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Intervista a Ilan Pappè: Israele e Palestina nell’epoca delle rivoluzioni arabe

Frank Barat: Di recentegli USA hanno messo il veto su una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dove si dichiarava che tutti gli insediamenti isrealiani sono illegali, costituiscono un ostacolo per la pace (…) e sono risultati dannosi per le conversazioni di pace. Curiosamente, tutti gli altri Paesi hanno votato a favore e gli USA hanno dovuto subire le critiche dei loro alleati europei. Si ha l’impressione che gli USA siano sempre più isolati quando si tratta di Israele. Qual è attualmente l’importanza strategica di Israele per gli USA? È cambiata dal 1967?

Ilan Pappé: Credo che l’importanza d’Israele per gli Stati Uniti continui ad essere la stessa di sempre. Dobbiamo aspettare e vedere se le rivoluzioni arabe la cambieranno, ma al momento in cui è stato messo questo veto credo che, anche se c’era un impatto fondamentale degli avvenimenti nel mondo arabo sul pensiero statunitense in merito a Israele, sia ancora troppo presto perché il loro effetto possa essere avvertito nella politica statunitense. Per cui la mia ipotesi è, e lo abbiamo visto nel corso di tutta la politica del governo di Barack Obama verso Israele, che le stesse pressioni sotto le quali si è modellata e formulata la politica statunitense riguardo a Israele durante l’amministrazione Bush siano ancora presenti nell’amministrazione Obama. Per cui nessuno deve sorprendersi se Obama ha messo il veto su questa risoluzione, e se ne presentassero un’altra metterebbe di nuovo il veto, anche se per me il fatto che gli Stati europei membri non metteranno il veto e non seguiranno gli stati Uniti su questo tema è un segno della tendenza generale, è una cosa palpabile. Lei lo chiama isolamento degli Stati Uniti; io direi che è l’inizio di un processo interno di ripensamento della politica statunitense che tarderà ancora parecchio tempo a maturare ma che è decisamente in corso.

Frank Barat:Haaretz e The Guardian hanno pubblicato che Angela Merkel ha avuto una durissima conversazione telefonica con Netanyahu sul processo di pace, e che gli ha detto: “Siete voi che ci avete deluso. Non avete fatto neanche un solo passo avanti verso la pace”. Venendo dalla Germania, il difensore europeo nº1 di Israele (assieme alla Polonia), si tratta di una cosa davvero straordinaria. È possibile che presto si veda un cambiamento nella posizione dell’Europa verso Israele? Cosa ancora più importante: l’Europa potrebbe giocare un ruolo più equilibrato degli USA sulla questione della Palestina?

Ilan Pappé: Dobbiamo essere cauti su questo punto. Questo è vero per quanto riguarda Angela Merkel e ancora di più Barack Obama. Quello che vogliono al posto del governo di Netanyahu, che è decisamente un tipo di governo con cui non gli piace trattare, è un governo sionista di centro, il governo di Kadima, il quale, glielo ricordo, secondo le rivelazioni di Al Jazeera, durante il mandato di Olmert aveva rifiutato di accettare perfino la più generosa e stupida offerta mai avanzata dalla dirigenza palestinese agli israeliani. Così quando Angela Merkel si arrabbia con Netanyahu quello che vuole è vedere Tzipi Livni primo ministro, cosa che non comporta alcun cambiamento nella politica israeliana e non attenuerà per nulla l’oppressione dei palestinesi. Questo è il punto, per cui non c’è molto da rallegrarsi del fatto che siano arrabbiati con Netanyahu. Il tempo dirà se questo può significare qualcosa di più profondo nella situazione antidemocratica che esiste in Europa per cui c’è un’opinione pubblica che è anti-israeliana e pro-palestinese ma questo non si riflette nelle azioni dell’élite politica. È possibile che [l’incidente] rifletta anche un desiderio da parte di politici come Angela Merkel di rappresentare in modo più fedele l’impulso e le posizioni fondamentali dell’opinione pubblica europea rispetto a Israele, ma credo che si debba aspettare per vedere se questa fase di trasformazione è veramente in atto sotto i nostri occhi.

Frank Barat: I recenti “Documenti palestinesi” hanno confermato che Israele e gli USA sono stati i due maggiori ostacoli nel conflitto tra Israele e Palestina. Tuttavia, invece che utilizzare i documenti per denunciare l’ostruzionismo di Israele, l’Autorità Palestinese ha attaccato Al Jazeera, il messaggero. Come spiega lei tutto questo, e per quanto tempo crede che l’Autorità Palestinese potrà giocare il ruolo di “collaboratore” prima che esploda un nuovo tipo di Intifada?

Ilan Pappé:È facilissimo capire perché l’Autorità Palestinese ha attaccato Al Jazeera. Questo è successo in un momento molto sgradevole in cui nel mondo arabo tutta la gente sta chiedendo più democrazia, trasparenza e una rappresentanza giusta, e le rivelazioni di Al Jazeera hanno mostrato che l’Autorità Palestinese era esattamente tutto il contrario. Quindi non mi sorprende che preferiscano attaccare Al Jazeera piuttosto che Israele. Per quanto riguarda la longevità dell’AP, questa in realtà si può solo mettere in relazione a  trasformazioni più generali. Non credo che avremo una trasformazione interna palestinese se prima non accadono diverse cose. Una di queste è che proseguano con successo trasformazioni come quelle che abbiamo visto nel mondo arabo. Un processo di democratizzazione in corso, più che democrazie come una specie di risultato finale, anche un continuo processo di democratizzazione nel mondo arabo è una cosa che incoraggerà la gente a liberarsi dell’Autorità Palestinese. In secondo luogo, il movimento della campagna della società civile contro Israele nella sfera dell’élite politica e del potere politico. In terzo luogo, ed è la cosa più importante, è necessario trovare una soluzione alla questione della rappresentanza palestinese. Perché è evidente che l’AP non è l’OLP, ma non è molto chiaro chi è l’OLP. Solo i palestinesi, in una realtà  frammentata fin quasi all’impossibile, devono trovare la maniera di ravvivare il processo rappresentativo. Se c’è rappresentanza palestinese, si verifica un cambiamento nel mondo arabo ed emerge un’élite politica in Occidente disposta a far qualcosa che il suo pubblico vuole che faccia, credo che l’AP scomparirà, e questa sarà la prima tappa sulla strada verso altre trasformazioni fondamentali sul terreno.

Frank Barat: Negli ultimi mesi sono avvenuti nel mondo arabo fatti straordinari. Le scene di piazza Tahrir al Cairo, per esempio, rimarranno nella mente della gente per anni. La gente dell’Egitto, Tunisia, Marocco, Yemen… si è presa le piazze e ha protestato contro la mancanza di posti di lavoro, per l’accesso all’ educazione, contro la repressione, la corruzione… e si è liberata del suo dittatore sostenuto dall’Occidente. Un mio amico l’ha chiamata “la seconda fase del processo di decolonizzazione”. Qual è la sua opinione su questi avvenimenti e anche sulla situazione in Libia, rispetto alla quale sono state votate sanzioni all’ONU e la NATO parla di intervento militare?

Ilan Pappé: Sì, in primo luogo sono d’accordo con l’espressione “la seconda fase della decolonizzazione”, o seconda fase del postcolonialismo. È un termine azzeccatissimo per descrivere quello che stiamo vivendo. Credo che sia un momento molto importante per tutti noi, non solo per le persone che vivono in Medio Oriente, ma anche per le persone che si rapportano al mondo arabo e credono di capire quello che sta succedendo là, in genere tramite strumenti che hanno distorto il mondo arabo e in realtà lo hanno dipinto in modo molto negativo. Per cui ritengo che la prima cosa che si può dire su quello che sta succedendo è che non si tratta solamente della riaffermazione della propria dignità da parte del mondo arabo, è anche un momento decisivo per l’Occidente e il suo atteggiamento piuttosto colonialista verso il mondo arabo. In secondo luogo, stiamo parlando naturalmente di un processo in corso. Vediamo la Libia come un doloroso promemoria del fatto che non dappertutto le cose saranno facili come in Egitto, e nemmeno è chiaro se sia finito tutto in Egitto, ma credo che davvero si aprano grandi speranze. Che io ricordi, è la prima volta in tutta la mia vita che dal mondo arabo arrivano delle buone notizie, e questa pura sensazione di positività o di energia positiva che ci arriva da lì costituisce un momento di non ritorno. Come storico, continuo a ricordare a me stesso che un momento di non ritorno non significa che immediatamente vedremo realizzarsi quel tipo di realtà migliorata che vorremmo vedere affermarsi. Significa che bisogna stare all’erta, che ci saranno un mucchio di poteri e una grande quantità di attori, tra i quali Israele, che faranno tutto il possibile per far svanire questo momento. E non si può rimanere passivi su questo, bisogna essere attivi, ognuno di noi a modo suo, per aiutare queste rivoluzioni a realizzarsi, e come nel caso della Palestina, ci dev’essere una chiara distribuzione del lavoro che ognuno può fare. Ma è un momento drammatico e fantastico che credo che alla lunga coinvolgerà anche la Palestina in modo molto, molto positivo.

Frank Barat: Quali sono le implicazioni più globali delle “rivoluzioni” del mondo arabo? Israele e gli USA hanno motivo di sentirsene minacciati?

Ilan Pappé: Beh, qui ci sono due questioni differenti. La conseguenza globale è che, si tratti di accademici, giornalisti o politici, la forma schematica in cui descrivono la società e la dividono tra agenti o fattori attivi che possono cambiare la realtà ed elementi recettori che non possono cambiare la realtà, è stata smantellata, è crollata. Per cui credo che la conseguenza globale è che per quanto potere economico, politico e militare si possieda, ci sono processi che non si possono controllare. Ora, forse a causa di Internet o delle pulsioni che spingono la generazione più giovane di tutto il mondo, il fatto è che c’è una specie di unanimità tra gli studenti britannici che protestano a Londra e Parigi, e quelli che protestavano a Tunisi, Algeri o Il Cairo. Questo ci mostra che è stato assestato un duro colpo al modo in cui il mondo è stato rappresentato attraverso gli occhi dell’élite occidentale, il che è una buona notizia. Quanto a Stati Uniti e Israele, credo che gli USA siano un po’ più complessi di Israele, per cui, per dare una risposta breve invece che una lunga, direi che quanti che negli USA -e c’è gente importantissima negli USA- hanno avuto fiducia in Israele per farsi guidare nella politica del Medio Oriente, sono nel panico. È un momento di panico. Sono stato in Israele diverse volte da quando sono iniziate le rivoluzioni e Israele è immerso in uno stato di autentico panico. Sanno che l’abituale arsenale di potere e diplomazia è inutile di fronte a quello che sta accadendo nel mondo arabo. Sono presi dal panico perché capiscono che se la democrazia sorge davvero intorno a loro non potranno vendere la favola che loro sono l’unica democrazia nel Medio Oriente e, in pratica, finirebbero per essere dipinti come un altro regime dittatoriale arabo. Questo potrebbe comportare un nuovo modo di pensare negli USA e agli occhi di molti israeliani un nuovo modo di pensare negli USA presuppone la fine di Israele per come lo conosciamo.

Frank Barat: Come coordinatore del Tribunale Russell sulla Palestina sto preparando la prossima sessione del tribunale che si terrà in Sudafrica, dove si tratterà del crimine di apartheid in relazione a Israele. Per molti israeliani Israele è una democrazia perché tutti possono votare e gli arabi sono rappresentati nella Knesset. Dunque, Israele è una democrazia?

Ilan Pappé:No, decisamente Israele non è una democrazia. Un Paese che occupa un altro popolo per più di  40 anni e che reprime i suoi diritti civili e umani più elementari non può essere una democrazia. Un Paese che applica una politica discriminatoria contro un quinto dei suoi cittadini palestinesi all’interno delle frontiere del ‘67 non può essere una democrazia. In pratica Israele è ciò che in scienza politica usiamo chiamare una democrazia herrenvolk, una democrazia solo per i padroni. Il fatto che tu permetta alla gente di partecipare all’aspetto formale della democrazia, cioè all’atto di votare ed essere votato, è inutile e senza senso se non si permette a questa stessa gente di condividere i beni comuni o le risorse comuni dello Stato, o se la si discrimina anche se gli si permette di partecipare alle elezioni. Praticamente a tutti i livelli, dalla legislazione ufficiale passando per le pratiche di governo, per arrivare agli atteggiamenti sociali e culturali, Israele è una democrazia solo per un gruppo, un solo gruppo etnico, che dato il territorio che Israele controlla in questo momento non è neppure più il gruppo maggioritario, per cui sospetto che le sarà molto difficile trovare una definizione condivisa di democrazia che sia applicabile al caso di Israele.

Frank Barat: Qual è la sua nazionalità, Ilan?

Ilan Pappé: Non ho una chiara nazionalità. Ho una cittadinanza, la cittadinanza israeliana. Curiosamente, ho anche la nazionalità europea, perché noi ebrei europei di seconda generazione abbiamo diritto al passaporto europeo, cosa che non equivale alla nazionalità, ma confonde la questione della nazionalità. Mi piacerebbe definirmi come membro di una potenziale nuova nazione che sorgesse nello Stato democratico laico di Israele come prodotto della combinazione di una società formata dalla terza generazione dei coloni arrivati in Palestina alla fine del secolo scorso e la popolazione nativa indigena. Il fatto che quando questa realtà si materializzerà la gente continui ancora a definirsi in termini nazionali o no, è una cosa che non mi interessa e che ignoro, ma sento di far parte di una comunità di coloni che vuol essere una comunità nazionale indipendente e riconosciuta come tale, come l’Australia e la Nuova Zelanda, ma se questo è l’unico tipo di identità nazionale disponibile per me, allora lo rifiuto e mi piacerebbe lavorare per raggiungere qualcosa di molto migliore per me e per altri.

Frank Barat: Per molti il conflitto tra Israele e Palestina ha a che fare con l’Olocausto e con il fatto chegli ebrei d’Europa avevano bisogno di un posto per vivere e sentirsi al sicuro. Quando gli ebrei arrivarono in Palestina cominciò tra loro e gli abitanti indigeni, i palestinesi, la lotta per il possesso della terra. La disputa è proseguita per più di 60 anni ed è stato impossibile per entrambe le parti Arrivare ad un accordo di pace. Lei crede che sia questo il succo di questo conflitto?

Ilan Pappé: No, no, decisamente no. Il conflitto non ha niente a che fare con l’Olocausto. L’Olocausto è manipolato dagli israeliani per mantenere vivo il conflitto a beneficio dei loro propri interessi. Il conflitto è una semplice storia di coloni europei che arrivano alla fine del XIX secolo mossi da ogni tipo di idee, e l’idea dominante era quella secondo cui necessitavano di un rifugio sicuro perché l’Europa non era sicura e che la loro antica patria era qui. È già successo in precedenza, questo non è l’unico posto dove la gente ha abbracciato questo tipo di idee eccentriche che li porta a credere che possono presentarsi in un posto dopo 2.000 anni e reclamare qualcosa che si suppone gli appartenesse. È perché c’è stato il sufficiente numero di potenze imperiali disposte ad appoggiare questo progetto di colonizzazione che sono riusciti a insediarsi con successo. Prima hanno cominciato a comprare terre e poi hanno instaurato un regime di sfruttamento della terra in virtù del quale si poteva comprare la terra a gente a cui in realtà non apparteneva ed espellere la gente che in realtà la coltivava. Ma neanche questo fu un completo successo. Come lei probabilmente sa, alla scadenza del Mandato Britannico il movimento sionista era riuscito ad acquisire meno del 7% della Palestina ed aveva potuto attrarre solo una quantità di rifugiati -anche dopo l’Olocausto- ben lontana dall’essere impressionante. Assolutamente tutta la comunità ebrea del mondo preferisce emigrare in Gran Bretagna, Stati Uniti o rimanere in Europa, nonostante l’Olocausto. Una minoranza molto piccola arrivò in Israele e per questo, contrariamente ai suoi desideri iniziali, el movimento sionista decise di portare ebrei dal mondo arabo e dearabizzarli perché si trasformassero in ebrei e non si identificassero con la popolazione araba. Per cui il conflitto è relativo ad un movimento coloniale che grazie all’Olocausto riesce a mascherare la sua natura colonialista in un mondo dove il colonialismo non è più ben visto e che utilizza ogni tipo di mezzi e alleanze per continuare a colonizzare, occupando e praticando la pulizia etnica. È un’atrocità incompiuta. Il sionismo è un’atrocità incompiuta contro il popolo palestinese. Se si fosse compiuta, come fecero i bianchi in Australia e in Nuova Zelanda, probabilmente oggigiorno non ci sarebbe conflitto. È opportuno capire perché è incompiuta. Lo si deve alla costanza e alla resistenza palestinese. Questo riassume tutto. Un progetto colonialista che cerca di completare il suo piano, una popolazione indigena che resiste, questo sarebbe il conflitto, a meno che non si decolonizzi la Palestina e si vada verso una tappa postcoloniale nella storia di questo luogo.

Frank Barat: Da molti anni lei è un attivista a favore dei diritti umani che lotta su tutti i fronti per aiutare i palestinesi, anche se con pochi risultati, sfortunatamente. Tutti i giorni [gli israeliani] rubano altre terre, ammazzano altra gente, distruggono altre case e la comunità internazionale premia Israele per tutto questo. Allora in che modo possono avanzare i palestinesi e chi li appoggia?

Ilan Pappé: La prima cosa da dire è che abbiamo bisogno di avere una visione storica più ampia del successo o del fallimento. Non credo che abbiamo totalmente fallito. L’attuale comunità palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, l’attuale comunità palestinese in Israele non cadranno. Quyesto è chiarissimo. Qualunque politica adotti Israele, non può più contemplare tanto facilmente la possibilità di perpetrare un’altra pulizia etnica, e capire questo è molto importante. In secondo luogo, credo che qualcosa sia cambiato nell’opinione pubblica: certo, non ha avuto un riflesso nella politica, ma è possibile che ci troviamo nel momento decisivo per la Palestina senza ancora saperlo. Per cui mi piacerebbe che ci fosse una visione più equilibrata sul fallimento e il successo di tutti noi. Credo che sia importante strategicamente capire che non tutto è fallimento. Tuttavia sono d’accordo che abbiamo bisogno di una strategia chiara per continuare ad avanzare. Ci sono tre cose che mi piacerebbe segnalare rapidamente e brevemente. Una è che abbiamo bisogno di capire meglio la distribuzione del lavoro tra estero e interno. Cioè, che il sistema politico palestinese deve agire congiuntamente, in termini di rappresentanza, unificazione e altro, e il movimento di solidarietà non dovrebbe cercare di sostituirlo su questioni di rappresentanza ma dovrebbe concentrarsi sul trasformare Israele in uno Stato-paria, cosa che credo sia molto importante per sbloccare la situazione. Quindi il primo punto è distribuire i compiti.

In secondo luogo, credo che dobbiamo cambiare il dizionario. Dovremmo smetterla di parlare del processo di pace, dovremmo abbandonare l’idea della soluzione dei due Stati, la mia opinione è che dovremmo riparlare di colonialismo, di anti-colonialismo, di cambio di regime, di pulizia etnica, di riparazioni a lunga scadenza. Tutto un repertorio di frasi ben note che sono perfettamente applicabili alla situazione della Palestina e che, ciononostante, per effetto della propaganda israeliana e dell’appoggio statunitense a questa propaganda, non osiamo utilizzare. Dobbiamo far sì che siano utilizzateanche dai mezzi di comunicazione maggioritari, dal mondo accademico e, di conseguenza, dai politici.

La terza cosa che dobbiamo fare è accettare le analisi, [nel senso che] è improbabile che il cambiamento avvenga dall’interno. Questo pone la questione di che tipo di strategia converrebbe adottare per provocare il cambiamento dall’esterno. Fortunatamente, abbiamo un ottimo esempio. La maggioranza dfella gente è a favore dell’utilizzo della strategia non violenta –anziché la strategia violenta- per arrivare al cambiamento. Questo è positivo perché credo che una nuova realtà che nascerà dalla lotta non violenta creerà una relazione molto migliore quando arriverà il momento della riconciliazione. Mentre se si ottiene la liberazione, per così dire, mediante la violenza, sappiamo da altri casi storici che la società stessa si trasforma in violenta. Per cui credo che ci sia molto da fare, e la cosa positiva della nostra epoca è che ci sono molte cose che uno può fare come individuo, ma senza mai dimenticarsi delle organizzazioni, neanche le vecchie organizzazioni, soprattutto nel caso della rappresentanza palestinese. Non sempre bisogna inventare la ruota, a volte c’è da ingrassarla e assicurarsi che funzioni di nuovo, come ha fatto in passato.

Ilan Pappé è professore della Facoltà di Scienze Sociali e Studi Internazionali dell’Università di Exeter, nel Regno Unito, direttore del Centro Europeo di Studi Palestinesi dell’Università, codirettore del Centro Exeter di Studi Etno-politici e attivista politico. Ha scritto tra gli altri i seguenti libri: A Modern History of Palestine , La pulizia etnica della Palestina e Gaza in crisi (in collaborazione con Noam Chomsky).

____________

* Frank Barat è coordinatore del Tribunale Russell sulla Palestina

Il video completo di questa intervista è disponibile qui: http://vimeo.com/20754275

Titolo originale “Why Israel is not a democracy”

Fuente: http://www.counterpunch.org/barat04012011.html

Traduzione di Andrea Grillo per Senza Soste

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