La guerra come processo di trasformazione della modernità
Ed è evidente, da Parigi a Bruxelles, che la spettacolarizzazione degli attentati invisibilizza quei confini intorno ai quali si sono creati i presupposti per gli attacchi, ma anche provoca una paralisi dello sviluppo della storia – intesa come conflittualità – e un restringimento dello spettro dei diritti. L’illusione è di vedere uno scontro tra fazioni.
Così, la partecipazione individuale alla definizione degli assetti collettivi, all’interno dell’Europa, si risolve, il più delle volte, in una ‘solidarietà a-posizionale’, ossia in una presa di parola del singolo che finisce con l’annullare le differenze sociali, economiche, politiche, di genere, razza, colore, ecc – si pensi alla formula ‘je suis Charlie/Paris/Bruxelles’. Per coloro che sono ‘arabi’, ‘musulmani’, ‘neri’, ecc., la condanna di quanto è successo, però, è un passaggio obbligatorio per continuare a rimanere nella comunità, anche se ai margini: evidenza, questa, che la dice lunga sui processi discriminatori e sulla razzializzazione delle società europee. Fatto ciò, il regime discorsivo degli stati europei impone la permanente sospensione delle libertà in virtù dell’eccezionalità dell’evento – eccezionalità che è subito trasformata in reiterata quotidianità dal diffuso stato di paura.
Si condanna l’accaduto per il potenziale evocativo che gli immaginari islamisti hanno, per esorcizzare il terrore (e le fobie) costruite intorno alla bandiera del Daesh. Utilizzando quelle stesse genealogie razziste e xenofobe citate sopra, si associa la minaccia esterna a un male interno, già in territorio italiano. Ma il nemico non è l’altro – l’immigrato, il povero, il nero, l’extracomunitario, l’arabo o il siriano; il nemico è chi ha costruito i presupposti perché ciò avvenisse e la sua altra faccia, chi ha realizzato gli attacchi. Questo ragionamento – rileggendo la storia – ci porta a riconsiderare ogni guerra moderna in una nuova prospettiva: come processo di trasformazione della modernità, più che di conflitto tra due o più parti.
Per questo l’Europa (e la sua Fortezza) non è in crisi, non è sul baratro, ma è viva e in costante mutazione. Il nemico, come ci insegna Hollywood, prima stava con i ‘buoni’, anzi, in quanto ‘nemico’ è nato da una costola ‘dei buoni’. Non è sarcasmo, ma la verità stando alle dichiarazioni dal senatore repubblicano conservatore Rand Paul sul finanziamento voluto da Hilary Clinton – e dall’entourage democristiano USA – del progetto Isis in funziona anti-Assad e per destabilizzare l’intera zona tra Siria, Iraq, Turchia. La condanna, poi, è utilizzata per riformare una comunità compatta in cui, però, sotto l’apparente omogeneità delle narrazioni sono sempre più forti le segmentazioni sociali – e quindi gli squilibri economici e politici.
La guerra è altra cosa dal conflitto sociale – il problema, come ha insegnato Lenin, sta piuttosto nel trasformare la prima nella seconda. La guerra ha il fine di consolidare quel piano inclinato del governo di pochissimi su tutti gli altri, usando la via delle armi come fattore esterno – che avviene, cioè, fuori dai confini del Vecchio Continente – le cui ricadute vanno a rinsaldare, però, le posizioni egemoniche all’interno dei confini delle nazioni.
Ne deriva, quindi, l’impossibilità di produzione di soggettività in tensione, e in conflitto, con il presente. In questo scenario l’essere umano è inteso come numero, corpo, azione o gruppo; mai, però, come sorgente per reinventare il mondo, come attore della continua trasformazione dello spazio che occupa. Neutralizzare questa capacità di agire hic et nunc è l’obiettivo indiretto di ogni guerra. Chi agisce fuori dai ranghi è spazzato via, in funzione di una militarizzazione dello spazio pubblico che non risparmia alcun aspetto della vita quotidiana.
Tale logica ripercorre, in altri modi e su altri versanti, il fenomeno storico dell’estensione dei modelli di produzione fuori dai perimetri delle fabbriche e fin dentro alle società. I due processi plasmano il mondo in base a una specifica geografia della conoscenza nella quale le forme del vivere sono omologate e linearizzate, ossia banalizzate non solo perché intese come grossolane rappresentazioni del vivere rispetto alla complessità dell’esistente, ma anche perché generate in serie, con lo stesso stampo. La produzione di soggettività, invece, può ridiscutere la griglia che rinchiude il mondo e lo riduce a mera rappresentazione del diritto e del dovere, dei poteri, di una mappa in cui i confini servono per con-tenere ogni elemento della vita all’interno di entità discorsivamente inventate: gli stati nazionali, l’Europa, il sistema-mondo.
Gli effetti, invece, sono ampiamente calati nel modello di governance nazionale ed internazionale – diremmo globale – nel quale alla forma della piramide sociale, e in particolare ai suoi vertici direzionali, è garantita una continuità a prescindere dal voto come espressione di un mandato individuale. Intendo cioè affermare che le forme della rappresentanza sono svuotate della capacità di agire il politico a partire dal pubblico. Questo perché la “linearizzazione del complesso” non vale, paradossalmente, per chi occupa i posti di comando delle società europee (e non solo).
Le frontiere nazionali e comunitarie sono costantemente travalicate, tanto dai capitali quanto dagli stati, per imporre nuove forme di dominio, di sfruttamento. Non si tratta, solamente, di un’eredità coloniale, in cui il movimento centripeto della rappresentazione (e dell’azione) inventava altri mondi – un centro costruiva altri mondi, altri corpi (o corpi-altri), altre relazioni di potere con questi corpi a partire da una violenza generativa e dall’arroganza del giusto, del civile, del progresso. Tutto tornava a questo centro con l’altro movimento, quello centrifugo, legando le colonie alla madre patria per le importazioni, l’esotico e l’orientale, con fotografie e film, con immaginari di dominio.
Dicevo non si tratta solamente dell’eredità di questo modello coloniale, ma di un vero è proprio neo-colonialismo, in cui il capitale privato si appropria di risorse, fuori dai confini nazionali, con l’aiuto militare dello stato. Un altro esempio? Guardiamo all’Italia, alla diga di Mosul, in Iraq, infrastruttura faraonica voluto da Saddam Hussein che è finita, dopo l’ultima guerra, al gruppo italiano Trevi. Per proteggere i 40 lavoratori impegnati nella gestione del colosso, e garantire la commessa di 200 milioni di euro stanziati dal governo di Baghdad è stato inviato un contingente militare di 500 unità.
di Gabriele Proglio
da Commonware
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