Iran e Stati Uniti: un nuovo corso nelle relazioni internazionali?
Ma, al di là della retorica, Netanyahu sembrava più interessato a farsi campagna elettorale per le prossime politiche in Israele che a far deragliare un (probabile) disgelo Iran-Stati Uniti, già esistente sul campo, vista la collaborazione in Iraq contro ISIS.
Netanyahu ha ricevuto poco o nullo supporto dall’amministrazione Obama per il suo discorso, che, anzi, è stato usato dai repubblicani, che sono maggioranza al Congresso, per serrare le file per eventuali nuove sanzioni contro l’Iran in caso di mancato accordo.
Lo stesso premier israeliano è stato platealmente smentito dal Mossad, che ha negato che l’Iran abbia mai e poi mai cercato di costruire la bomba atomica. La credibilità del primo ministro è in caduta libera in patria, e molti della comunità ebraica americana lo criticano per non aver avuto la flessibilità necessaria per provare a modificare in positivo quello che lui a definito un “pessimo accordo” con Teheran sul nucleare.
La sua fermezza nell’opporsi a qualsiasi accordo con l’Iran, nonché la sua incapacità politica di proporre soluzioni alternative al dialogo che non fossero la guerra, non hanno fatto altro che peggiorare la situazione.
La stessa mera ripetizione del ritornello che “l’Iran è a pochi mesi dalla bomba” viene ripetuto da 20 anni dalle amministrazioni israeliane, e sembra che anche l’opinione pubblica americana se ne sia accorta. Forte del sostegno interno, Obama e i diplomatici hanno deciso di chiudere qualsiasi scambio di informazioni con Israele per quel che riguarda i dettagli dei negoziati con Teheran.
Ma d’altronde, se brami la guerra come Netanyahu e la leadership israeliana, la pace è la vera minaccia esistenziale, e la pace potrebbe significare giocoforza che l’Iran torni ad essere la potenza che era, politicamente, militarmente ed economicamente. Questo è quello che Israele più teme, e oggi i toni del discorso di Bibi dicono che l’accordo Iran-Stati Uniti sembra molto vicino…
L’accordo Framework Iran-Stati Uniti, novembre 2013
Alla luce dei recenti mutamenti manifestatisi nell’area medio orientale, la ripresa dell’interazione negoziale tra Iran e Stati Uniti, ad un anno dall’elezione a presidente della Repubblica Islamica di Hassan Rouhani, risulta di portata storica.
Le aperture del Presidente iraniano nei confronti di Washington, compreso uno storico colloquio telefonico con l’omologo americano Barack Obama, hanno suscitato l’attenzione dei media e delle diplomazie internazionali; oltre a ciò anche alcuni segnali, come la nomina di Javad Zarif, diplomatico di lungo corso all’ONU e artefice della collaborazione tra Stati Uniti e Iran in Afghanistan a seguito dell’11 settembre, a ministro degli esteri, e di Alì Shamkhani, arabo iraniano moderato apprezzato dai sauditi e dagli Emirati, a segretario del Consiglio Nazionale Supremo di Sicurezza, sono state interpretati come indicativi di distensione.
La ripresa delle interazioni negoziali tra Iran e Stati Uniti, culminate nell’Interim Agreement del novembre 2013, hanno rappresentato un passo avanti sia verso la distensione delle relazioni bilaterali Stati Uniti-Iran, sia un implicito riconoscimento di Teheran, da parte delle potenze occidentali del P5+1 (5 membri del Consiglio di Sicurezza ONU+Germania), come potenza detentrice di interessi economici e politici nella regione.
Secondo lo storico accordo l’Iran ha limitato il suo arricchimento di uranio in maniera significativa, in maniera tale da rendere impossibile qualsiasi sviluppo per uso militare, sospendendo i lavori nel reattore nucleare ad acqua pesante di Arak e attraverso la collaborazione con l’AIEA[1] per ispezioni a sorpresa e più severe.
In cambio il P5+1 si è incaricato di alleggerire le sanzioni, revisionando le misure restrittive sull’export petrolifero iraniano (nonché su una serie di importazioni) e sbloccando un importo concordato di asset e beni iraniani all’estero. Inoltre le parti si sono impegnate ad allestire un programma di arricchimento stabilito, grazie al quale “Il programma nucleare iraniano sarà trattato allo stesso modo di quello di qualsiasi Stato non dotato di armi nucleari al Trattato di Non Proliferazione[2]”: un riconoscimento, de facto, del diritto di arricchimento dell’uranio (e dunque di poter possedere e sfruttare l’energia atomica a scopi civili e pacifici).
La svolta di Rouhani: flessibilità eroica e mutamento tattico-strategico della politica estera iraniana
La svolta nella conduzione della diplomazia di Teheran, da parte dell’amministrazione di Hassan Rouhani, è stata avallata dagli attori chiave della politica estera iraniana.
La Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, in un suo discorso del 17 settembre 2013, ha esplicitamente ricondotto questo shift alla “flessibilità eroica”[3], necessaria per venire incontro alle nuove sfide, interne e dell’ordine internazionale, mentre gli stessi vertici delle Guardie Rivoluzionarie (Pasdaran) hanno avallato le aperture di Rouhani.
Questo metamorfosi nella politica estera di Teheran sarebbe dunque da attribuire ad un mutamento tattico-strategico. Mutamento che non vuole significare la messa in discussione del progetto nazionalista iraniano, che rimane centrato sull’obiettivo della sopravvivenza della Repubblica Islamica in quanto tale, da raggiungere sia con un’accorta rielaborazione della propria dimensione socio-economica, sia attraverso l’impiego delle componenti classiche e realiste di uno stato (innovazione militare, stabilità delle alleanze, equilibrio interno e pace sociale, mantenimento della reputazione internazionale).
Oggi, dunque, la nuova politica estera iraniana può essere ricondotta ad una sofisticata tattica per superare un momento di estrema difficoltà politica ed economica, con lo scopo di far uscire il paese dall’impasse regionale e, soprattutto, dare fiato al quadro catastrofico dell’economia iraniana, colpita dalle sanzioni (inflazione, svalutazione della moneta, taglio ai sussidi, disoccupazione).
L’elezione di Rouhani è dunque imputabile alle promesse elettorali di riforme strutturali, volte a migliorare la fallimentare gestione macroeconomica della precedente amministrazione Ahmadinejad.
La presidenza di quest’ultimo, eletto sulla base di parole d’ordine come “fine della corruzione” e “redistribuzione della ricchezza”, è coincisa con l’espansione e l’intensificazione delle sanzioni internazionali contro l’Iran e con una serie di riforme strutturali che hanno avuto lo scopo di aprire, in maniera graduale, ad un’economia di mercato.
Il taglio dei sussidi ai prezzi dell’energia e dei prodotti alimentari, storica conquista della Rivoluzione Islamica del 1979, ha determinato un aumento del costo della vita (carburanti, generi alimentari, prodotti di consumo, spese di alloggio e bollette). Per bilanciare i rincari sui prezzi, l’amministrazione Ahmadinejad ha introdotto un sistema assistenzialista di aiuti alle famiglie, che ha gravato pesantemente sugli oneri fiscali dello Stato, producendo l’effetto opposto per cui era stato creato, mentre una politica monetaria espansiva, volta a stimolare gli investimenti, ha finito per produrre sia una svalutazione della moneta, che ha reso più care le importazioni, sia un aumento dell’inflazione.
La già difficile situazione economica è stata peggiorata dalla precarietà delle impianti necessari alla lavorazione del greggio iraniano (gravemente danneggiate durante la guerra Iran-Iraq e difficilmente ricostruibili a causa delle sanzioni occidentali sull’importazione di tecnologia petrolifera), che ha, a sua volta, determinato una forte dipendenza dall’importazione.
Unito a tutto ciò, il regime di sanzioni internazionali e bilaterali non ha fatto altro che deteriorare lo stato dell’economia: mentre l’ONU ha varato quattro round di sanzioni contro la Repubblica Islamica (risoluzioni 1737, 1747, 1803, 1929), motivate dal rifiuto di interrompere l’arricchimento dell’uranio e di collaborare con l’AIEA, singoli paesi, come gli Stati Uniti, hanno imposto misure restrittive in quasi tutti i settori del commercio, insieme con l’esclusione delle istituzioni finanziarie iraniane dal mercato americano.
Sono stati dunque una serie di fattori di cambiamento interni, di carattere politico ed economico, che hanno determinato l’elezione di Rouhani, ma anche le promesse di allentare le tensioni con i paesi vicini e l’Occidente: durante la sua prima conferenza stampa Rouhani ha parlato di “interazione costruttiva” con il resto del mondo e ha dichiarato l’obiettivo nazionale di eliminare “le brutali sanzioni imposte all’Iran per il suo programma nucleare”[4].
Reazioni all’Interim Agreement
A lato della firma dell’Interim Agreement, si è manifestato un intenso dibattito sull’attendibilità di queste aperture, e moltissime sono state le interpretazioni di queste ultime: sia negli Stati Uniti che in Iran, ma anche nei paesi dell’area medio orientale storicamente ostili a Teheran, ci sono state reazioni differenti.
Israele e Arabia Saudita sono le due potenze regionali che, in questo accordo, vedono una minaccia tangibile volta ad alterare, a loro sfavore, l’equilibrio di potenza regionale.
Israele, in primo luogo, ha reagito definendo l’Interim Agreement come un “errore storico” grazie al quale il “mondo è un posto più pericoloso”[5]: la realtà è il timore di Israele di perdere il monopolio nucleare nella regione.
Un eventuale accordo definitivo tra Stati Uniti e Iran, che riconosca a Teheran lo status di potenza regionale e di interlocutore chiave per i futuri assetti del Medio Oriente, in cambio del quale l’Iran rinunci alle armi atomiche (pur mantenendo e sviluppando il suo know-how nucleare), comporterebbe un notevole ridimensionamento del potere strategico di Israele nell’area e della sua centralità nella politica americana: Israele preferisce lo status quo ante, e lo fa capire sia attraverso dichiarazioni diplomatiche sia attraverso forti pressioni della lobby ebraica nel Congresso americano (vedi discorso Netanyahu al Congresso citato nell’Introduzione). Nuove sanzioni in caso di fallimento dell’accordo sono già state proposte dai repubblicani, maggioranza in Congresso, ma Obama ha già fatto capire che userà i poteri speciali per porre il veto.
Oltre Israele, ad opporsi al mutamento nei rapporti tra Iran e Stati Uniti sono le monarchie del Golfo, con in testa l’Arabia Saudita.
Dopo il mancato intervento occidentale in Siria, e il raggiunto accordo per lo smaltimento delle armi chimiche del regime di Bachar al-Assad, Riyadh guarda con perplessità i suoi rapporti con gli Stati Uniti: un’eventuale “normalizzazione” delle relazioni Teheran-Washington porrebbe una minaccia alla centralità dell’alleanza americana con la monarchia saudita (con la paura annessa di perdere gran parte dei finanziamenti per la sua sicurezza), e vedrebbe sorgere, nella potenza sciita iraniana, un serio candidato per l’egemonia regionale.
Centralità saudita che verrebbe contestata non soltanto a livello politico e religioso, ma anche in campo economico, in quelle istituzioni petrolifere come l’OPEC, dove Riyadh gioca il ruolo di swing state per stabilizzare i prezzi e mantenere livellate le quote di produzione. La faglia saudita/iraniana è dunque uno dei motivi critici dell’area, e non solo per quanto riguarda la concorrenza sul mercato petrolifero, ma anche per i procuratori attivabili dai due contendenti nei vari contesti regionali (leggi situazione in Bahrain, Siria, Iraq, Libano, e, in ultimo, Yemen).
Scenari possibili e obiettivi divergenti nell’interazione negoziale
Nel frattempo un accordo definitivo tra Iran e Stati Uniti non è ancora stato raggiunto. Ma sembra avvicinarsi giorno dopo giorno.
L’incontro della svolta sembra essere stato quello del 23 febbraio 2015: classificato come low profile meeting, erano presenti, oltre al Segretario di Stato USA John Kerry e al ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, anche il segretario americano per l’energia, Ernest Moniz, e, infine, il Presidente dell’Organizzazione dell’energia atomica dell’Iran, Ali Akbar Salehi, uomo ben visto a Washington, sia per la sua competenza (dottorato in Fisica a MIT) sia per la sua storia negoziale (ex rappresentate iraniano all’AIEA).
Progressi si sono manifestati su alcune questioni capitali: 1) reattore ad acqua pesante di Arak, 2) conversione dell’uranio arricchito al 20% in uranio 5% e combustibile, e 3) capacità di arricchimento dell’uranio e numero di centrifughe.
Su Arak: il reattore in costruzione a sud-ovest di Teheran, potenza 40 megawatt, è l’unico che potrebbe produrre plutonio, l’altro combustibile necessario per la costruzione della bomba atomica. Teheran ha sempre sostenuto che l’unica finalità del reattore è la ricerca, soprattutto in campo medico. Secondo molti analisti Iran e P5+1 sarebbero convenuti sulla modifica del cuore dell’impianto sopracitato: non più la riconversione del reattore da acqua pesante a leggera, ma limitazioni alla produzione di plutonio (da 8 kg mensili a 1), sorvegliata dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) con ispezioni giornaliere.
Per quanto riguarda la conversione dell’uranio: Teheran ha effettivamente iniziato a smantellare lo stock di uranio arricchito al 20% (high enriched uraniam, HEU), convertendolo in combustibile pre il reattore di ricerca della capitale. Al tempo stesso ha anche sospeso la produzione di uranio 5%, mostrandosi pronto a considerare l’invio di LEU (low enriched uranium) in Russia.
In ultimo, la questione spinosa della dimensione della capacità iraniana di arricchimento. I P5+1 vogliono limitazioni che assicurino un periodo di pausa minimo di un anno, ossia il tempo che Teheran necessiterebbe per produrre abbastanza materiale (weapon-grade uranium, uranio al 90%) per un’ipotetica arma atomica. La disponibilità iraniana di “tagliare” del 33% le sue centrifughe necessarie all’arricchimento (6000 attive su 9400, con le rimanenti 3400 ispezionate dall’AIEA), nonché l’esportazione delle 8 tonnellate di LEU verso la Russia, permetterebbe così di raggiungere la soglia-breakout di un anno, ossia il tempo-medio necessario, al netto delle infrastrutture possedute, per produrre 25 kg di uranio per uso militare (attenzione: qui non si considerano i vari processi ulteriori per la costruzione delle testate, la miniaturizzazione della “presunta” bomba, il passaggio dallo stato gassoso dell’uranio a quello metallico,etc etc. Si stima intorno a una quindicina d’anni minimo per lo stato di cose in Iran, checché ne dica Netanyahu….).
Questioni da smussare sembrano essere le ispezioni a Parchin, considerata dall’Iran come sito militare (e non nucleare dunque): qui si testano esplosivi fin dagli anni ’50, e Israele ha espressamente citato più volte il suddetto sito come smoking-gun del doppiogiochismo iraniano sul nucleare. Detto questo, sembra possibile una soluzione alla luce del diritto internazionale, così come fu trovata per il sito sotterraneo di Fordow e per quello di Natanz. Da aggiungere a ciò c’è la timeline dello smantellamento delle sanzioni: l’Iran lo vorrebbe il più rapido possibile, il P5+1 scaglionato su più parti.
La deadline è fissata per il 1 luglio 2015, ma i negoziatori sono all’opera per cercare di raggiungere un accordo quadro onnicomprensivo sul nucleare entro la fine di marzo, per poi rifinire i dettagli tecnici entro il 30 giugno.
Due sono gli scenari possibili.
Il primo scenario, frutto di una reale normalizzazione dei rapporti tra Iran e Stati Uniti, determinerebbe, da parte americana, il guadagno di un nuovo interlocutore in una regione assai delicata, in un periodo in cui le alleanze tradizionali (Arabia Saudita, Turchia, Egitto) non sembrano più solide come un tempo. L’alleggerimento delle tensioni con Teheran avrebbe riflessi in tutta l’area, particolarmente sensibile per l’economia internazionale e per il mercato dell’energia; inoltre, l’instaurazione di un rapporto diretto con l’Iran, consentirebbe agli Stati Uniti di bilanciare la Russia in Asia centrale.
Da parte iraniana l’eventuale normalizzazione porterebbe certamente dei vantaggi. Teheran, d’altra parte, ha un interesse vitale a liberarsi dalle pesanti sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale: lo sblocco degli asset iraniani nelle banche americane e internazionali è stimato intorno ai 75/100 miliardi di $[6]. Il disegno di Rouhani, già parzialmente iniziato dalle liberalizzazioni nel secondo mandato di Ahmadinejad, e implementato dai programmi di privatizzazione di aziende statali, è infatti quello di reinserire l’economia iraniana all’interno del circuito del mercato mondiale.
In questo bisogna considerare le tempistiche e le pressioni subite da Rouhani: sia da parte dell’Ayatollah Khamenei, consapevole che la sopravvivenza del progetto nazionale iraniano come Repubblica Islamica necessita di una nuova strategia economica di “apertura” verso Occidente, sia da parte dei Pasdaran, restii ad abbandonare i loro favoritismi in ambito economico, tipici di un crony capitalism, ma consci dell’urgenza di un nuovo riassetto del regime e dell’economia-paese. Sono dunque le aperture negoziali e la ripresa dell’interazione con gli Stati Uniti che garantirebbero, agli occhi degli attori della politica estera iraniana, maggiore autotutela del regime, in termini di guadagni relativi ed assoluti,
Il secondo scenario vedrebbe frapporsi ostacoli insormontabili all’effettivo mutamento dei rapporti tra Iran e Stati Uniti. Le ali estreme, sia della politica americana sia del regime iraniano, non permetterebbero dunque di far avanzare i processi di riavvicinamento, impedendo di fare concessioni importanti: da una parte il Congresso, a maggioranza repubblicana, rifiuterebbe di accettare un alleggerimento significativo delle sanzioni e uno sblocco degli asset iraniani, dall’altra i falchi impedirebbero il ridimensionamento del programma nucleare.
Questa situazione determinerebbe un inasprimento delle sanzioni sull’Iran e un fallimento della politica obamiana del Pivot to Persia[7]: gli Stati Uniti continuerebbero così ad affidarsi ad alleati sempre più inaffidabili e recalcitranti ad ascoltarli, come Egitto, Arabia Saudita ed Israele, per bilanciare l’influenza iraniana in MO, mentre Teheran vedrebbe un peggioramento della propria situazione economica, che potrebbe avere conseguenze sulla pace sociale imprevedibili, e potrebbe portare il regime a fare i conti con dure contestazioni della sua legittimità.
La questione è, in sintesi, quali siano gli spazi di manovra da entrambe le parti, quali i dossier da contrattare, e, soprattutto, verso quale prospettiva potrebbe dirigersi il mutamento dei rapporti tra Iran e Stati Uniti, se legato solo a macro questioni del nucleare e del blocco delle sanzioni, o legato ad un frame più vasto che includa il ri-disegnamento degli equilibri geopolitici dell’area, passando dalla Siria alla questione israelo-palestinese.
La distanza tra le parti in causa sta anche in questo.
L’Iran sembra voler arrivare ad un accordo generalizzato, usando in maniera strumentale il nucleare: accordo che, da una parte, implichi garanzie di sicurezza contro interventi militari di regime change ed interferenze esterne, dall’altra comporti una maggiore inclusione dell’Iran a livello regionale e internazionale (economicamente e politicamente), attraverso la partecipazione ad un gioco diplomatico non a somma zero. La realpolitik della “flessibilità eroica” di Rouhani e Zarif dovrebbe dunque legittimare il ruolo iraniano di potenza nell’area, tenendo in considerazione la capacità iraniana di temperare le proprie istanze ideologiche con le esigenze più pragmatiche.
Un eventuale accordo sarebbe anche una manna dal cielo per l’internazionalizzazione del settore economico iraniano, così da portare avanti le riforme interne necessarie: in primis incentivare il settore privato per cercare di creare nuove opportunità di lavoro, poi andare a ristrutturare un sistema di tassazione che consideri anche le lobby di potere delle fondazioni religiose e dei militari.
Mentre gli Stati Uniti (e il P5+1 in generale) vorrebbero un accordo solo sulla questione nucleare e di sblocco delle sanzioni, mettendo da parte, almeno al momento, grandi accordi di regolarizzazione regionale dei rapporti con Teheran, a livello regionale ed internazionale (bisogna considerare il fattore temporale: le elezioni presidenziali USA saranno nel novembre 2016).
Questo infatti significherebbe l’inserimento dell’Iran in un sistema collettivo di sicurezza regionale, economico e politico, che implicherebbe, soprattutto, pressioni su Israele per aderire al TNP[8]: nella prospettiva americana, invece, il disgelo con Teheran è visto principalmente come mutamento in grado di allontanare la paura di una proliferazione nucleare in Medio Oriente, a garanzia proprio del monopolio di deterrenza nucleare da parte di Israele, e a difesa degli storici alleati regionali (“any nuclear deal with Iran will be in Saudi interest”, John Kerry, 3 marzo 2015).
Il negoziato, in conclusione, sembra aver messo d’accordo l’intero establishment politico e l’opinione pubblica, con lievi sfumature.
L’amministrazione Obama infatti, se da una parte ha mostrato un certo grado di continuità con quella Bush II, mantenendo inalterate le sue priorità (stabilità dei paesi del Golfo e dell’approvvigionamento petrolifero, contenimento dell’influenza iraniana-anche attraverso il disgelo con i negoziati sul nucleare con Teheran-, mantenimento della sicurezza israeliana) dall’altra sembra aver abbandonato una posizione ideologica militare ed interventista, trasferendo gran parte delle sue responsabilità politiche a partner strategici come l’Arabia Saudita (tramite il Consiglio di Cooperazione del Golfo) e Israele, ma anche la Turchia.
Obama dunque sembra aver compreso che il containment dell’Iran, nazione unita, ambiziosa e influente, passa per il dialogo, e che la priorità della politica estera americana oggi è ancora bilanciare la Cina in Asia Centrale.
Detto ciò, un accordo che “sdogani” finalmente Teheran come potenza regionale, e che riequilibri il balance-of-power nell’area (Israele, Arabia Saudita, Turchia, Iran) andrebbe a tutto favore degli Stati Uniti, da sempre impegnati a bilanciare l’ascesa di potenze regionali troppo egemoni[9].
LC
[1] Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica
[2] “Iran nuclear deal. Joint plant of action”
[3] L’espressione “flessibilità eroica” è stata presa in prestito dalla traduzione di un libro sull’Imam Hasan dello stesso Khamenei, che osò definire così la rinuncia eroica dei diritti di successione spettanti all’Imam Hasan nei confronti dei califfi sunniti. La scelta di Khamenei non è casuale, ma sembra invece riflettere la concezione che la trattativa con gli Stati Uniti, il Nemico più forte, sia uno sforzo eroico e di una flessibilità unica.
[4] “Iran seeking constructive interaction with the world”, Mehr news agency, 18 giugno 2013
[5] “Israel’s Netanyahu calls Iran deal historic mistake”, Washington post, 24 novembre 2013
[6] http://www.reuters.com/article/2014/01/17/us-iran-assets-usa-idUSBREA0G0LR20140117
[7] http://www.foreignpolicy.com/articles/2014/06/16/pivot_to_persia_us_policy_iran_iraq_isis
[8] Trattato di Non Proliferazione, trattato sul nucleare che si basa sul disarmo, sulla non-proliferazione e sull’uso civile dell’energia atomica. A questo trattato l’Iran aderisce, mentre Israele non ha mai dichiarato di possedere armi nucleari.
[9] http://foreignpolicy.com/2013/11/25/whats-really-at-stake-in-the-iranian-nuclear-deal/
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