In cosa si sta trasformando la globalizzazione
Intervento (di r.s.) all’assemblea “Guerra/migrazioni/crisi. Dai conflitti nel vicino oriente alle frontiere della Fortezza Europa”, domenica 19 giugno
Ci siamo visti a settembre, durante il meeting Sfidiamo il presente a Roma, dove abbiamo cercato di individuare e mettere a fuoco le coordinate della situazione rispetto al passaggio contraddittorio, a prima vista, in cui abbiamo una ripetizione amplificata delle politiche, e in generale del quadro neoliberista dentro la crisi e di un passaggio oltre agito dalle forze borghesi.
In quell’occasione avevamo analizzato la situazione economica. Qui cercheremo di dare qualche coordinata di tipo geopolitico. Rispetto alla situazione dello scorso autunno abbiamo delle conferme e qualche novità. Prima qualche breve premessa sull’analisi del quadro geopolitico: anche se lo decliniamo in geopolitica delle lotte, non è aggredibile nell’immediato, è un piano altissimo. Quindi può dare una percezione di un livello di realtà di cui si deve parlare ma non ha ricadute nell’agire politico possibile. In realtà quando parliamo di geopolitica dobbiamo guardarlo nell’ottica di capire come si stanno ricostituendo le forze borghesi. Uno degli elementi per questo tipo di riflessione era quello di approfondire il punto per cui la dinamica delle forze borghesi ha rotto quella dinamica lotte sviluppo capitalistico, e si in parte autonomizzata da queste dinamiche sociali. Il che ovviamente non è del tutto vero, il problema è come si ridanno queste dinamiche sociali. Allora che risposta stanno preparando le soggettività borghesi a questo tipo di crisi che è diventata stagnazione a medio periodo con smottamenti improvvisi e momenti di precipitazione. In termini più concreti: le forze borghesi si vanno a ricostituire non solo nel senso di come governare la crisi ma in che modo procedere alla distruzione creativa che diventa sempre più un passaggio ineludibile insieme all’accumulazione originaria permanente. In che forma si andrà a dare questa distruzione creativa come risposta specificatamente capitalistica alla crisi per una riconferma del dominio del comando sul valore globale. Quando parliamo di geopolitica questo interrogativo politico ci deve guidare, e da qui quali ricadute sulle dinamiche sociali.
Al momento le istanze di ricostituzione capitalistica si giocano un livello di scontro interimperialistico più che in risposta a mobilitazioni o a lotte sociali forti, che non è che non si sono date. La scaturigine del caos in medio oriente è stata la primavera araba. Evidentemente in occidente la dinamica è diventata più contorta.
I centri di potere capitalistici si stanno preparando ai passaggi ulteriori della crisi ad un livello alto, globale: noi assistiamo a livello di proletariato è una dislocazione di forme molto differenti di resistenza, o di avversione al lato cattivo della globalizzazione della crisi, su un terreno nazionale su un terreno tra il nazionalista ed il sovranista. Ciò è evidente per il quadro europeo: una ricomposizione europeista è sempre più difficile, assistiamo ad uno sfarinamento dell’unione europea, ai vari livelli, ed a un prepararsi dei soggetti borghesi ad una decomposizione del quadro europeo. Corrispondentemente le varie forme di resistenza (Francia, Brexit, Italia, Grecia, Spagna) sono risposte che dislocano su un terreno di resistenza nazionale, con un tentativo recupero di politiche pubbliche e statali declinate in vario modo. Se questo trend viene confermato è in astratto meno favorevole per una ricomposizione a livello europeo. Ma dobbiamo aggredire i terreni che si danno, non quello che vorremmo si dessero.
Ora ci dobbiamo confrontare su nodo politico e di analisi fondamentale: cos’è questo terreno nazionale sovranista su cui si dislocano queste istanze, trasversalmente alle classi e oltre la distinzione classica tra destra e sinistra. Il problema è per noi fare un’analisi politica accurata su quali dinamiche questo trend aprirà e che cos’è quel terreno su cui si sta ridislocando. Abbiamo provato, ad un livello meno generale, analizzando i fatti dei forconi, il grillismo, Podemos in Spagna e la Grecia.
Qui la questione si generalizza. A livello economico noi vediamo alcune conferme: la ripresa degli stati uniti è stata minima e ora si parla esplicitamente di primi segni recessivi per la stessa economia statunitense. Viene inoltre ammesso il fallimento delle politiche delle banche centrali che non sono state in grado di rilanciare la ripresa e hanno invece creato ulteriori bolle e messo ulteriormente in difficoltà i sistemi bancari, in particolare quello europeo, ma è sintomo di un trend più generale. Dentro questo vediamo il processo di indebolimento del quadro unitario europeo. Se questi segnali venissero confermati bisogna metterli in collegamento con ciò che sta succedendo sul piano geopolitico: il centro dell’analisi non può che puntarsi sugli USA. L’attuale campagna presidenziale statunitense è interessante per vari aspetti: se la presidenza Obama ha dovuto rispondere a come riequilibrare la sovrapposizione geopolitico-militare e nel mentre andare incontro alla crisi post Lehman. Obama l’ha saputo fare in maniera abbastanza efficace, coniugando continuità di fondo con discontinuità, vedi la politica in medio oriente. Se si va all’elezione della Clinton è un corso di guerra, di aggressivizzazione inevitabile degli USA, non solo verso la Russia (vedi vicenda ucraina) ma verso la Cina. Non è un caso che Putin faccia endorsement per Trump e i cinesi, più diplomatici, vedano male la Clinton (tutto ciò che ci sta attorno dal pentagono a determinate forze economiche). Questo è interessante perché mi riallaccio al livello economico, in cosa si sta trasformando la globalizzazione. Gli USA sanno benissimo che non possono applicare con la Cina la stessa politica che hanno con l’unione sovietica, ovvero del contenimento. Perché l’intreccio economico tra la Cina e l’economia mondiale, e i guadagni che gli stessi USA in termini di comando sul valore globale e di flussi hanno dallo sviluppo capi cinese, fanno sì che sia impossibile separasi e stringere. Quello a cui stanno pensando è di curvare i flussi globali e il dominio del dollari nella direzione di trattati economici bilaterali multilaterali con l’esplicito chiaro obiettivo di escludere la Cina, e in subordine la Russia. Il trattato del Pacifico (TTP) e con l’Europa (TTIP) non sono da leggere come dei trattati di ritorno a delle politiche protezionistiche ma piuttosto ad una curvatura della globalizzazione che tenga fuori, per quel che è possibile, la Cina. Tenerne fuori la Cina non nel senso di isolarne i flussi, che anzi devono essere sempre più captati dai flussi finanziari occidentali, ma fuori nel senso che la Cina dev’essere bloccata nel suo tentativo di estroflettersi in nuove vie della seta piuttosto che con l’apertura verso l’America latina. Episodi che indicano questa direzione. La crisi dei governi progressisti dell’America latina corrisponde al periodo di apertura della fascia Brasile, Argentina, Venezuela ai flussi economici e commerciali con la Cina. Gli USA vogliono perseguire questo tentativo di estroflessione. Il che si accompagna a delle politiche militari strategiche puntate sul mar cinese orientale e alleanze con Giappone, Vietnam, Filippine per incasinare la situazione anche da un punto di vista militare in funzione anticinese. Il trend è abbastanza chiaro ed è percepito come tale a livello di establiscement russo e cinese.
La seconda grande variabile con cui affrontare la prossima fase della crisi che andrà ad aprirsi nel prossimo decennio è ovviamente come reagirà la Cina. In Cina hanno capito che non è possibile andare avanti come nella globalizzazione di vecchio tipo (legame subordinato, ma comunque favorevole allo sviluppo capitalistico cinese, con gli USA) e stanno cercando con molta difficoltà di riconvertire il proprio sviluppo capitalistico. Questo ovviamente comporta degli scompensi e riassetti sociali e politici interni, portati avanti con l’etichetta della “lotta alla corruzione”. Il tema della corruzione diventa globale e al suo interno leggiamo diversi contenuti (anche alle nostre latitudini). La terza grande variabile è l’Europa. I segnali di uno scollamento della compagine europea sono piuttosto evidenti, paradossalmente proprio nel momento in cui gli USA e parzialmente la stessa Germania avrebbero interesse ad un’Europa unita. Gli USA perché il tentativo di parziale autonomizzazione dell’Europa a guida tedesca e di proiezione verso Russia e Cina è stata con successo bloccato (esempio della vicenda Ucraina, TTIP). È riuscito il tentativo di mettere in difficoltà il governo Merkel e questo indebolimento ha portato (germania fazione atlantisti vs aperture ad est) a livello economico alla difficoltà del tentativo tedesco di politiche di austerity per ridurre le importazioni dei paesi, evitare l’aumento del debito ed incentivare una ristrutturazione nel verso dell’esportazione. Formalmente questi tentativi sono riusciti il problema è che tutto questo è avvenuto all’interno di un quadro di rallentamento globale, rallentamento Brics e poi Cina. Quindi l’Unione Europea non può tutta diventare fatta di paesi che esportano e si indebitano di meno. Fondamentale la politica tedesca aveva un senso ed è passata, ma adesso non regge più. Questo si vede dalla non ripresa, dalla stagnazione fondamentale dei paesi al di là della Germania e dalle difficoltà della Francia. Non a caso la legge sul lavoro varata dal governo francese è legata strettamente con ciò che stanno chiedendo Berlino e Bruxelles. Nel caso in cui l’Europa non riesca a tenersi unita i tedeschi tireranno fuori il vecchio piano B di un’Europa e centri concentrici. Sostanzialmente si pone il problema: la Francia dove sarà, nel cerchio duro o in quello esterno? La capacità dei governi di varare le cosiddette riforme strutturali è il banco di prova della possibilità di accedere al nucleo duro. Questa è la faglia geopolitica dello scontro di classe in Francia, che ovviamente ha altre dimensioni.
Tutto questo lo vediamo dal crollo dei titoli azionari bancari a delle grosse difficoltà del sistema bancario europeo che però è solo la punta dell’iceberg. Questo probabilmente sarà un tema di discussione anche in Italia, come si inizia ad intravedere dalle vicende della banca Etruria, etc.
Quindi USA, Cina, Europa andiamo verso un’acutizzazione dei conflitti con momenti di precipitazione della crisi in termini più economici, bloccati dalle politiche delle banche centrali, e con la ricostituzione delle politiche e soggettività capitalistiche incanalate in questo trend di reciproca aggressivizzazione dove probabilmente si tornerà a parlare di contrapposizione tra occidente e tutto il resto, e quindi riaffrontare in forma nuova il tema dell’imperialismo occidentale.
Ora a noi cosa interessa delle ricadute di tutto questo, al di là delle analisi astratte? Per inerzia siamo abituati a pensare ai processi di soggettivazione, di ricomposizione antagonistici a partire non da soggetti dati, sarebbe una contraddizione, ma comunque da delle collocazioni più o meno scontate e tradizionali dei vari settori sociali di cui si prevedeva e incentivava la soggettivaizone. Il quadro sta cambiando, cioè forse dovremmo puntare le nostre attenzioni ai processi, ai processi di destrutturazione del sistema e risposte capitalistiche a questa destrutturazione, nei termini della distruzione creativa di cui parlavo prima. E all’interno di questi processi guardare agli scarti che si creeranno e che permetteranno a dei settori sociali di soggettivarsi, in maniera inedita, confusa, sporca, nuova e per dirla con una battuta: noi ci troveremo al di qua dei processi di ricomposizione e però completamente dentro processi di ridisclocazione dei soggetti (fine distinzione destra sinistra, trasversalità di alcune tematiche alle varie classi e la ridislocazione sul terreno sovranista e nazionale che può diventare facilmente nazionalista e di destra). Lì dentro, solo dopo, imparando a stare in questi percorsi spuri e contraddittori possiamo intravedere dei processi embrionali di soggettivazione. Però dovremo fare i conti sino in fondo con la destrutturazione di un mondo di categorie, iniziare a pensare in termini di processi e di scarti che all’interno di questi processi possono produrre soggettivazione piuttosto che cercare delle vie più brevi che si possono dimostrare di breve respiro o portarci all’autoreferenzialità.
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