La lotta per la casa è contro il debito
La lotta per la casa è contro il debito
Intervista ad ADA COLAU (Plataforma de Afectados por la Hipoteca) – di ANNA CURCIO e LOTTA TENHUNEN
Che cos’è e come nasce la Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH)?
La PAH è nata all’inizio come esperienza molto contenuta di un piccolo gruppo di persone a Barcellona nel febbraio 2009 e – poco più di quattro anni dopo – annovera 180 nodi in tutto lo stato. La Catalogna è la regione in cui si è più consolidata, qui comincia il movimento, e registriamo più di 60 nodi. Ci organizziamo mediante strumenti assembleari locali dotati di forte autonomia ma animati dalla condivisione di alcuni criteri minimi, di istanze e campagne, abbiamo un coordinamento attraverso internet e incontri periodici sia regionali che statali. Alcune campagne sono di dimensione ampia, nazionale, poi ogni nodo è organizzato a livello locale in base alle realtà e alle esigenze specifiche.
La PAH nasce dunque come esperienza di cittadinanza autorganizzata per la difesa e la conquista del diritto alla casa. La PAH in realtà pone l’accento su una situazione di emergenza abitativa di grande sofferenza. Con l’esplosione della bolla immobiliare migliaia di pignoramenti e sfratti si sono abbattuti sulle famiglie nell’Unione Europea; non abbiamo in verità concepito la PAH in prima istanza per dare una risposta a tale emergenza, benché sia anche quello, quanto per cogliere l’occasione – col fallimento della promessa legata alla bolla immobiliare – di mostrare come in uno scenario simile tutti noi possiamo uscirne vincitori. In qualche modo l’esplosione della bolla ha indotto a distruggere l’illusione – soprattutto a sinistra – di quella che è stata nei fatti una truffa colossale, generalizzata, mettendo al contempo in discussione il modello che ci ha portati fino a questo punto. In particolare sulla questione degli alloggi la promessa è stata che l’accesso a un alloggio attraverso il mercato privato e la proprietà fossero l’investimento migliore, il modo più sicuro per accedere a una casa; lo scoppio della bolla ha evidenziato un meccanismo malato, in cui i soliti hanno tratto profitto e i più hanno perso. Di fronte a questa situazione la PAH ricerca meccanismi per affrontare la contingenza, gli sfratti, i debiti perpetui, e problematizza il modello sotteso alla mercificazione dei corpi. Ancora, richiede una politica pubblica che garantisca il diritto alla casa, dando la priorità alla funzione sociale dell’abitare prima che alla risorsa speculativa. Per fare questo la PAH si declina in differenti percorsi. Un’istanza di reclamo e di advocacy politica, ma anche di autotutela dei diritti, vale a dire che di fronte a uno Stato che ha fallito la propria missione di garanzia, che non può rispondere alle esigenze della cittadinanza, si devono trovare i meccanismi per salvaguardare i nostri diritti, in questo caso il diritto alla casa. Lo facciamo attraverso la negoziazione “coatta” con le istituzioni finanziarie, disobbedendo alle norme inique e fermando gli sfratti. E ora, anche recuperando le migliaia di case sfitte o vacanti in mano alle banche.
Con questi diversi livelli di lotta non solo poniamo l’accento sul tema, ma ricerchiamo anche meccanismi di autogoverno dei nostri diritti: non ci limitiamo al piano della rivendicazione, la pratichiamo.
Si è detto che la PAH, come movimento sociale, sia immediatamente costituente nelle proprie pratiche. Cosa significa concretamente? Attraverso le pratiche di lotta contro l’attuale scenario, rivendicando diritti e risorse, proponendo alternative e riappropriandosi della ricchezza comune, state costruendo nuova istituzionalità?
Di fronte al fallimento istituzionale, la cittadinanza vede la necessità di organizzarsi per soddisfare le necessità, per rendere effettivi i diritti. Una delle questioni centrali per la sussistenza – la casa – parte dal presupposto che questa non sia una merce qualsiasi, ma una condizione necessaria ad una progettualità futura. Come individui non siamo in grado di rivolgere lo sguardo al domani in assenza della garanzia di uno spazio minimo, nostro. Poi, di fronte a uno Stato insolvente – che ha prodotto migliaia di alloggi vuoti, mentre migliaia di famiglie continuano a essere sfrattate e qualsiasi rimostranza formale non funziona perché l’istituzione risponde a interessi e privilegi di una minoranza ledendo così la maggioranza – la necessità è di darsi forma in organizzazioni dal basso per rispondere ai bisogni. Le pratiche sono naturalmente differenti, partendo dal presupposto che c’è un problema di volontà politica e che una soluzione è perfettamente fattibile: uno dei paradossi è che se qualcosa davvero manca in termini di risorse materiali nell’Unione Europea non sono gli immobili. Crolla pertanto la retorica della scarsità di mezzi: l’austerità non ha alcun senso, è priva di credibilità. Ci sono milioni di abitazioni vuote, che peraltro andando a male per il mancato uso passano dalla condizione di risorsa (comunque intesa) a quella di problema. Quindi si tratta di assegnare queste case restituendole alla loro funzione sociale, cosa che il pubblico non fa. Siamo noi a pianificarne il recupero in diverse modalità: interloquendo dapprima con l’amministrazione comunale (che di solito non risponde), fermando gli sfratti, riprendendoci gli alloggi sfitti per dare risposte alle urgenze. Lo pratichiamo mediante intervento diretto sugli immobili e parallelamente attraverso lo strumento assembleare, nella comunità che si crea, che si basa sulla PAH. Molte persone si riferiscono alla PAH come a una seconda famiglia, perché in questa grande famiglia si sono attivati meccanismi di risposta a molti differenti bisogni – alimentari, per esempio – come anche la cura di anziani e bambini.
Intorno all’emergenza abitativa si sta strutturando una piccola istituzione informale in grado di rispondere a ogni esigenza che la quotidianità presenta.
Quando questa istituzione viene presentata come una minaccia per l’attuale sistema di governance politica e finanziaria spagnolo, per nulla interessato al confronto e alla risposta autorganizzata ai bisogni, come si pensa di superare questo ostacolo, chiamato in Spagna “stallo istituzionale”? Con quali referenti interloquite, per quali particolari ambiti e come?
In Spagna viviamo in una democrazia formale, apparente, tuttavia sin dal principio la PAH si è fissata il compito di praticare in prima battuta tutte le vie istituzionali possibili. Ecco perché inoltriamo proposte legislative, che vengono sistematicamente bloccate in sede parlamentare dai partiti di maggioranza, tanto dai deputati popolari quanto da quelli socialisti: le coalizioni di governo, di destra o sinistra che siano, votano sistematicamente contro le istanze di sostegno al reddito e obbediscono sempre ai dettami del potere finanziario ed economico globale. Quindi, rispetto a tale blocco istituzionale la PAH continua a battere tutte le piste a livello locale, regionale e statale, interloquendo con i servizi sociali, con l’istituto per le case popolari, inoltrando richieste formali in tribunale: si pone instancabilmente quale soggetto che per sua stessa evidenza denuncia che viviamo in una democrazia “sequestrata”, che chi detta le regole anche in questo paese è un potere finanziario internazionale che travalica i confini statali e su cui non è possibile esercitare il diritto di scelta ogni quattro anni. È anti-democratico, opaco, speculativo, l’unico obbiettivo è massimizzare il profitto a breve termine, anche se questo comporta la sofferenza – quando non la morte – di migliaia di persone. Questo potere criminale oggi amministra in totale accordo con i partiti di maggioranza, che occupano dal canto loro una posizione debitoria rispetto al capitale finanziario – a cui sì che concedono vantaggi invece che alle famiglie! Stiamo parlando di un sistema istituzionale strutturalmente corrotto, al di là dei casi specifici esso risponde sempre alle esigenze di un gruppo minoritario che non corrisponde a più dell’1%, non è espresso da un’elezione democratica e suo unico interesse è l’autopreservazione. Da questo Stato collassato, da questa democrazia sotto ricatto, da questa istituzione profondamente compromessa, si devono riuscire a estrarre dispositivi di autotutela; però, perché questi possano consolidarsi e dettare il passo verso un processo di democrazia reale in cui davvero decideremo del nostro futuro e della nostra vita, è necessario spazzare via questi simulacri istituzionali. Dobbiamo dunque destituire questo esercizio corrotto di potere, e in questo senso ogni movimento sociale – inclusa la PAH – deve avere imprescindibilmente un’attitudine destituente. È necessario isolare i criminali, dobbiamo sconfiggere la corruzione politica dilagante quanto quella delle istituzioni finanziarie, perché ora il paradosso è che affrontiamo una truffa chiamata crisi in cui i responsabili delle politiche economiche hanno affondato il paese, non solo defraudando coloro che avevano avuto accesso a un mutuo: l’intero modello collassa per l’agire corrotto e le politiche criminali con cui si declinano le decisioni di vertice, tanto ministeriali quanto delle imprese. Ci vincolano alle loro prassi, incolpano le vittime che essi stessi producono; in effetti quello che fanno è continuare a saccheggiare, a mantenere la politica dei tagli alle risorse a sostegno ulteriore dei propri interessi. Quando bonificheremo dalla corruzione il potere economico e politico, solo allora inizieremo una vera transizione verso la democrazia che vogliamo conquistare. Questo è un passaggio imprescindibile.
Per raggiungere questo traguardo di “democrazia reale” si parla di attivare un processo costituente, se ne discute molto sia a livello nazionale che europeo. Quali sono le principali questioni su cui la PAH può dare un contributo, dalle analisi alle pratiche quotidiane?
Sia la PAH che qualsiasi altro movimento attivo nell’Unione Europea ha molto chiara la necessità di agire su un duplice fronte, ovvero la battaglia alla corruzione istituzionale da un lato e la costruzione di una democrazia reale che, per non venire meno al proprio portato di “realtà”, deve realizzarsi tra tutte e tutti. E dal momento che non siamo stati formati a questo, il compito non sarà affatto facile perché non abbiamo ricevuto gli strumenti. Quindi il passo successivo sarà quello di creare scuole di autoformazione e di esercizio della democrazia che intendiamo costruire. Non credo che la democrazia reale la costruiremo da un giorno all’altro con una pratica ‘classica’, con la presa della Bastiglia per intenderci, cioè prendiamo i criminali e otteniamo il potere. Abbiamo imparato che si tratta di un processo, un progetto a lungo termine da costruirsi nel quotidiano, commettendo errori, mancando gli obbiettivi, imparando. In questo senso credo che la PAH possa definirsi un processo costituente, quotidiano e progressivo, intessuto delle piccole conquiste che realizzano ad esempio il conferimento/la restituzione di strumenti di welfare. Ognuno è il protagonista del cambiamento, naturalmente con gli altri, con la solidarietà, di per sé rigenerante, e intervenendo sull’immaginario collettivo, rispetto al discorso su paura, minaccia, individualismo, competitività, diffidenza, tutti valori che hanno alimentato il neoliberismo in quanto perfettamente funzionali al modello economico. Questo modello è ora da reinventare, per rovesciare il lessico e iniziare a parlare di solidarietà, di affrancamento dalla paura, del fatto che le cose possano davvero essere molto diverse, ma non da soli. Quindi non c’è da immaginare un momento specifico in cui per esempio vincere le elezioni con un nuovo partito: per avere una nuova democrazia reale la si deve cominciare a costruire giorno per giorno. Una delle esperienze che possono contribuire a questo disegno è la PAH. Strumenti interessanti in una visione di lungo periodo sono frutto di quel processo che stiamo agendo; siamo convinti che ci sia un problema di modello generale, un modello capitalista affetto da mancanza di democrazia e mercificazione dei diritti, abbiamo pertanto deciso di attivare pratiche di breve e medio oltre che di lungo termine, costruite collettivamente. Ciò consente di raggiungere obiettivi, rivendicare diritti quotidianamente e dare risposte alle urgenze comuni, dimostrando l’efficacia della mobilitazione, che ci serve e ci incoraggia a proseguire sul percorso segnato nel fissare traguardi sempre più ambiziosi. Insieme alla strategia di empowerment, in cui tutti si possono formare con l’aiuto degli altri per vincere come singolarità, esercitare i propri diritti ed essere protagonisti della trasformazione secondo le possibilità di ciascuno – a partire dalla propria posizione lavorativa o di non lavoro, dalla condizione di vita – si sta intessendo una comunità che suggerisce e proietta lo scenario di quanto potrebbe essere organizzato diversamente. Resta chiaro che abbiamo molto da imparare, abbiamo un lungo cammino da affrontare. Non dobbiamo vivere con ansia quanto ci attende, un processo per essere reale deve sedimentare. Un processo di costruzione di nuovo paradigma non è infatti qualcosa che la storia abbia mai visto da un giorno all’altro, potrebbero passare anche decenni, però… che opportunità magnifica che tutti noi si condivida ed impari nel mentre!
L’esperienza della PAH sta producendo qualche trasformazione nello spazio urbano, nelle destinazioni d’uso dei luoghi, in particolare nel rapporto tra abitanti e città?
Direi di no, a meno di non ragionare sull’impatto in processi più grandi, come la lotta contro la gentrification, alla quale abbiamo dedicato molto tempo e che ha cambiato fortemente il volto delle aree centrali, più di quanto non abbia fatto per esempio un’occupazione nel Raval [quartiere di Barcellona, n.d.t.]; abbiamo passato decenni a occupare edifici e residenze, in questo non c’è una novità. Tuttavia, è cambiata la composizione: questi eventi s’inseriscono in un quadro di disobbedienza generalizzata, legata non solo a una condizione specifica – quale quella degli studenti universitari, per dirne una – ma a intere famiglie che stanno massicciamente cominciando a occupare. Quando abbiamo iniziato, sollevando la questione dei mutui, una cosa che abbiamo asserito fermamente è che la città neoliberista aveva distrutto tutti i vecchi legami di prossimità, dalla comunità al quartiere, e che ciò rendeva più difficile l’avvio di una mobilitazione. Di fatto il modello di proprietà instaurato – pensate che nel 2006 il 90% della popolazione aveva accesso all’abitazione solo attraverso la proprietà privata – non corrispondeva a un effettivo potere d’acquisto, il che si è tradotto in un sovra-indebitamento e nel meccanismo dei mutui, con tutto quello che tale modello aggressivo e proprietario ha comportato anche sul piano culturale, cambiando rapidamente le attitudini. Le persone vivono molto più appartate, rifuggono la dimensione di comunità, i prezzi che non hanno accennato a scendere durante la bolla hanno determinato una mobilità forzosa, quando scoppierà affronteremo un’altissima conflittualità individualista, azioni individuali in una città in cui vivono centinaia di migliaia di persone, più sole che mai. “Perderemo la casa, che vergogna!”: in una società come la nostra, dove la povertà è stigmatizzata, il sentimento comune è l’imbarazzo, il senso di colpa, l’estremo isolamento, e il modello proprietario unitamente allo stile dell’abitazione individuale ne magnificano l’effetto. Uno dei principali ostacoli è stato confrontarsi con una città in cui a prima vista tanta gente vive insieme e tuttavia resta distante, chi appartiene ancora a contesti rurali vive legami di comunità più di quanto non avvenga in alcuni quartieri urbani. Rendere evidente il conflitto, cominciare a tessere reti è un compito titanico. Abbiamo iniziato, ma abbiamo ancora molto da fare, il tessuto dei rioni consolidati, la loro eredità sociale sono stati spazzati via. Quello che ha fatto la PAH resta ancora una goccia nel mare.
Da quello che dici però possiamo parlare di un processo di politicizzazione e una pratica collettiva di quello che viene chiamato il “diritto alla città”…
Quando abbiamo creato la PAH nel 2009, all’inizio della crisi, venivamo dalla precedente esperienza di lotta per il diritto alla casa, edotti sulla truffa dei mutui, con cui il corpo sociale era stato massicciamente ingannato attraverso la favola raccontata da Stato e banche secondo cui l’alloggio sarebbe stato il migliore e più sicuro investimento. Al collasso di questo scenario abbiamo avuto chiaro che di fronte a noi avremmo trovato una moltitudine di persone interessate e arrabbiate in quanto vittime della frode. E su questo corpo sociale abbiamo cominciato a lavorare, puntando a mobilitarlo e denunciando la responsabilità delle banche e del potere politico. Il nucleo “storico” della PAH, pur capace di intuire gli scenari che si sarebbero aperti, ha fronteggiato un problema più grande anche di come lo si fosse prefigurato. Si era consapevoli che le persone fossero furiose, ma ai nostri primi incontri hanno cominciato a sfilare decine di persone aggredite dai mutui e tartassate dalla condizione di insolvenza, che sembravano depresse e arrese. Questi, originariamente sconosciuti per noi e tra loro, non solidarizzavano generalmente con un’istanza nella prospettiva di poterne presto o tardi essere coinvolti, ne erano già immersi, direttamente colpiti: donne e uomini ammutoliti dallo sconforto, nemmeno in grado di spiegare quello che stava accadendo loro, fin quando – rovesciato il “vuoto” – non hanno iniziato ad aprirsi, sciogliendosi in lacrime. Hanno parlato di depressione, ansia, tentativi di suicidio, sensi di colpa, vergogna: erano meno preoccupati di perdere la casa che non di cosa ne avrebbero pensato i vicini o la propria famiglia. Improvvisamente ci siamo resi conto che, anche se eravamo consapevoli di accingerci ad una lotta contro il potere forte per eccellenza come le istituzioni finanziarie e che sarebbe stata dura, Davide contro Golia, avremmo dovuto confrontarci con un nemico “interno”, più potente, capace di attraversarci tutti e che avevamo sottovalutato. Dovevamo reagire alla solitudine e ciò che abbiamo tentato è stata la costruzione di spazi collettivi d’esperienza condivisa. Al di là di quanto si potrebbe spiegare verbalmente (che quella che stiamo vivendo è una situazione strutturale, sistemica, che non siamo noi responsabili, ecc.), poi si torna a casa, da soli di nuovo, e si deve affrontare i problemi della sussistenza: dar da mangiare ai propri figli, la paura di perdere la casa, la prospettiva di rimanere per strada.
I discorsi hanno poca capacità d’intervento. Gli spazi d’esperienza condivisa, diversamente, costruiscono contesti in cui ciascuno sperimenta le emozioni di ciò che vive e finalmente riesce a liberarsi dal “vizio” di ritenerlo una colpa individuale: il fatto, per esempio, di avere un supporto collettivo e non individuale, in cui centinaia di persone sono venute da principio alle riunioni convinte che la propria fosse una storia diversa, speciale, più complicata, più imbarazzante di quella di altri, il sedersi e iniziare l’ascolto di vicende identiche, ha immediatamente avuto un effetto terapeutico, in cui ognuno si è reso conto di quanto un problema fosse “il” problema, collettivo, al di là del singolo. Tale strategia di mutua assistenza ha consentito da un lato l’apertura su temi ritenuti fino a quel momento imbarazzanti e individuali – restituendone la scala sociale e le caratteristiche strutturali – dall’altro ha anche permesso autoformazione e consapevolezza che uniti siamo capaci molto più di quanto vorrebbero farci credere. Ancora, che se le varie istanze vengono spiegate in modo comprensibile, non è necessario delegare un avvocato, ma da te, per te, puoi affrontare l’istituzione finanziaria, soprattutto se disponi di compagni che possano sostenerti. Ciò responsabilizza singolarmente, forma a condividere esperienze, strategie di negoziazione con le banche, modelli per formalizzare ricorsi presso i tribunali. Chiunque è così in grado di difendersi senza delegare. Siamo stati molto più forti di prima, anche perché abbiamo potuto agire sostenendoci mutualmente. E saremo inarrestabili. Questo spiega perché poco più di quattro anni fa, quando la PAH ha iniziato, nessuno sapeva che cosa fosse un “pagamento in natura”, nessuno poteva immaginare di opporsi ad uno sfratto, le persone colpite dalla bolla dei mutui erano fortemente colpevolizzate, non solo messe in ginocchio dalla politica e dal potere finanziario, ma socialmente stigmatizzate; quattro anni dopo, abbiamo accumulato piccole e grandi vittorie, migliaia di persone hanno affrontato i propri contenziosi e li hanno risolti, hanno dimostrato che è possibile: se non ci arrendiamo, se ci organizziamo e perseveriamo, con il supporto di tanti si possono fermare le banche, si può lottare, possiamo fermare gli sfratti in massa, costringere le banche a negoziare, e così via. Poi, la costruzione di soggettività collettiva improvvisamente ci rende consapevoli del fatto che, contrariamente a ciò che ci hanno sempre raccontato, abbiamo un potere infinito e non ci resta che esplorarlo.
Come affrontate il rapporto tra la pratica di lotta e la partecipazione? Come si fa a lavorare con i temi della paura, dei processi di colpevolizzazione, del corpo?
Credo che la PAH abbia raggiunto un massiccio potenziale di lotta, persone che non si sarebbero registrate nella circostanza di una semplice assemblea hanno attraversato un rapido processo di politicizzazione, in cui si partecipa da principio alle assemblee, alle azioni contro le banche, e velocemente si cresce opponendosi agli sfratti, occupando case sfitte. È diventato un processo molto rapido, determinato dalla necessità, perché è dirimente affrontare i problemi concreti e difendere noi e le nostre case per non rimanere in strada, ma anche dal fatto che la PAH fa propria una narrazione della realtà, della consequenzialità del fare, sostenuta dal buon senso. Ciò che la PAH pratica è un’esplorazione di tutte le vie possibili, in modo sistematico e razionale, interpella tutti gli attori sociali, le pubbliche amministrazioni, le banche, i tribunali; una volta esaurite tutte queste opzioni, è ovvio che non ci sia altra via che la disobbedienza per forzare il cambiamento. In questo modo non occorre persuadere le persone a disobbedire, lo intendono da sole quale sia la via per difendere un diritto fondamentale.
Come valutate l’efficacia del lavoro svolto se rapportato alle cause strutturali dei problemi che affrontate?
La PAH sin dall’inizio non nasce esclusivamente per rispondere a una situazione d’emergenza, ma perché si è identificato che il cuore della bolla risiede nel settore immobiliare-finanziario responsabile del disastro dell’ultima fase del neoliberismo, nel nostro paese e su scala internazionale. In qualche modo, il conflitto che diventa visibile con le azioni delle PAH quando per esempio ci si oppone a uno sfratto, chiaramente e crudamente investe la vita intera delle persone, impattando con un’economia di tipo speculativo che pontifica sui destini singolari dei più, voltando le spalle alle vite concrete. Quindi, quando da una parte ci sono le nostre vite e dall’altra il modello finanziario-speculativo, fai i conti con due mondi che non possono non confliggere.
Qual è il rapporto tra PAH e il 15-M?
L’incontro tra la PAH e il 15-M è stata una sintesi perfetta. La PAH è nata due anni prima del 15-M, le campagne erano ben definite, le proposte di legge anche, nel novembre 2010 avevamo iniziato la campagna di lotta per fermare gli sfratti, sei mesi prima del 15-M, ne avevamo già fermati 60.
Ma proprio allora la PAH ha avuto una battuta d’arresto, in quanto il successo di un simile dispositivo passa per la capacità di riprodursi capillarmente, territorialmente. Trattare un problema così complesso come quello della perdita della casa, in particolare contrastare gli sfratti, significa all’atto pratico trovarsi alle prime ore della mattina davanti a un determinato luogo e presidiarlo per tutto il giorno. È una cosa che devono fare i vicini e le persone più prossime, mentre il primo sgombero che abbiamo fermato è stato in un paese catalano a più di un’ora di distanza da Barcellona, all’epoca c’era solo il nodo di Barcellona, che ha dovuto noleggiare un autobus per intervenire in massa. Ma questa non è evidentemente sostenibile come lotta che possa aumentare di scala, perché non si può fare spedizioni via bus su tutto il territorio per fermare gli sfratti! Proprio nel momento in cui necessitavamo di risorse per un salto di scala, arriva il 15-M e tutto suona tondo, dato che dopo l’esplosione di indignazione, di malessere e di reciproco riconoscimento, dei “siamo più di quanto avremmo pensato” e di “occupiamo un spazio pubblico”, il 15-M si declina più concretamente: “ora che siamo qui con la nostra forza e la nostra allegria, che facciamo?”. Cominciano così a nascere assemblee di quartiere, e il movimento incorpora in questa esperienza anche il lavoro sviluppato dalla PAH, cioè tutta la produzione di analisi politiche, finanziarie, proposte di legge, campagne di lotta come “Stop Desahucios” (Stop agli sfratti), è un lavoro che si inserisce perfettamente nel 15-M. Non abbiamo quindi dovuto “rivenderlo” a nessuno degli appuntamenti del 15-M perché è stato incorporato naturalmente e avidamente, come acqua agli assetati, si riproduce e si moltiplica: quello di cui esattamente la PAH aveva bisogno era espandersi territorialmente per essere davvero un dispositivo di lotta di massa e capillare. Di fatto, quindi, la crescita esponenziale della PAH parte da quando si diffondono oltre la Catalogna le assemblee del 15-M.
Che suggerimento daresti a qualsiasi collettivo politico per ottenere che non siano solo i militanti che vanno a fermare uno sfratto, ma che le persone tutte si rendano conto che si tratta di un problema comune?
Dovete immaginare che la PAH si costituisce quando il 15-M non esiste, che dobbiamo quindi operare creativamente per raggiungere le persone. Una cosa che abbiamo fatto è stata andare in luoghi in cui pensavamo di poter incontrare i grandi numeri. Quando abbiamo iniziato abbiamo fatto tesoro di alcune premesse che ci provenivano dalla precedente esperienza di V de Vivienda, ossia fare politica per le persone, non per proseliti. Desideravamo cambiare le condizioni di vita, per fare questo devi essere capace di lavorare “a porte aperte”. Per questo fare i manifesti di sempre e affiggerli nei luoghi di sempre non serve, devi andare dove si trovano i tuoi interlocutori. Devi andare negli uffici dell’INEM [Collocamento, n.d.t.], ai servizi sociali, ed in questo modo raggiungi una quantità di soggetti che finora non sei stato in grado di toccare. Importante è poi il linguaggio che ritieni di utilizzare. Penso alle troppe esperienze di movimento autoreferenziali, capaci di produrre sì degli importanti esiti teorici ma che – senza un’opportuna riflessione sul lessico – rischiano di essere vane. Non si può aspettare che le persone fuori dagli ambiti abituali di militanza prendano confidenza con la tua lingua, è vero invece il contrario: devi prestare attenzione al lessico ordinario. Un altro fattore fondamentale per la PAH, per la connessione con la maggioranza sociale, è stata la strategia di comunicazione, concretamente attraverso media mainstream. Su questo misuriamo una notevole distanza dal 15-M, notoriamente riluttante a lavorare con i media; la PAH, al contrario, dal primo giorno ha avuto molto chiaro che viviamo in una società mediatica. Allora si può essere critici in merito, e noi lo siamo, denunciamo i media mainstream in quanto aziende attraversate dagli stessi interessi e governate dagli stessi poteri che dominano l’ambito politico ed economico, ma nonostante ciò prendiamo atto che la maggioranza della popolazione continua ad accedere alle narrazioni della realtà attraverso quei media. Intercettarli resta quindi importante. Poi, riconoscendola una strategia imperfetta, in grado di generare conflitto e disagio, abbiamo cercato modi per declinarla più efficacemente, senza tradirci in alcun modo, utilizzandola come una finestra per raggiungere la società. Ha funzionato, senza dubbio: per raggiungere le moltitudini una strategia mediatica può dirsi ancora necessaria.
* Trascritta da Carlos Heras Rodriguez e tradotta da Manuela Costa.
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