La luce del futuro che viene dal passato
di GIORGIO MARTINICO
Protagonista è il Settantasette. Ad indagare quel movimento, non i suoi protagonisti, non il racconto «ufficiale» o il «discorso sugli anni di piombo» è il volume Dai laboratori alle masse. Pratiche artistiche e comunicative nel movimento del ’77 (Ombre Corte, pp. 159), scritto da Danilo Mariscalco, dottore di ricerca presso l’Università di Palermo. Un libro che, come suggerisce il titolo, ha l’ambizione di arricchire il dibattito politico e storiografico su alcuni aspetti (le pratiche artistico-comunicative) relative a quella straordinaria stagione di conflitto e, anche, di frenetica produzione «culturale»; allo stesso tempo il volume è il tentativo di «arricchire la cassetta degli attrezzi utilizzata dai soggetti impegnati nella trasformazione, dal carattere teorico-pratico inscindibile, del reale».
L’intesa da ricercare
Obiettivo dichiarato da Mariscalco è dunque, per dirla con Louis Althusser, verificare «l’efficacia specifica» di quelle pratiche prodotte, operate, narrate durante quella determinata sequenza politica del conflitto dispiegato tra «capitale, lavoro, sapere sociale». Questa incidenza reale di un intervento «soprastrutturale» viene contestualmente posta alla verifica dell’oggi. Le tesi di Walter Benjamin — accompagnate dalle riflessioni di Gramsci sul lavoro dello «storico integrale» — sul materialismo storico diventano «punto prospettico» dal quale, il ricercatore, prova costantemente a stabilire quell’«intesa segreta tra passato e presente» tanto cara al pensatore tedesco. Così, provare a identificare caratteri specifici di quello «strato sociale che si mette in movimento» vuol dire scavare come talpe alla ricerca di linee di tendenza. Queste, verificata la potenziale «attualità storica», permettono di leggere «il presente alla luce del futuro».
Nella sua ricerca Mariscalco sceglie precise griglie analitiche a cui si atterrà fedelmente nel testo. La chiave di lettura proposta è quella di una «scienza della cultura» che sappia relazionarsi con la marxiana «differenza reale»; che possa cioè evidenziare emergenti o cangianti «linee di classe»; che possa, infine, fare in modo che ogni «astrazione determinata» sia immediatamente collocata all’interno del conflitto sociale in atto. In questo senso, l’ipotesi preliminare formulata dall’autore vede la possibilità di leggere quell’enorme coacervo di pratiche artistico-comunicative come espressione del bisogno diautonarrazione delle classi sociali subalterne, i cosiddetti «non-garantiti». Tale categoria gramsciana va però qualificata. Non basta, infatti, ricondurre all’unità descrittiva la stratificazione sociale e la composizione di classe che si andava strutturando attorno la figura dell’operaio sociale e all’emersione del cosiddetto «proletariato giovanile». È nel termine «antagonista» che Mariscalco individua l’elemento capace di «ricondurre il subalterno gramsciano alla concezione materialistica della storia».
Il soggetto della ricerca è, quindi, l’identificazione, attualizzandola, dell’efficacia sociale delle pratiche di quel tempo, sovrastrutturali e antagoniste; ma, anche, il possibile inveramento, anche solo parziale, delle ipotesi che, da lì in avanti, hanno annunciato e/o problematizzato la questione dell’intellettualità diffusa, del general intellect marxiano e della diffusione delle nuove tecnologie comunicative.
Nel libro tutte le suddette questioni sono esposte già nella premessa del volume. L’autore sa bene di addentrarsi lungo sentieri scivolosi. Per queste ragioni rifiuta – con «determinazione» — le facilonerie idealistiche, molto frequenti quando si sceglie il tema della produzione artistica e culturale. Innanzitutto: il soggetto della ricerca non può essere collocato all’esterno dello scontro di classe, delle sue nuove forme politiche, delle nuove soggettività protagoniste di questo. Solo a quel punto Mariscalco può procedere alla ricostruzione dei limiti storiografici e delle genealogie che hanno portato all’affacciarsi sul palcoscenico della storia quelle due parole divenute tanto famose: autonomia operaia. Successivamente, a essere analizzato è il paradigma artistico dell’«inaudita avanguardia di massa». Sulla scia tracciata, a suo tempo, da Umberto Eco — la «stupefacente diffusione (quella) proposta culturale» – si analizza il nesso tra avanguardie, massificazione di linguaggi, consumo culturale, fino a giungere al tema della violenza e al ruolo degli intellettuali organici alla luce delle «teorie del complotto».
La politica del desiderio
Il terzo capitolo opera una ricognizione su tutte le «pratiche di comunicazione sovversiva» come forme di autorappresentazione: le coordinate sono qui costituite dalle nuove tecniche di produzione e dalla loro «proletarizzazione». È sempre qui che vengono problematizzati il superamento e/o la politicizzazione dell’arte e la centralità politico-artistica del «desiderio» che, scontratosi «con la repressione ideologica e militare, con i riconfiguratidispositivi di produzione e di consumo, con la sussunzione capitalistica» finisce per essere «catturato».
L’ultimo capitolo sviluppa, infine, il «concreto divenire del general intellect» alla luce delle trasformazioni contemporanee. Per l’autore, «scienza della cultura» e critica all’economia politica si mischiano e si sovrappongono in questo concreto divenire.
Quella sul Settantasette resta un’analisi non facile; forme e limiti, cause e conseguenze, sono campi aperti di discussione e confronto. Il concetto di autonomia che emerge da questo volume è soltanto una delle possibili varianti di essa. L’autore, che ben conosce il tema, sceglie di concedere lo spazio narrativo a coloro i quali parlavano di «autonomia intesa non come organizzazione, ma come tendenza storica latente». Così, nella parzialità, normale per una ricerca di questo tipo, risultano forse sacrificate le ipotesi di chi, in quegli anni, operava e ipotizzava una diversa autonomia: diciamo, organizzata. Resta il dato di un movimento sconfitto (forse) perché non in grado, nella sua forza soggettiva, di sviluppare a pieno il potenziale di autonomia, autovalorizzazione, e contrapposizione delle nuove figure del conflitto sociale e di classe: un proletariato in via di intellettualizzazione.
La partita è tuttavia ancora aperta: seppur siano nel frattempo cambiate strategie, tecnologie, e composizioni, la necessità subalterna di soddisfacimento dei propri bisogni sociali radicali non ha mai abbandonato il campo. Magari molto presto rivedremo il cielo cadere sulla terra!
* Pubblicato su “il manifesto”, 6 marzo 2014.
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