Intervista a un compagno del “Coordinamento cittadino di lotta per la casa” di Roma
Ma per portare avanti la lotta c’è come sempre bisogno di fare di più: non ci si può fermare, altrimenti quello spazio (di visibilità, di intervento, di concessioni) che hai conquistato te lo strappano di nuovo. Quindi c’è bisogno di allargare e rafforzare la mobilitazione di questi movimenti. Loro lo stanno già facendo: il 25 ottobre a Firenze sono scesi di nuovo in piazza in occasione del tavolo sul diritto di residenza convocato dall’ANCI, il 31 a Roma hanno “assediato” l’incontro fra Governo, Regioni, Province e Comuni che aveva proprio come tema la questione-casa, non fermandosi nemmeno davanti ai blindati. Ma per allargare ancora di più la lotta c’è bisogno di farla conoscere a chi non ne è ancora stato investito. Ed è questo è lo scopo che ci proponiamo con quest’intervista, che mira a descrivere questo terreno che è uno dei tanti su cui si manifesta la lotta di classe.
Ci piace infatti ricordare che la lotta per la casa nasce alla fine degli anni Sessanta, principalmente nelle grandi città, dai bisogni di tanti proletari che vivevano in condizioni precarie e malsane. La lotta si intreccia proficuamente con le avanguardie comuniste e con il movimento dei lavoratori, utilizza sia i sindacati che l’autorganizzazione per portare avanti le proprie rivendicazioni e riesce negli anni a ottenere vittorie importanti come l’equocanone, gli affitti calmierati, la creazione di nuovi quartieri residenziali etc. L’occupazione è sempre stata utilizzata da questi movimenti più che come “fine”, come uno strumento per accumulare forze, per fare pressione sulle istituzioni, per raggruppare un numero significativo di persone che altrimenti si sarebbero disperse sulla metropoli tentando di risolvere “individualmente” il loro problema, per creare quei legami che avrebbero permesso di strappare alla controparte delle vittorie generalizzabili per tutti. Ancora oggi, si deve apprezzare l’intelligenza dei movimenti romani che hanno posto con forza, sia in piazza che davanti al Ministro, temi che non si fermano alla loro area metropolitana. I movimenti infatti chiedono principalmente:
– il blocco degli sfratti, che riguardano circa 7000 famiglie a Roma e 200.000 famiglie su tutto il territorio nazionale;
– una ripresa dell’edilizia popolare, senza costruire necessariamente nuovi quartieri-ghetto, ma riutilizzando il patrimonio pubblico che è abbandonato o messo in svendita ai fini speculativi;
– l’utilizzo a fini sociali dei fondi stanziati per le grandi opere o per il TAV.
Come si vede, si tratta di rivendicazioni che investono diversi agglomerati urbani e una quota non irrilevante di lavoratori che, nonostante fatichino dalla mattina alla sera, non riescono a comprare casa o a pagare l’affitto, e avrebbero diritto ad alloggi popolari. Anche per questo motivo, come collettivo di inchiesta e connessione delle lotte, ci riproponiamo in futuro di approfondire le dinamiche del movimento di lotta per la casa e di conoscere più da vicino e “scientificamente” questa realtà. Per il momento vi lasciamo con le risposte molto interessanti di un compagno romano del “Coordinamento cittadino di lotta per la casa”, una delle strutture protagoniste della lotta di questi anni.
Ultimo inciso: per approfondire il tema delle occupazioni e in particolare la posizione degli occupanti rispetto al tema della legalità (non sempre infatti rispettare la legge è giusto, se questa legge è pensata dai padroni per i loro profitti!), rimandiamo a questi due interessanti contributi:
– “Il Serale. Settimanale quotidiano”, 14 ottobre 2013
– Rai News 24, 4 novembre 2013, intervista a un compagno del “Coordinamento cittadino di lotta per la casa”
Il nostro intervistato è un compagno giovane, proveniente dai movimenti studenteschi, che da circa tre anni è attivo nelle occupazioni di case, sia come occupante che come militante, cioè organizzatore di altre occupazioni. Lo ringraziamo per la disponibilità che ha subito dimostrato a voler socializzare quello che sa e ha capito sulla propria pelle. Gli poniamo le domande nella forma di un questionario. Anche perché speriamo che a queste stesse domande, che mirano a conoscere il fenomeno sia quantitativamente (numeri, dati etc) che qualitativamente (comportamenti, aspettative etc), vogliano rispondere anche altri occupanti, di modo da ricostruire un quadro più completo del movimento.
CCW: Quanti sono gli occupanti a Roma? Quanti sono in Italia? Ovviamente ti chiediamo delle stime orientative, perché non immaginiamo che ci sia stato un censimento. Tuttavia ti chiediamo di essere il più preciso possibile…
M.: A Roma gli occupanti organizzati dai movimenti non sono censiti in modo certo (anche se questa sarebbe una cosa da fare), ma credo si aggirino sui 3-4000 nuclei familiari. Quindi, azzardando una proiezione, compresi vecchi e bambini, direi che 10.000 persone è una stima sicuramente imprecisa ma realistica. Impossibile invece calcolare le occupazioni spontanee di appartamenti o le occupazioni “selvagge” non organizzate da nessun gruppo politico. In ogni caso penso che si possa parlare di altre migliaia di persone. Nel resto d’Italia i numeri sono sicuramente molto minori, li conosco ancora meno ma penso di poter dire che tutta la penisola messa assieme difficilmente arriva alla metà degli occupanti che ci sono nella sola Roma.
CCW: Chi sono gli occupanti? Tutti immigrati, come i tantissimi che abbiamo visto in piazza il 19, o ci sono anche italiani? E in che percentuale? E da dove provengono questi italiani e questi immigrati?
M.: La stragrande maggioranza sono immigrati ma la percentuale di italiani è in costante aumento negli ultimi anni. Non si tratta, come spesso si è portati a credere se ci si affida alle descrizioni dei media mainstream, di disperati o marginali ma sempre più spesso di persone che pensavano di fare, o finora facevano, una vita più “normale”: giovani coppie, seconde generazioni di immigrati, sfrattati avanti con gli anni. Certo, ci sono anche i rifugiati eritrei appena sbarcati dopo viaggi drammatici, ma la realtà sociale di provenienza è molto composita.
CCW: Dove sono concentrate le occupazioni almeno a Roma? Più verso la periferia o anche in centro città?
M.: Molte delle occupazioni “storiche” sono in centro (o meglio, semi-centro), ma nell’ultimo anno c’è stata una grossa conquista delle periferie, in molti quadranti della città. Fino a oggi le liste erano molto “centralizzate”, ovvero c’era un solo sportello a cui rivolgersi, per poi andare ad occupare in una zona x della città, del tutto slegata dal quartiere dove magari vivevi prima. Questa cosa, con l’estensione del movimento, sta cambiando: ci si organizza sempre più su base territoriale per svolgere un lavoro più efficace nei quartieri.
CCW: Che lavoro fanno, se lo fanno, gli occupanti? Quali sono le ripartizioni fra disoccupati, operai, salariati di vario tipo etc?
M.: La composizione copre un arco enorme: c’è una buona presenza di operai e simili (abbiamo anche lavoratori della logistica, protagonisti delle lotte dell’ultimo periodo), quindi salariati in senso classico, ma una grossa fascia è composta di lavoratori intermittenti sia sotto padrone che “autonomi” (banco al mercato ma anche vendi-ombrelli, aiuto per traslochi, piccoli lavori di idraulica o muratura). Significativa è anche la composizione di disoccupati e “nullafacenti”, che si arrangiano come possono o in caso siano appartenenti a comunità religiose usufruiscono dei “pacchi” dati dalle varie chiese di provenienza. Quanto alle donne, probabilmente i lavori più diffusi sono la badante o la lavoratrice dell’impresa di pulizie.
CCW: Gli occupanti-immigrati hanno la cittadinanza? E in generale gli occupanti beneficiano di sussidio statali? Qual è il loro rapporto con lo Stato?
M.: La cittadinanza ce l’hanno in pochi, la stragrande maggioranza ha il permesso di soggiorno con i relativi costanti problemi. Dopo di che noi non chiediamo documenti quindi immagino non tutti siano regolari. A livello di sussidi e aiuti, da parte dello Stato stanno a zero, non conosco invece benissimo le dinamiche comunali e municipali (comunque a occhio posso dire che sono davvero poca roba) e quelle delle comunità etniche e religiose, che invece un minimo sono presenti.
CCW: Come ha inciso, se ha inciso, la crisi economica nella crescita delle occupazioni? Chi occupa ora occupa perché magari ha perso il lavoro? Prima viveva in una casa in affitto che non riesce più a pagare? O è “semplicemente” la volontà di uscire dal nucleo familiare dei genitori e di farsi una famiglia indipendente?
M.: Al di là della retorica da talk show, sì, la crisi ha inciso in modo assolutamente decisivo. Ai nostri sportelli nell’ultimo anno c’è stato un boom di partecipazione, un po’ per l’impoverimento reale e un po’ perché si è sparsa la voce che occupare funziona. Chi ha perso il lavoro, chi è sotto sfratto o è già stato sfrattato e vive magari dagli zii in 10 in 40mq sempre più spesso decide di mettersi in gioco in prima persona. La volontà di farsi una vita propria fuori dal nucleo dei genitori incide più sulle giovani coppie, sugli studentati occupati e sui compagni come me e altri che entrano nei movimenti sia per bisogno che per convinzione politica.
CCW: Quali sono, all’interno della giornata, i tempi impegnati dalla pratica dell’occupazione e soprattutto: sono conciliabili con quelli di un lavoro standard?
M.: In un periodo “normale” l’impegno che ogni occupante mette in campo non è eccessivo (diverso è ovviamente il discorso per i militanti e gli occupanti più attivi). Più che a giornata anzi andrebbe calcolato a settimana, nel senso che hai magari un paio di impegni di qualche ora nell’arco di una settimana. Poi ci sono periodi intensi di mobilitazione in cui l’impegno com’è normale aumenta. Bisogna però essere disponibili all’imprevisto, a chiedere permessi al lavoro se possibile. Al limite succede anche che si perda il lavoro (ma si cerca di evitare a tutti i costi che succeda e di venire incontro alle esigenze di ognuno), in caso ad esempio di sgombero o manifestazione improvvisa. Insomma si può dire che la lotta assuma un peso centrale nella vita delle persone, questo sì. Riguardo al “lavoro standard”, dipende cosa si intende “standard” al giorno d’oggi. Se si intende 40 ore a settimana, ce la fai solo se sei un nucleo familiare (uno lavora mentre l’altro fa la lotta). Se sei single non è realistico, ma d’altra parte un single con un lavoro full time difficilmente ha bisogno disperato di occupare. Le cose potrebbero però cambiare se la lotta per la casa si intrecciasse di più con quelle sui posti di lavoro, perché si creerebbe una differenziazione del tipo di militanza anche da parte delle stesse persone. Ad esempio, se occupo casa magari mi posso permettere a livello economico di scioperare 5 volte in un mese per i miei diritti sul posto di lavoro. Però attualmente, con la lotta per la casa paradossalmente un po’ isolata, essa si va a contrapporre in parte (nella vita biologica delle persone) alle esigenze lavorative. Il mio parere è che serva una crescita e un intreccio dei vari movimenti, perché non è possibile pensare di farcela da soli.
CCW: Che ruolo hanno le donne dentro le occupazioni? Sono protagoniste? Il loro eventuale protagonismo è in virtù del fatto che non lavorano o che svolgono lavori saltuari?
M.: Le donne hanno un certo protagonismo sia all’interno della vita nelle occupazioni, sia nella piazza, un po’ perché tendenzialmente lavorano meno dei mariti, un po’ a seconda della provenienza geografica, perché in molte società la madre di famiglia e la donna in generale hanno un importante ruolo di autorità e di iniziativa. Inoltre, più in generale, è bene ricordare che si vengono a trovare in un movimento nel quale possono esprimersi senza condizionamenti e se necessario essere aiutate ad emanciparsi da eventuali meccanismi di soffocamento all’interno della famiglia o della comunità etnica.
CCW: Che ruolo hanno le seconde generazioni di immigrati nelle occupazioni? Quali sono le affinità e le divergenze con i coetanei italiani della stessa classe sociale?
M.: Le seconde generazioni sono ancora molto giovani quindi è azzardato fare troppe proiezioni. Però devo dire che i primi che stanno diventando maggiorenni promettono molto bene. Sono cresciuti dentro le occupazioni con valori di solidarietà di classe molto maggiori e si vede. Hanno anche un’attitudine esuberante e conflittuale, “pure troppo” a volte! La sensazione è che si sentano prima di tutto giovani proletari, anche perché l’identità “etnica” si va man mano perdendo (un nero e un indio che si parlano in romano come possono dare centralità all’etnia e non a quello che vivono quotidianamente?), a tutto vantaggio dell’identità di classe. Sognando ad occhi aperti si potrebbe quasi dire che si ripercorre la strada delle banlieues francesi, ma in positivo, con più coscienza politica. Ma magari mi sbaglio, eh…
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