La fine del ciclo progressista (R. Zibechi)
Riprendiamo un sintetico intervento di Raul Zibechi per la rivista la Jornadada e tradotto in italiano da comune-info.net, in cui l’autore fa il punto sulla parabola dei governi “progressisti” dell’America Latina. Una parabola che Zibechi legge come arrivata ormai alla sua fase terminale. Da una parte i movimenti sociali (in particolare i movimenti delle donne e i movimenti indigeni) stanno riconfigurando il proprio agire e dispiegando nuove energie, mostrando così i prodromi di un nuovo ciclo di lotte. Dall’altra, i margini politici di ridistribuzione del consumo sembrano ormai strettissimi per i governi sudamericani, visto uno scenario economico in gran parte mutato rispetto a qualche anno fa. Il calo drastico dei prezzi delle materie prime di questi ultimi mesi non permette semplicemente più di portare avanti politiche di welfare senza intaccare i privilegi dei ricchi. Siamo, insomma, a un punto di svolta decisivo che Zibechi ha, come di consueto, la capacità di analizzare coniugando il piano soggettivo dei movimenti e oggettivo della fase storico-politico che attraversiamo.
Foto Euclides Oltramari
Ognuno sceglie il luogo dal quale guardare il mondo, ma questa scelta ha delle conseguenze e determina ciò che si può vedere e ciò che irrimediabilmente sfugge. Il punto di osservazione non è mai un luogo neutrale, così come non lo può essere colui che osserva. Di più, l’osservatore è modellato dal luogo che sceglie per realizzare il suo compito, al punto che cessa di essere mero spettatore per diventare partecipe – per quanto si dica obiettivo – della scena che crede solamente di osservare.
Di fronte a noi, si dispiegano gli sguardi più diversi: da quelli localizzati negli stati (partiti, forze armate, accademie), a quelli che provengono dai paesi potenti e dal capitale finanziario, fino agli sguardi radicati nelle comunità indigene e nere e nei movimenti antisitemici. Una vasta gamma che, con una certa arbitrarietà, possiamo sintetizzare come sguardi de arriba (di sopra, ndt) e sguardi de abajo (di sotto, ndt).
Le opinioni espresse negli ultimi mesi sulla situazione che i governi progressisti sudamericani stanno attraversando, dicono molto di più sull’osservatore che sulla realtà politica che pretendono di analizzare. Dai movimenti e dalle organizzazioni popolari che resistono al modello estrattivista, le cose si vedono in modo ben diverso che dalle istituzioni statali. Niente di nuovo, sebbene questo sia solito allarmare coloro che credono di vedere la mano della destra nelle critiche al progressismo e nei movimenti di resistenza.
Per chi scrive, l’aspetto centrale da prendere in considerazione nel momento in cui si analizzano i governi progressisti è l’attività o l’inattività, l’organizzazione per la lotta, la dispersione o la cooptazione dei movimenti. Solamente in secondo luogo appaiono altre considerazioni come i cicli economici, le dispute tra i partiti, i risultati elettorali, l’assetto del capitale finanziario e dell’impero, tra le molte altre variabili.
Da più di due anni si parla “della fine del consenso lulista” a causa delle massicce mobilitazioni di milioni di giovani brasiliani nel giugno 2013. Diversi analisti brasiliani hanno spiegato le mobilitazioni di quell’anno in modo similare, sottolineando che si è trattato di uno spartiacque nel paese più importante della regione.
Un anno fa ho sostenuto che “il ciclo progressista in Sudamerica è finito“, in relazione al rapporto di forze scaturito dalle elezioni brasiliane, conseguenza diretta delle proteste del giugno 2013. Il Parlamento emerso dopo il primo turno era considerevolmente più a destra del precedente: i difensori dell’agrobusiness hanno ottenuto una maggioranza schiacciante; la “lobby della pallottola”, composta da poliziotti e militari che propongono di armarsi contro la delinquenza, e il gruppo antiabortista, hanno scalato posizioni come mai prima. Il PT è passato da 88 a 70 deputati.
Molti hanno sottostimato l’importanza del giugno 2013 e del nuovo rapporto di forze nel paese, confidando nel carisma di dirigenti come Lula, nella loro capacità quasi magica di contrastare uno scenario che gli si era rivoltato contro. I risultati sono evidenti.
La fine del ciclo progressista, possiamo vederla con maggiore chiarezza alla luce dei nuovi dati che emergono dai fatti recenti.
Primo. Ci troviamo di fronte ad una nuova fase dei movimenti che si stanno espandendo, consolidando, stanno modificando le proprie realtà. Non ci troviano ancora di fronte ad un nuovo ciclo di lotte (come quelle che si sono vissute in Bolivia dal 2000 al 2005 e in Argentina dal 1997 al 2002), tuttavia si registrano grandi azioni da parte de los de abajo che possono essere l’annuncio di un ciclo [di lotte]. La mobilitazione di più di 60 mila donne a Mar del Plata e l’enorme manifestazione “Ni una menos” [Neanche una in meno] (300 mila solo a Buenos Aires, contro la violenza maschilista), parlano sia di espansione che di riconfigurazione.
La resistenza contro l’attività mineraria sta paralizzando o rallentando i progetti delle multinazionali, soprattutto nella regione andina. Il Perù, che concentra un’elevata percentuale di conflitti ambientali, ha registrato diversi sollevamenti popolari e comunitari contro le miniere. In America Latina, per la prima volta dopo anni, l’investimento nel settore minerario sta retrocedendo. Secondo la Cepal*, nel 2014 è diminuito del 16 per cento e nel primo semestre del 2015 è diminuito di un ulteriore 21 per cento. I motivi addotti sono la caduta dei prezzi a livello internazionale e l’ostinata resistenza popolare.
Secondo. La caduta dei prezzi delle materie prime è un duro colpo per la governabilità progressista che si era basata sulle politiche sociali rese in gran misura possibili dai guadagni consentiti dagli alti prezzi delle esportazioni. In questo modo è stato possibile migliorare la situazione dei poveri, senza toccare la ricchezza. Adesso che il ciclo economico è cambiato, le politiche sociali possono essere sostenute solamente combattendo i privilegi: un qualcosa che passa attraverso la mobilitazione popolare. Tuttavia la mobilitazione è uno dei più grandi timori del progressismo.
Terzo. Se la fine del ciclo progressista è capitalizzata dalle destre, non è responsabilità dei movimenti né delle lotte popolari, bensì di un modello che ha promosso “l’inclusione” attraverso il consumo. Un eccellente lavoro dell’economista brasiliana Lena Lavinas sulla finanziarizzazione della politica sociale assicura che “la novità del modello social-sviluppista è quella di aver istituito la logica della finanziarizzazione in tutto il sistema di protezione sociale“.
Attraverso l’inclusione finanziaria, i governi di Lula e di Dilma hanno potuto potenziare il consumo di massa, “superare la barriera dell’eterogeneità sociale che in America Latina frenava l’espansione della società di mercato”. Per i settori popolari, presunti beneficiari delle politiche sociali, si tratta di un regresso: “invece di promuovere la protezione contro i rischi e le incertezze, aumenta la vulnerabilità”.
Quasi mezzo secolo fa, Pasolini diceva che il consumismo spoliticizza, potenzia l’individualismo e genera conformismo. È il brodo di coltura delle destre. Stanno raccogliendo quello che hanno seminato.
* Cepal: Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi
Traduzione per Comune-info di Daniela Cavallo
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