La guerra tra Gaza e Israele: attuali prospettive tra conservazione e mutamento dello status quo
INTRODUZIONE
L’8 luglio 2014 Israele dà il via all’operazione militare ribattezzata “Protective Edge” (Margine protettivo), con lo scopo dichiarato di interrompere il lancio dei razzi di Hamas da Gaza verso il territorio israeliano. La sera del 17 luglio, dieci giorni dopo l’inizio dei raid aerei sulla Striscia di Gaza, il primo ministro israeliano Netanyahu ordina l’avvio di un’offensiva di terra: intento è distruggere i tunnel sotterranei che attraversano il confine tra Gaza e Israele, che lo Stato ebraico considera una minaccia alla sua sicurezza.
Il 3 agosto Netanyahu impone il ritiro delle truppe di terra dalla Striscia e, il 26 agosto, dopo 50 giorni di bombardamento israeliano serrato su Gaza e lancio di razzi continuo dalla Striscia verso Israele, inframezzati solamente da cessate-il-fuoco temporanei, viene firmato una tregua “definitiva” tra Hamas e lo stato ebraico, mediata dalla presenza dell’Egitto del presidente Al Sisi, e dell’Autorità Nazionale Palestinese di Mahmoud Abbas.
Israele, Hamas e ANP: tra conservazione e volontà di mutamento dello status-quo
Sul fronte israeliano la dinamica di questo conflitto sembra riflettere quella dei precedenti con Gaza, ovverosia mancanza di una chiara strategia e di un obiettivo reale e tangibile da raggiungere a seguito delle operazioni di guerra.
Inizialmente il governo Netanyahu, forte del consenso dell’opinione pubblica (soprattutto delle popolazioni che si trovano a diretto contatto con la Striscia di Gaza), ha dato il via al conflitto su larga scala con l’intento/obiettivo di disarmare Hamas e la Resistenza palestinese di Gaza, conscio che un successo in tale operazione avrebbe avuto una valenza enorme dal punto di vista politico, sia a livello interno che a livello regionale.
Nelle prime fasi del conflitto, la coesione della popolazione israeliana non é mai mancata, soprattutto dopo la vicenda dei 3 ragazzi rapiti e uccisi in Cisgiordania.
Nell’additare subito Hamas come responsabile di questo atto, Netanyahu ha fatto quadrato intorno a sé, con il whisful thinking di presentarsi come colui che avrebbe definitivamente sradicato un movimento che predica la distruzione d’Israele e la conquista dell’intera Palestina storica nel suo statuto1. Agli occhi di Netanyahu il raggiungimento di questo obiettivo gli avrebbe concesso una pressoché incontestabile leadership nel Likud, spazzando via da sé le critiche di chi lo considerava troppo accondiscendente verso i razzi provenienti da Gaza: Netanyahu avrebbe in tal modo rinvigorito la sua immagine contro i detrattori che lo additano come una “colomba”, avrebbe messo a tacere le opposizioni “da destra” che gli giungono dal suo partito (Lieberman e Bennet) e, soprattutto, si sarebbe accattivato le simpatie degli elettori più oltranzisti, accrescendo i suoi consensi e quelli del Likud a danno di altre formazioni oltranziste e ultra-sioniste.
Ma mere considerazioni di politica interna non possono spiegare la decisione di richiamare 30mila riservisti con l’idea impegnarli in un conflitto, anche se Netanyahu (e la maggioranza degli israeliani) consideravano di breve durata.
Il primo ministro israeliano e il suo governo hanno deciso di intervenire militarmente a Gaza in ragione della realpolitik: presentando Hamas e i suoi razzi come una minaccia significativa per la sicurezza israeliana, il governo dello stato ebraico si é posto l’obiettivo di eliminare completamente l’ala militare di Hamas.
Secondo Israele questa mossa avrebbe alienato Hamas dal consenso della popolazione e avrebbe fatto emergere una leadership palestinese più accondiscendente e prona alle richieste israeliane nella Striscia. Nella black box della politica estera israeliana, i calcoli di potenza hanno decisamente avuto il loro peso, infatti il governo israeliano sapeva di scendere in conflitto con un Hamas debole, politicamente e finanziariamente, ed era conscio che la possibilità di stroncare definitivamente il movimento di resistenza islamica andava sfruttata. Hamas infatti era stato in grado di dilapidare, oltre ad enormi quantitativi di ricchezza, un altrettanto enorme quantità di capitale politico costruito nel tempo. In questo senso, nel corso degli ultimi anni, le alleanze regionali costruite dal movimento islamico palestinese erano andate via via destabilizzandosi, causando la suddetta debolezza.
Nel 2011 la leadership di Hamas, dopo aver dato il suo endorsement ufficiale ai ribelli anti-Assad in Siria2, lasciava Damasco, dove si trovava sotto l’ombrello protettivo del regime, sfilandosi dall’Asse della Resistenza, alla volta del Qatar, emirato in ascesa e finanziatore di un nuovo ordine regionale a guida Fratelli Musulmani.
Questo shift di Hamas ha danneggiato anche i suoi rapporti con l’Iran, vero alfiere dell’Asse della Resistenza, e fornitore di sistemi di armamenti e missilistici, nonché di flussi di denaro non indifferenti verso il movimento di resistenza islamica palestinese. Almeno fino al 20113.
Anche l’alleanza con il libanese Hezbollah, attraverso il quale transitavano molti degli assets iraniani diretti ad Hamas e grazie al quale il movimento palestinese era stato in grado di affinare le proprie tecniche militari, si sono deteriorate.
Contemporaneamente, mutate le congiunture regionali tra il 2011 e il 2013, il sogno di Hamas di un nuovo regional balance a guida dei Fratelli Musulmani, col supporto di Qatar, Turchia ed Egitto, si è allontanato: il piccolo emiro del Golfo é stato ridimensionato, nella sua politica estera, dall’Arabia Saudita e dal Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’Egitto é governato da un ex generale che ha fatto della lotta al “terrorismo” dei Fratelli Musulmani (e dunque anche di Hamas) la sua ragion d’essere. Sulla Turchia bisogna fare un discorse a sé stante: Ankara, pur essendo impantanata in molti problemi interni (affaire Gulen, accuse di corruzione al figlio di Erdogan), e dopo aver abbandonato la politica di “zero problemi coi vicini” targata Erdogan-Davutoglu, continua sul realismo delle sue posizioni, che sta facendo terra bruciata intorno a sè (sostegno indiretto ad Isis in chiave anti-kurda e anti-Assad). Terra bruciata che si fa sentire anche a livello regionale e internazionale, vedi ostilità saudita ed egiziana per appoggio turco a fratelli musulmani e bocciatura come membro non-permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. L’isolamento politico, che ha forzato la formazione palestinese ad una riconciliazione con Fatah ad aprile, è stato accompagnato da uno finanziario: si stima che la chiusura dei tunnel di fornitura provenienti dall’Egitto, portata avanti a tappe forzate da Al Sisi in accordo con Israele, abbiano privato Hamas di qualcosa come 20milioni di $ al mese.
É dunque una situazione di quasi-totale isolamento quella in cui versava la la leadership politica di Hamas nella situazione pre-conflitto. Lo stesso si può dire della Striscia di Gaza, che soffriva un blocco economico, dove gli unici due confini, Eretz e Rafah, erano controllati rispettivamente da Israele ed Egitto, e la marina militare con la stella di David pattugliava le coste: questa situazione andava a tutto detrimento della popolazione, il cui consenso verso Hamas scemava, sia a causa dello stesso embargo sia per alcuni casi di di corruzione e mala-gestione dei soldi pubblici. Vi erano attriti poi tra l’ala politica di Hamas, lontana dalle sofferenze di Gaza nel suo esilio dorato in Qatar, e l’ala militare, che si trovava sul campo ed era incline ad alzare il livello del conflitto, conscia che soltanto in tal modo si sarebbe potuto ottenere un miglioramento delle condizioni di vita nella Striscia. All’interno di questo quadro già complicato si inseriva il consenso eroso ad Hamas dalle altre formazioni combattenti, su tutte la Jihad Islamica, che godeva di un appoggio implicito egiziano, che la favoriva in un’ottica anti-Hamas4.
Non è dunque difficile capire che lo status-quo-ante-bellum faceva più comodo a Israele, e molto meno ad Hamas: di conseguenza, qualsiasi cosa che avesse potuto smuoverlo sarebbe andato più a vantaggio del movimento palestinese che dello stato ebraico.
É probabile che Netanyahu, al di là dei calcoli politici, sia stato trascinato nel conflitto volutamente da Hamas, che ha intensificato il lancio di razzi (in accordo con la Jihad Islamica e le altre forze della Resistenza) con l’obiettivo di scatenare un escalation attraverso la quale avrebbe potuto ottenere qualcosa, data la condizione pessima in cui versava antecedentemente. Hamas sicuramente, nella decisione di intensificare il lancio di razzi, ha reagito all’arresto massiccio di militanti e quadri in Cisgiordania, sospettati di essere in qualche modo coinvolti nel rapimento dei giovani israeliani, ma é fuor di dubbio che il movimento islamico puntava a smuovere lo status-quo per mettere fine e/o allentare all’isolamento economico di Gaza. Questa é stata d’altronde la richiesta fin dai primi colloquio da parte di Hamas.
Aspettative e realtà degli attori coinvolti dopo il conflitto
La situazione attuale sembra aver sovvertito le condizioni e le aspettative pre-conflitto degli attori in gioco.
Se l’obiettivo reale di Israele era quello di eliminare definitivamente la capacità di fuoco di Hamas, ebbene questo non è stato raggiunto. Ma le ragioni realiste dell’attacco a Gaza vanno invece ricercate nella volontà profonda della leadership israeliana di minare la possibile riconciliazione tra le fazioni palestinesi, eventualità che sembrava possibile dopo il mutuo accordo Fatah-Hamas (di certo non ben visto né da Israele né dall’Occidente) e la nascita del governo di unità nazionale della primavera scorsa.
Il paradosso è che lo stato ebraico, sceso in guerra con l’obiettivo politico di indebolire Hamas e la sua riconciliazione con Fatah, si è ritrovato a dover accettare delle condizioni che, in realtà, hanno avuto l’effetto di ribaltare almeno in parte i rapporti di forza iniziali. Ecco dunque che, mentre Netanyahu e il suo governo entravano in conflitto in una situazione in cui i rapporti materiali erano tutti a loro favore, e si aspettavano una resa incondizionata della controparte, che aveva nulla o poco più da giocarsi, oggi ha dovuto cedere a delle concessioni che mai si sarebbe aspettato all’inizio del conflitto (allentamento dell’embargo su Gaza e colloqui su costruzione porto ed aeroporto).
Sul piano militare infatti la distruzione dei tunnel e l’interruzione del lancio di razzi é stata solo parzialmente raggiunta, ma é su un piano politico che molti analisti militari riconoscono la sconfitta israeliana5.
La sola alternativa che poteva avere Israele alle concessioni ai palestinesi era un’invasione totale della Striscia di Gaza, che sarebbe costata la vita di centinaia di soldati e molti più dei 2 mila morti palestinesi, e Netanyahu sembra non aver avuto né la forza politica né l’appoggio dei militari né, soprattutto, l’alleato americano dalla sua parte per ordinare un’operazione del genere.
Questa “sconfitta” si farà sentire, a livello interno, in termini di voti: gli abitanti del sud stanno diventando un notevole gruppo di pressione che influirà pesantemente sull’andamento delle prossime elezioni. I sondaggi infatti parlano chiaro: se durante il conflitto, almeno nelle parti iniziali, la popolarità di Netanyahu sfiorava l’82%, dopo l’annuncio del cessate-il-fuoco il consenso é crollato al 38%6.
La tregua e il cessate-il-fuoco hanno, almeno parzialmente, riconosciuto la vittoria di Hamas e del fronte della Resistenza palestinese: allentamento dell’embargo su Gaza, spostamento da 3 a 6 miglia dalla costa entro il quale é consentita la pesca, possibilità di gestione e controllo sui confini da parte dell’ANP, future discussioni sulla costruzione di un porto ed aeroporto.
In sé e per sé l’operazione Protective edge, se ha distrutto una parte significativa dell’arsenale militare di Hamas, ha regalato un enorme consenso al movimento islamico e alle forze della resistenza palestinesi. Come infatti sottolinea molto bene una massima di Kissinger: “In un conflitto asimmetrico la guerriglia vince se non perde (nda: se non viene eliminata)…”.
Dopo l’annuncio della tregua le strade di Gaza sono diventate teatro di festeggiamenti da parte della popolazione, e i leader di Hamas hanno riconosciuto la tregua come una “vittoria della Resistenza”. Benché molte condizioni iniziali poste dal movimento per un cessate-il-fuoco non sono state prese in considerazione (apertura di un porto e di aeroporto, demilitarizzazione totale della costa), esse sono state inserite all’interno della tregua stessa come condizioni da discutere in futuro: é dunque stata anche la capacità di dettare l’agenda a Israele che ha determinato il crescente appoggio attuale al movimento islamico. Vari istituti di ricerca hanno rilevato come ci sia stato un forte spostamento dell’opinione pubblica della West Bank verso Hamas, mentre a Gaza il consenso verso il Movimento islamico di resistenza si è consolidato dopo il conflitto bellico contro Israele. Ma il vero dato sorprendente é quello che segnala la netta vittoria che Hamas otterrebbe alle prossime elezioni presidenziali: Hamas schiaccerebbe Abbas con un 61% contro un 32%7.
Dati questi ultimi che, ben oltre le concessioni israeliane, dimostrano come il movimento islamista abbia ottenuto la sua grande vittoria politicamente parlando: resistendo a cinquanta giorni di bombardamenti israeliani e mostrando una strategia militare affinata rispetto agli altri conflitti e in grado di tenere testa, in condizioni di asimmetria di forze, all’esercito israeliano, Hamas é tornato in gioco uscendo dall’isolamento. Proprio quello che non voleva Israele.
Nel campo palestinese, anche la figura di Abbas sembra uscita dal cono d’ombra in cui si trovava. É stato infatti il presidente dell’ANP che ha negoziato indirettamente con Israele per conto di Hamas, per mezzo del suo fedelissimo Azzam al Ahmad, ed è stato lui stesso a smussare il massimalismo di Hamas, facendogli accettare una tregua che per ben due volte aveva rifiutato. Ritornato sulla scena, Abbas ha concordato che saranno le forze dell’ANP a presidiare il valico di Rafah, il più importante accesso commerciale di Gaza al mondo arabo: un successo che significa il ritorno dei militanti di Fatah a Gaza dopo l’espulsione nel 2007.
Prospettiva che, da una parte, indica la volontà di collaborazione tra Fatah e Hamas in ottica di un governo di unità nazionale palestinese, come sancito dalla riconciliazione di aprile, ma, dall’altra, potrebbe creare tensioni e una nuova lotta per l’egemonia a Gaza tra i due attori politici.
È certamente da capire come si evolverà la situazione tra i due attori, e come Abbas sfrutterà uno dei pochi momenti di ribalta con la presenza di Fatah a Gaza. Egitto ed Israele gli demandano, neanche velatamente, di diventare l’argine al riarmo di Hamas e di mantenere la situazione stabile; e lo stesso Abbas, dopo aver criticato il movimento islamico e la sua strategia di tirare per le lunghe il conflitto, ha già messo in chiaro che a Gaza comanda il governo di unità nazionale guidato da Rami Hamdallah, che non sarà disposto a condividere il potere con il governo-ombra di Hamas sulla Striscia. A tale riguardo Abbas ha anche dichiarato la volontà di riportare le armi della Resistenza sotto il controllo dell’ANP, attirandosi le ire del movimento islamico.
Sembra dunque intenzione dell’ANP recuperare la sovranità perduta a Gaza dal 2007, anche nell’ottica di attirarsi il sostegno della comunità internazionale per una riapertura futura dello scenario negoziale. In questo senso, per bocca del suo portavoce Rabbo, Abbas sembra incline a volgere lo sguardo alle potenze mondiali rimaste fuori dal negoziato (Russia, Cina, UE) e alle Nazioni Unite per mediare un processo negoziale finora gestito in solitaria dagli Stati Uniti, veri assenti durante questo conflitto: la stessa mossa dell’ANP di voler denunciare Israele direttamente alla Corte Penale Internazionale rientra in questa strategia di rinvigorire il processo di pace attraverso l’inserimento di attori altri dagli Stati Uniti d’America, incapaci di forzare lo stato ebraico a prendere determinate decisioni.
Detto ciò sarà da vedere se queste aperture saranno veritiere, se dunque l’ANP avrà la forza politica per negoziare la fine dell’occupazione e la nascita di uno Stato di Palestina a Gaza e Cisgiordania, o se fanno parte di una strategia di Abbas per far uscire l’ANP dall’immobilismo generale. Infatti, nonostante le dichiarazioni, Abbas rimane un’ uomo dello status-quo, non preparato a prendere decisioni dolorose e impopolari, a cui preferisce il ruolo di amministratore dello stato di cose presenti8.
All’interno della situazione attuale e degli attori fin qui analizzati, Israele, Hamas e ANP, non si può prescindere dall’inserire protagonisti centrali come l’Egitto e i paesi arabi.
In primo luogo, come già ricordato, Egitto e Israele condividono, implicitamente, l’interesse a indebolire Hamas, ma é con l’avvento di Al Sisi al potere nel paese dei faraoni che questa strategia é stata implementata. Sisi é riuscito, col supporto saudita, nell’intento di marginalizzare Hamas nei negoziati e l’asse islamista che lo sosteneva (Turchia-Qatar), ma è anche stato in grado di estromettere dal tavolo negoziale un attore fino ad allora centrale, come gli Stati Uniti. Il segretario di Stato Kerry gli ha dato la legittimità internazionale per mediare un accordo, ma senza offrirgli nulla di tangibile in cambio, né armamenti né prestiti. Quando Kerry, dopo giorni di pressioni sull’Egitto, si è recato in Turchia e in Qatar per mediare un nuovo accordo di cessate-il-fuoco, non solo ha infastidito Sisi, Israele e l’ANP, ma anche l’Arabia Saudita e il Kuwait: comportandosi in tal modo Kerry ha di fatto delegittimato il ruolo della Turchia e del Qatar, e anche degli Stati Uniti stessi, che, nell’accordo finale, non hanno avuto alcun ruolo di intermediazione.
L’ambizione del presidente egiziano Sisi di eliminare politicamente (ma non solo..) la Fratellanza Musulmana dall’Egitto, e in generale da tutta la regione, ha di fatto rinforzato le relazioni col governo di Tel Aviv: esiste oggi dunque un asse politico-militare tra regimi autoritari arabi (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto) e Israele, asse la cui convergenza di interessi è volta a sradicare la presenza dei Fratelli Musulmani e delle loro emanazioni da tutta l’area medio-orientale.
Prospettive future
È proprio inserendo all’interno del contesto regionale la situazione conflittuale tra Hamas e Israele che si possono cogliere alcuni aspetti fondamentali per comprendere quello che potrebbe avvenire in futuro.
Israele ha il consenso, implicito, dell’asse Saud-Sisi-Emirati Arabi nella sua lotta contro Hamas, ha relazioni durature con la Turchia, e interessi comuni, nonché relazioni nascoste, con il Consiglio di Cooperazione del Golfo, con cui condivide l’avversione verso un Iran nucleare: esiste dunque una convergenza d’interessi tra lo stato ebraico e le potenze arabe e non, che, di fatto, si sono sottratte al balance-of-power del conflitto israelo-palestinese, riconoscendo implicitamente l’esistenza dello stato ebraico stesso.
Ma Israele, nonostante queste nuove convergenze regionali, sa che la sua attuale strategia-no al tavolo negoziale con Hamas, nessuno stato palestinese ad ovest del Giordano e uso della forza-é quella di un conflitto inevitabilmente prolungato. L’uso della forza non é destinato a raggiungere nessun obiettivo politico tangibile-l’eliminazione di Hamas su tutti-ma rientra piuttosto in una strategia a lungo termine volta a ristabilire periodicamente la deterrenza, in gergo militare “mown the lawn (tosare l’erba)”, che garantisce temporanei periodi di quiete lungo il confine con Gaza.
In questo senso in Israele, e nella sua opinione pubblica sempre più spostata a destra, si scontrano attualmente due prospettive. La prima é quella di Netanyahu e di buona parte del Likud e dell’establishment militare: una continua guerra di logoramento contro Hamas, un uso della forza in modo intermittente, una colonizzazione della West Bank fatta di continue annessioni di terra ed espropriazioni a danno dei palestinesi, un vacuo processo di pace per temporeggiare, una movimento palestinese diviso tra Gaza e Cisgiordania. Insomma la difesa dello status-quo. Esemplificativa sembra essere le parole dell ministro della difesa Moshe Yalon ad un quotidiano israeliano9: “non stiamo cercando una soluzione al conflitto (la creazione dello Stato palestinese, nda) ma un modo per gestire il conflitto che sia funzionale ai nostri interessi (una qualche forma di autonomia sotto controllo israeliano, nda).
Il secondo fronte invece é quello degli annessionisti, vicini alle posizioni del ministro dell’economia Naftali Bennett e dei coloni più oltranzisti del movimento Gush Emunim: questi reclamano l’annessione formale della Cisgiordania sotto controllo israeliano (Area C), la cessione delle zone sotto controllo dell’ANP alla Giordania e la creazione di una zona cuscinetto che penetri in profondità a Gaza. Nonostante i dissapori sulla conduzione della guerra da parte di questo ultimo fronte, gli screzi sembrano oggi appianatisi dopo la decisione dell’autorità militare israeliana di dichiarare terre demaniali, e dunque edificabili per essere colonizzate, 400 ettari tra Hebron e Betlemme: un nuovo step verso la politica dei fatti compiuti contro la prospettiva della nascita di uno Stato palestinese con una continuità territoriale10.
Nel campo palestinese, se, come detto, Hamas é tornato in gioco, é in generale tutto il movimento di Resistenza che ha ottenuto una legittimazione popolare molto forte, nonostante l’alto tasso di vittime civili.
Consenso che si é manifestato in grandi dimostrazioni popolari non solamente a Gaza, ma anche e soprattutto in quella West Bank governata dall’ANP, dove é stata contestata pesantemente sia il ruolo dell’ANP di braccio armato di Israele nel portare avanti la repressione contro i militanti sia l’immobilismo della sua politica, incapace di ottenere reali concessioni che alterassero in positivo il tenore di vita della popolazione (basti pensare alla questione relativa ai prigionieri politici palestinesi: Abbas é riuscito, nei mesi precedenti al conflitto, ad ottenere la liberazione di solamente poche decine, Hamas, con il rapimento del soldato Gilad Shalit, migliaia).
Manifestazioni altamente partecipate ci sono state anche nella zona araba di Gerusalemme, con scontri e feriti che non si vedevano dalla seconda Intifada11. In questa situazione di sommovimento, l’ANP, forte dell’appoggio arabo (Egitto e Arabia Saudita su tutti) e internazionale, sembrava voler giocare l’ultima carta rimasta, ossia il ricorso contro Israele per crimini di Guerra alla Corte Penale Internazionale: ma il presidente Abbas ha finora bloccato questa iniziativa, timoroso che la ratifica del CPI possa far fallire l’intero processo di pace.
Il dato certo é che il dialogo ANP-Hamas va avanti, e pure il governo di unità nazionale, nonostante il boicottaggio internazionale di quest’ultimo: governo Hamdallah (composto da tecnocrati sostenuti sia da Hamas che da Fatah) che, è bene ricordarlo, riconosce i precedenti accordi e l’esistenza di Israele.Ma é anche all’interno della società palestinese che il dibattito continua, anche grazie anche all’intermediazione di forze non facenti parte né all’uno né all’altro campo, dove think tank indipendenti e forum del dialogo nazionale sembrano aver rivitalizzato settori della società civile esclusi o marginalizzati fino ad oggi.
I sondaggi attuali riflettono il pensiero comune di molti palestinesi (la maggioranza), abitanti in Cisgiordania, ma anche della diaspora, sulle scelte che in futuro la leadership dovrà prendere: rifiuto dei negoziati bilaterali, carta comune della resistenza, convocazione di una conferenza internazionale, sospensione della cooperazione sulla sicurezza tra ANP e Israele, non applicazione del trattato di Parigi, ratifica del CPI12.
In questo contesto di vitalità della società palestinese, Abbas appare isolato e le convergenze regionali, e internazionali, non sembrano aiutarlo: i sauditi sembrano più impegnati a contenere l’Iran, Sisi ha il suo da fare contro la Fratellanza in Egitto e gli Stati Uniti hanno gli occhi puntati su ISIS tra Iraq e Siria, mentre l’Europa é occupata con la Russia per la questione Ucraina.
Di favorevole ad Abbas in questo momento sembra esserci solamente la mancanza di un soggetto politico di ricomposizione della differenti soggettività della società palestinese, che sia in grado di far convergere, dietro la bandiera della Resistenza e con una piattaforma comune, affinità e velleità divergenti nell’ottica della costruzione dello stato palestinese e della lotta contro Israele: ciò fa di lui, ad oggi, il solo ed unico rappresentante globalmente accettato dei palestinesi, ma non dai palestinesi.
Il fronte palestinese é dunque spaccato, con un Abbas delegittimato, e un Hamas non certo disposto ad aiutarlo, almeno finché alle parole non faccia seguire i fatti. In questo senso un aiuto all’unità della causa palestinese, e alla debolezza politica di Abbas, sembra essere il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte di alcuni stati dell’Unione Europea, come Svezia e Inghilterra su tutti. Il seguito di questa mossa diplomatica, se accompagnata da una risoluzione ONU che demandi la fine dell’occupazione israeliana e sancisca l’indipendenza della Palestina (dopo il riconoscimento della Palestina come “Stato membro non osservatore” nel novembre 2012) porterebbe Israele a essere coinvolto in un conflitto contro uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale, con tutte le conseguenze del caso.
All’interno di questa cornice, dove si inseriscono le continue rotture alla tregua da parte israeliana13, si è tenuta la conferenza per la ricostruzione di Gaza: fondi per 5,4 miliardi di $ sono stati garantiti dai vari donors internazionali, oltrepassando la cifra richiesta dell’ANP di 4 miliardi. Anche qui si è ancora una volta palesato la perpetuazione del dominio israeliano sulla vita dei palestinesi e sulla loro autodeterminazione. Tra monopolio, dumping ed embargo, Israele ha ottenuto il controllo dei flussi finanziari e dei materiali che dovrebbero essere diretti alla ricostruzione di Gaza, incentivando in questo modo quella che lo studioso Jeff Halper chiama la “matrice di controllo”, ovverosia un labirinto di leggi, ordini militari, procedure di pianificazione, limitazioni alla libertà di spostamento, controllo dei flussi finanziari, insediamenti ed infrastrutture che, dietro la facciata delle politiche di sicurezza contro il “terrorismo”, nascondono il controllo israeliano sui palestinesi e sulle loro vite. Per concludere, la ricostruzione di Gaza, se non contemplerà una più ampia messa in discussione del blocco a cui é sottoposta la Striscia, e se non porterà cambiamenti repentini nel tenore di vita dei palestinesi, risulterà essere l’ennesima farsa, volta a perpetuare lo status-quo.
NOTE:
1Gli ideali “pragmatici” attuali del movimento non sembrano oggi espressi nello Statuto fondativo del 1988, ma nel programma elettorale con cui Hamas vinse le elezioni del 2006, in cui si esplicita l’accettazione di uno Stato di Palestina su Cisgiordania e Gaza, con Gerusalemme capitale
http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4565550,00.html
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