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Kurdistan: dietro le barricate (1). Combattenti a Silvan, città sotto assedio

Come altri centri abitati della provincia di Diyarbakir (nome turcofono che ha sostituito per legge il curdo “Amed”), Silvan (il cui nome curdo è invece Farqin) è epicentro politico della resistenza popolare contro il progetto neoliberista e neo-Ottomano dell’Akp. Dopo le elezioni del 7 giugno, che per la prima volta hanno visto l’Hdp, partito di sinistra filo-curdo, superare la soglia del 10% ed entrare in parlamento, il Kurdistan turco è stato attaccato tanto dallo Stato Islamico, con gli attentati di Suruc e di Ankara (quest’ultimo, pur perpetrato nella Turchia occidentale, rivolto contro l’Hdp), quanto dal governo turco, con bombardamenti aerei che hanno colpito le postazioni del Pkk e delle Ypg tanto in Iraq quanto in Turchia e in Siria. L’Unione delle Comunità del Kurdistan (Kck), che raggruppa sotto il suo ombrello i curdi di Turchia, Iran, Iraq e Siria che si riconoscono nel progetto di un’autonomia basata sui processi assembleari e sulle decisioni popolari, ha dichiarato in risposta a questi attacchi l’autogoverno di alcuni quartieri delle città curde del Bakur.

Silvan è una delle città più attive in questo processo. Nei quartieri si svolgono lezioni indipendenti, dove gli studenti possono ricevere un’educazione autonoma in lingua curda, rifiutandosi di frequentare le scuole turche, dove non soltanto la lingua curda, ma la stessa menzione dell’aggettivo “curdo” è proibita. L’autogoverno, a Silvan come in tutto il Bakur, è frutto di un processo lungo e lento, e non comprende soltanto l’educazione, ma l’economia (con particolare attenzione all’agricoltura e all’ecologia), la giustizia (con l’istituzione di forme nuove, originali e innovative di diritto costruite dal basso), le cure sanitarie, i rapporti internazionali.

Lo stato ha risposto alla dichiarazione di autogoverno nei quartieri di Silvan con sei successivi coprifuoco. Si tratta di lassi di tempo in cui gli abitanti non sono autorizzati a calcare le strade pena la morte, mentre le forze speciali entrano nei quartieri per sparare contro le case o effettuare arresti. I primi due coprifuoco a Silvan, da luglio, hanno avuto la durata di due giorni, fino ad aumentare a quattro durante il quinto coprifuoco. Il sesto, successivo alle elezioni del 1 novembre (dove l’Hdp ha nuovamente trionfato in città), è attualmente in corso e dura ormai da quattro giorni; ha portato, assieme ad analoghe operazioni militari in città curde come Yukselkova e Diyarbakir, alla rottura del cessate il fuoco unilaterale da parte del Pkk, annunciata il 6 novembre.

La popolazione civile si organizza come può per resistere, istituendo gruppi di combattenti che si danno il nome di Unità di Protezione Popolare, nome analogo alle Ypg, le ormai note unità combattenti del Rojava (l’occidente del Kurdistan, entro i confini della Siria). I militanti di quartiere non si identificano direttamente con il Pkk, partito teorico-politico della resistenza curda, che possiede le proprie forze armate, di stanza sulle montagne, sotto il nome Hpg (Unità di Difesa Popolare). I compagni tengono a sottolineare che i gruppi di resistenza si formano nei quartieri e sono espressione delle necessità locale: questo è un fatto, per i compagni di Silvan e di altre città, di grande importanza, perché sottolinea l’allargamento che sta interessando il processo di insubordinazione politica curda, che dalla Siria si sta insinuando, in questi mesi, nei confini della Turchia; non nel senso che i militanti provengano dalla Siria, quanto  di una presa di responsabilità diretta dei curdi dei centri urbani in Turchia, che non devono attendere il Pkk o le Ypg, dai monti di confine con l’Iraq o dalle pianure siriane, per organizzare la resistenza.

Abbiamo posto alcune domande a un comandante di queste formazioni urbane di autodifesa a Silvan. Seduti in cerchio assieme ad altri uomini e a molti bambini del quartiere, parliamo.

Questo quartiere è interamente fortificato con trincee e barricate. Qual è, attualmente, la situazione qui a Silvan? Quale messaggio volete mandare al mondo da questo luogo di duro conflitto?

Anzitutto vorrei chiarire che noi siamo civili, il nostro scopo non è attaccare le forze turche, ma solo proteggere il nostro quartiere dai loro attacchi. Noi non siamo il Pkk, siamo le Unità di Protezione Popolare, siamo civili e non soldati. Le forze turche, dal canto loro, ci attaccano con i mitra anche quando siamo disarmati, quindi la difesa della nostra gente si è dimostrata necessaria. Il messaggio che vorremmo mandare da qui è che Ocalan deve essere liberato e lo stato turco deve iniziare una trattativa di pace con lui.

Il problema che stiamo vivendo non va compreso come uno scontro tra curdi e turchi, ma tra l’Akp, il partito di Erdogan al potere, e le diverse popolazioni e religioni della Turchia che non si sottomettono al suo comando. Erdogan punta a diventare un monarca, ma noi non lo permetteremo. [Interviene un bambino: Che sia maledetto!]. Suo obiettivo è aizzare la popolazione dell’ovest turco contro noi curdi facendo leva su vecchie forme di razzismo; persegue questo scopo per una ragione politica: sa che i curdi hanno coscienza, e per questo vanno annientati.

Noi non desideriamo uccidere poliziotti né soldati; se non ci avessero attaccati, non avremmo impugnato le armi. Il mondo deve sapere che siamo qui – che siamo vivi. È evidente che la situazione al momento non è buona, è un fatto di per sé evidente nel momento in cui abbiamo delle armi in mano e siamo costretti a difenderci o essere uccisi. Questo ci rende tristi perché non è questo ciò che vogliamo. Il mondo, tuttavia, deve sapere che resistiamo: tutti devono saperlo.

Abbiamo dovuto in parte distruggere un quartiere povero con le barricate, le trincee e i combattimenti, e la gente della zona non può che esserne triste e soffrirne le conseguenze immediate, ma dobbiamo fare a tutti un grande appello alla resistenza. Noi abbiamo le barricate, ma loro arrivano con carri armati, elicotteri e armi pesanti. Ciò dimostra che hanno paura di noi, che siamo semplici volontari.

Come si sviluppa la partecipazione alla resistenza in questo contesto urbano?

Tutto, qui, è basato sulla partecipazione volontaria. Tutti collaborano, anche i bambini: portano pesi, aiutano a costruire le barricate. La gente vede la crudeltà delle forze speciali e della polizia, sceglie di partecipare all’autodifesa: un bambino di dieci anni si è trovato per strada durante un attacco con mitragliatori, ma quando la madre gli ha gridato di tornare in casa ha detto che sarebbe rimasto fuori, non voleva più rientrare. Il governo pratica questi attacchi direttamente rivolti ai civili, alle nostre case, per spaventare e disperdere l’elettorato in vista delle elezioni del 1 novembre. È una manovra per boicottare il sostegno all’Hdp che dura da settimane in tutto il Bakur.

Cosa pensate di ciò che accade ai curdi del Basur (Kurdistan meridionale, Nord dell’Iraq, ndr) e del partito al potere nel Kurdistan iracheno, il Pdk di Massud Barzani?

Il Pdk di Barzani fa esclusivamente gli interessi della Turchia. Vuole bloccare le manovre del Pkk nel nord dell’Iraq per mostrare alla Turchia la propria fedeltà. Noi, però, vogliamo sottolinearlo, non siamo del Pkk, siamo civili. Il Pkk svolge un ruolo diverso sui monti del Kurdistan, ed è un elemento essenziale del nostro movimento, ma anche se il Pkk dicesse che dobbiamo fermarci, noi non ci fermeremmo, perché siamo obbligati a combattere: dobbiamo difendere i nostri quartieri. La nostra è una sollevazione contro le violenze delle autorità turche contro le nostre città.

Anche la città di Cizre, vicina ai confini iracheno e siriano della Turchia, ha subito una condizione molto dura di coprifuoco. Là sono morti ben 21 civili ad opera dei cecchini. Quali sono le differenze tra ciò che sta succedendo qui e ciò che è accaduto in quella città?

Qui è lo stesso che a Cizre e in tutte le città del Bakur, i quartieri devono essere autodifesi con la resistenza. La lotta è unica, è la stessa. Dal punto di vista tecnico e geografico, però, ci sono delle differenze. La conformazione di Cizre, con strade più ampie di Silvan, si presta meno ad essere difesa dagli assassinii perpetrati a sangue freddo dai cecchini.

Con i carri armati non potranno mai passare se c’è l’autodifesa: per questo ricorrono ai cecchini appostati in alto e per questo abbiamo issato su tutte le strade enormi teli bianchi che rendono invisibili le nostre strade. L’autodifesa di Cizre è stata meno efficace a settembre per ciò che riguarda i cecchini, e sono stati anche quegli eventi a metterci in guardia e a imporci di prendere queste precauzioni. Molto dipende dalle circostanze e dalle capacità di ogni città, dalle caratteristiche del luogo in cui ci si trova ad operare.

Come vedi il futuro della lotta del popolo curdo?

Ci aspettiamo un duro attacco nei prossimi giorni. Arriveranno in forze, ma alla fine di questa lotta Erdogan declinerà e sarà sconfitto. Arriverà la pace. Qui tutti lo sanno.

Il coprifuoco di Silvan, dal 3 novembre a oggi, ha fatto quattro morti. Sono state uccise persone uscite dalla propria casa per trovare cibo o prestare soccorsi ai feriti, colpite magari dai numerosi cecchini di stato appostati sui tetti. Due giorni fa un ragazzo è stato colpito dalle forze speciali e si è accasciato, ed è stata immediatamente uccisa anche la zia che si è chinata su di lui, sporgendosi dall’uscio di casa, per soccorrerlo. Sono gli stessi drammi che, a settembre, erano accaduti durante l’assedio di Cizre, più a sud. Accade anche che compagni più attivi nell’autodifesa dei quartieri vengano colpiti e divengano “martiri” del movimento curdo.

Durante i coprifuoco decine di mezzi blindati, pick up e carri armati, accompagnati da elicotteri, si avventurano nei quartieri autogestiti, ottenendo in risposta una resistenza che si sostanzia in esplosioni e prolungati conflitti a fuoco. Obiettivo della polizia è terrorizzare la popolazione civile, consapevole che nessuno, fuori da quei quartieri, potrà testimoniare l’accaduto. I media internazionali sono complici delle operazioni turche contro una resistenza e un autogoverno considerati “organizzazione terroristica” tanto dagli Stati Uniti quanto dall’Unione Europea. Le case, le porte sono prese di mira con raffiche di mitra e colpi di bazooka. Abbiamo avuto una conversazione con un gruppo di ragazze e ragazzi che presidiavano una strada della città vecchia, attorno a un fuoco.

La situazione che si vive in Italia è incomparabile alla vostra, sotto il profilo della violenza anzitutto. Esiste però una lotta nelle montagne anche da noi, in Val Susa, dove talvolta è stato necessario barricare delle aree per resistere alla polizia. Laggiù però non si usano le bombe a mano o i mitra, perchè la polizia non attacca con armi da fuoco.  

Ragazzo1. Non avrei mai detto che queste cose accadessero in Italia. Mi chiedo perché noi non ne sappiamo nulla. Per noi è importante sapere che ci sono altre lotte in giro per il mondo, è importante per sentirci meno soli. Ma in Italia di quello che succede qui se ne parla? 

I media mainstream, persino in Italia, non informano su ciò che accade. Anche sulla lotta curda, sul Rojava e sul confederalismo democratico non informano, magari perchè temono che una parte della popolazione italiana possa provare interesse per simili esperienze e voglia a sua volta cercare maggiore libertà. I report ufficiali da Kobane parlano sempre e solo degli scontri, mai del retroterra politico che li caratterizza. 

Ragazza1. Ci sono aspetti del conflitto, qui, che è difficile capire se non ci sei dentro. Diversi poliziotti mandati ad attaccarci hanno disertato, quindi il governo ha mandato le forze speciali. I bambini dicono che le forze speciali sono il Daesh (acronimo spregiativo per l’Isis, NdR). Non è un associazione senza senso: le forze speciali arrivano di notte, durante il coprifuoco, e gridano dai mezzi blindati: ‘Allahu Akbar!’ per spaventarci, perchè sanno cosa può significare per noi, in questo contesto! Vogliono dire: anche qui è il Rojava o il Sinjar (regione irachena dove l’Isis ha massacrato i curdi yazidi, NdR), siamo il Daesh e voi siete i curdi. E dire che la motivazione ufficiale dei coprifuoco è “proteggere la popolazione dei quartieri dai ‘terroristi’ del Pkk”…!

Ragazzo2. Immagina quanto sono stupidi: vengono e gridano “Dio è grande” per spaventarci; ma anche noi siamo musulmani!

Una tale connessione politica tra forze di polizia turche e Daesh, ad esempio, anche solo sul piano dei richiami simbolici, non è mai stata raccontata dai media occidentali…

Ragazza2. Le forze speciali vogliono apparire come il Daesh in tutti i modi. Perché credi che invadano i quartieri con i pick up? Anche questa è una cosa nuova. Hanno scelto i pick up perchè si sa che il Daesh in Siria arriva nelle città che conquista con quel tipo di mezzi. Vogliono terrorizzarci, tutto qui. Questa è una guerra fortemente psicologica. L’aspetto psicologico è un aspetto veramente centrale in ciò che sta accadendo e nei conflitti che hanno luogo in medio oriente in queste periodo. 

Ragazzo1. Noi resisteremo. Sappiamo di dover morire, prima o poi.

 

[continua Kurdistan: dietro le barricate (2) Donne resistenti a Silvan, città sotto assedio]

 

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