globale, e potenzialmente, aldilà delle ovvie peculiarità di ogni contesto a livello culturale e contingenziale, una possibile matrice comune per lotte transnazionali a venire.

Del resto lo stesso modello insurrezionale che caratterizzò i 2011 di Egitto e Tunisia era un modello che traeva linfa da condizioni sociali in un certo modo paragonabili: una composizione giovanile sempre più scolarizzata ma allo stesso esclusa dal mondo del reddito e della decisionalità politica; una massa in allargamento di dannati della terra ai margini dei centri di potere abitante le periferie spaziali e sociali dei paesi; una dirigenza sempre più arricchita, corrotta e tendente a blindare sempre più da un punto di vista repressivo e di controllo lo status quo che ne assicura i privilegi.

Se l’innovazione capitalistica nelle sue forme economiche e politiche ha fatto scuola a livello globale, speranza di tutti coloro che si trovano nella parte più sotto attacco del 99% è che anche una nuova ondata di rifiuto a questa omogeneizzazione al ribasso delle condizioni di vita possa costituirsi ed estendersi il più possibile…

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