Imperialismo e risorse naturali
Esiste una schiacciante asimmetria tra il livello di “sviluppo” e il possesso di risorse naturali tra i Paesi del mondo. Prendiamo il gruppo dei Paesi più avanzati, il G-7, che comprende Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Giappone e Canada.
di Prabhat Patnaik
Questo gruppo, pur rappresentando solo il 10 % della popolazione mondiale, nel 2020 possedeva oltre la metà della ricchezza netta globale e circa i due quinti del prodotto interno lordo mondiale (ho preso per comodità il punto medio di una varietà di stime che si collocano tra il 32 e il 46 %). La sua potenza economica è indubitabile; eppure, in termini di riserve di risorse naturali, è scarsamente fornito.
Consideriamo la risorsa naturale più importante del momento, il petrolio e il gas naturale. Le stime delle riserve mondiali di petrolio e gas variano notevolmente, così come le stime della loro distribuzione tra i Paesi. Tuttavia, alcuni punti sono così chiari che le variazioni nelle stime non influiscono sulla loro veridicità. Secondo l’Energy Information Administration (EIA) degli Stati Uniti, i Paesi del G-7 possiedono solo il 13% circa delle riserve petrolifere totali accertate nel mondo, soprattutto grazie al Canada (che ha quasi il 10% delle riserve mondiali). È vero che questa cifra esclude il petrolio di scisto, verso il quale si stanno orientando gli Stati Uniti negli ultimi tempi, perché non sono ancora note le riserve di petrolio di scisto della maggior parte dei Paesi; ma anche l’inclusione del petrolio di scisto non farebbe molta differenza, in quanto la maggior parte delle riserve mondiali di petrolio si trova al di fuori dei confini dei Paesi più avanzati.
Consideriamo ora le riserve di gas naturale. Anche in questo caso abbiamo variazioni significative nelle stime delle riserve totali e nella loro distribuzione tra i vari Paesi. Ma prendendo le stime previste per la fine del 2020 da EIA relative ai Paesi del G-7 e dividendole per il totale delle riserve mondiali di gas, stimate in 188 trilioni di metri cubi, scopriamo che la quota del G-7 delle riserve mondiali è di poco superiore all’8 %. Anche in questo caso il gas di scisto è escluso da queste stime, ma la conclusione è inequivocabile: la maggior parte delle riserve mondiali di gas si trova al di fuori dei Paesi più avanzati. Eppure, la dipendenza di questi Paesi dal petrolio e dal gas è schiacciante. È anche vero che negli ultimi tempi alcuni di loro stanno cercando di abbandonare questi combustibili, come la Francia che sta diventando sempre più dipendente dall’energia nucleare e che i timori conseguenti al cambiamento climatico hanno in qualche modo accelerato questa diversificazione. Ma resta il fatto che fino ad oggi la dipendenza dal petrolio e dal gas da parte dei Paesi avanzati è ancora molto consistente, mentre la disponibilità di queste risorse all’interno dei loro confini rimane estremamente limitata.
Non abbiamo finora parlato di beni provenienti dall’agricoltura, nel cui caso la capacità dei Paesi avanzati è limitata da considerazioni geografiche. L’industria tessile del cotone fu anticipatrice della rivoluzione industriale in Gran Bretagna e quindi del capitalismo industriale; ma la Gran Bretagna non può coltivare affatto cotone grezzo, che viene interamente importato. Allo stesso modo, la metropoli capitalista, che si trova principalmente nelle regioni temperate del mondo, non può coltivare un’intera gamma di colture, o non può coltivarle in quantità adeguate, o per tutto l’anno; invece, le regioni tropicali e subtropicali possono coltivare queste colture e fornirle alla metropoli. La metropoli rimane quindi fortemente dipendente dalle regioni tropicali e subtropicali per l’approvvigionamento costante, per tutto l’anno, di una vasta gamma di colture, dalle bevande alle fibre ai prodotti alimentari. È vero che negli ultimi anni i Paesi avanzati hanno iniziato a produrre un surplus di cereali; ma questo fatto non modifica la loro forte dipendenza dalle regioni tropicali e subtropicali. Infatti, le loro eccedenze di cereali sono state utilizzate per costringere i Paesi del Terzo Mondo, situati principalmente nelle regioni tropicali e subtropicali del globo, ad abbandonare la produzione di cereali e passare alla produzione di quelle colture che le metropoli desiderano.
Rimane indubbio il fatto che i Paesi più avanzati del mondo dipendano in modo determinante dal mondo “esterno”, per tutta una serie di beni primari, sia risorse minerarie che prodotti agricoli debbano ottenere una fornitura costante di queste merci a prezzi bassi. Sotto il colonialismo ottenevano una parte sostanziale di queste merci dall’”esterno” senza alcun pagamento, cioè gratis, come forma fisica del “drenaggio del surplus” dalle colonie e dalle semicolonie; ma il loro bisogno di tali rifornimenti rimane fondamentale, indipendentemente dal fatto che possiedano o meno delle colonie.
Un flusso regolare a prezzi bassi (o nulli) di un’intera gamma di beni essenziali dall’”esterno” verso la metropoli, che semplicemente non è in grado di produrli, è assicurato dall’imperialismo di cui la fase coloniale faceva parte . Installare dei regimi nei Paesi del Terzo Mondo, compresi quelli produttori di petrolio, che si adeguano alla linea della metropoli, è un modo in cui quest’ultima impone la sua volontà. Intrappolare i Paesi all’interno di un ordine mondiale neoliberista, in cui sono costretti a rinunciare a qualsiasi protezione delle loro economie nazionali e diventare dipendenti dal commercio, è una tattica più generale per raggiungere lo stesso scopo.
La rimozione dei regimi “disobbedienti” nel Terzo Mondo viene effettuata attraverso una varietà di mezzi, che vanno dai colpi di stato sponsorizzati dalla CIA all’imposizione di sanzioni contro i Paesi con tali regimi. È un segno distintivo della crescente resistenza contro l’imperialismo, il fatto che negli ultimi tempi sia aumentato il numero di paesi oggetto di sanzioni; e qui sta il tallone d’Achille dell’imperialismo.
Se le sanzioni vengono imposte solo contro uno o due Paesi, allora possono essere efficaci per l’imperialismo; ma se il numero di Paesi colpiti dalle sanzioni aumenta, ciò può rappresentare una seria minaccia per l’ordine mondiale imperialista. I paesi presi di mira possono unirsi per sfuggire agli effetti negativi che le sanzioni hanno su di loro individualmente; e anche altri Paesi, che non appartengono né alla metropoli né all’elenco dei Paesi colpiti da sanzioni, saranno incentivati ad aggirarle per evitare conseguenze dannose per le proprie economie. Allo stesso modo, se il Paese colpito dalle sanzioni è grande e di per sé abbastanza diversificato, le sanzioni contro di esso hanno buone possibilità di ritorcersi contro l’imperialismo, come è successo di recente con le sanzioni contro la Russia.
I media occidentali presentano la guerra in Ucraina come se fosse iniziata solo un anno fa e fosse il risultato del comportamento aggressivo di una grande potenza nei confronti di un vicino più piccolo. In realtà, il conflitto è iniziato quasi un decennio fa, quando Viktor Yanukovich, il presidente democraticamente eletto dell’Ucraina, fu rovesciato in un’operazione pianificata dai neocon e sostenuta dalla CIA. Alla base del conflitto in corso c’è quindi un conflitto più profondo tra l’imperialismo occidentale e la Russia, che possiede una vasta riserva di gas naturale, la più grande tra tutti i paesi, pari a un quinto del totale delle riserve mondiali; inoltre, la Russia possiede circa il 5 % delle riserve mondiali di petrolio.
Anche quei commentatori di affari internazionali che collocano la guerra in Ucraina all’interno di un conflitto tra l’imperialismo occidentale e la Russia, vedono questo conflitto esclusivamente come un tentativo di transizione dall’unipolarismo al multipolarismo; il desiderio occidentale di controllare le vaste risorse naturali russe non compare quasi mai in queste discussioni. Ma la potenza di questo desiderio non può essere sottovalutata. L’imperialismo era riuscito a controllare Boris Eltsin, che secondo quanto riferito era sempre circondato da decine di persone della CIA; con Putin invece, a prescindere da altri suoi difetti, questo dominio occidentale sugli affari russi è giunto al termine. Non sorprende che il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, abbia dichiarato l’altro giorno che l’obiettivo americano nella guerra in Ucraina è un cambio di regime in Russia, cioè l’installazione di un regime “obbediente” alla metropoli capitalista.
Ma l’imposizione simultanea di sanzioni a così tanti Paesi, compreso un grande Paese come la Russia, sta cominciando a far sentire il suo peso sull’imperialismo occidentale. Non sono solo le popolazioni nei Paesi presi di mira a soffrire dei loro effetti, ma anche i lavoratori nei Paesi che impongono le sanzioni. Le difficoltà in cui sono stati costretti, a causa dell’assenza di importazioni di gas naturale, hanno portato migliaia di lavoratori a manifestare, nelle strade di tutta l’Europa, contro la guerra e contro l’inflazione, la cui portata non ha eguali dagli anni ’70. E contrariamente a quanto ci si aspetta quando si impongono sanzioni, ossia un deprezzamento della valuta del Paese preso di mira e un’accelerazione dell’inflazione, il rublo è in realtà salito rispetto al dollaro, e i Paesi stessi che impongono le sanzioni sono devastati dall’inflazione. Non ci possono essere dubbi sul fatto che attualmente l’imperialismo stia attraversando tempi difficili.
Prabhat Patnaik
Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org
Fonte: Monthly Review 13.03.2023
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