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La notte del Procuratore (3)

Piccola controbiografia di Giancarlo Caselli

 

Il ritorno a Torino 

Dopo alcuni anni come procuratore generale a Torino, dal 2003, Caselli viene nominato procuratore capo nel 2008. Nonostante gli anni istruttivi, anzi potenzialmente sconvolgenti (come si è visto nella seconda puntata) a Palermo, è ancora convinto che sarà lo stato a mutare in meglio la società, e che grazie alle sue manette e alla sua polizia, o ai suoi carabinieri, sorgerà un mondo migliore. Nella sua amata Torino – almeno qui (cfr. puntata precedente) – è convinto che i vertici di polizia giudiziaria siano affidabili, soprattutto alla Digos, visto che si ripromette di utilizzare le proverbiali e talvolta sconcertanti capacità investigative dell’ufficio politico sabaudo. Tra il 2009 e il 2010 la procura diretta da Caselli indaga, infatti, su alcuni pericolosi fenomeni di estremismo politico: in particolare, a Torino spaventa il movimento universitario dell’Onda Anomala, che nel maggio 2009 ha subito alcune cariche dalla polizia per essersi troppo avvicinato in corteo al cosiddetto “G8 dei rettori dell’Università”. In Val Susa, invece, a far scattare la sempre pronta attenzione di Caselli è la dichiarazione del movimento No Tav di voler impedire i lavori previsti per la linea ad alta velocità Torino-Lione.

Tanto per i disordini degli studenti universitari dell’Onda quanto per l’opposizione ai sondaggi per il Tav avvenuti in Val Susa nel 2010 (in occasione dei quali la guardia di finanza sfigurò in volto una signora e mandò in coma un ragazzo), Caselli apre inchieste (tutte contro i manifestanti) e, riguardo agli studenti, fa effettuare anche ventiquattro arresti preventivi, subito rigettati dal tribunale del riesame che stavolta, al ritorno del procuratore dopo tanto tempo (in un’epoca non più “d’emergenza”), li considera immotivati. A dirigere le operazioni di piazza a Torino e in valle, gli arresti e le indagini della Digos è Spartaco Mortola, che il 21 luglio 2001 si trovava al fianco dell’agente Catullo, alias Arnaldo La Barbera (cfr. puntata precedente) di fronte alla scuola Diaz, in qualità di capo della Digos di Genova. Non a caso gli studenti dell’università gli cantavano in coro, durante la protesta contro i rettori a Torino: “Mortolà, Mortolà, la vendetta per la Diaz arriverà!”; e lui, furibondo, li aveva fatti caricare per questo dalla celere tra le loro risate (17 maggio 2009). In quei mesi Mortola, il vertice effettivamente affidabile, ma bisogna vedere in che senso, della polizia politica/giudiziaria di Caselli, è coinvolto non soltanto nelle vicissitudini – giudiziarie, appunto – legate alle violenze alla scuola Diaz, e a quelle per la fabbricazione artificiale delle prove esibite quella notte (due molotov che proprio la polizia aveva portato nella scuola) ma è anche sotto processo per falsa testimonianza.

Sulla vicenda delle molotov della Diaz, infatti, inizialmente tutti i dirigenti interrogati si erano infamati a vicenda, dicendo ciascuno di averle viste in mano a un altro, e chi era stato visto con le molotov in mano da un altro diceva di averle passate a un altro ancora, finché una funzionaria aveva avuto un colpo di genio e aveva bloccato l’infinita tarantella dicendo di averle lei stessa passate a un “Digos di Napoli” di cui non ricordava volto e nome; da allora, le indagini del solertissimo apparato giudiziario erano arrivate a un punto morto. Ciononostante c’era sempre il rischio che saltasse fuori non il Digos di Napoli, che ovviamente non è mai esistito, ma qualche traditore interno, magari mal consigliato dalla paura; sennonché, a un anno dai fatti, giunge la notizia che ci voleva: il povero La Barbera, Catullo, è morto. Ecco allora che il capo della polizia Gianni De Gennaro (intercettato) concorda al telefono con Spartaco Mortola la nuova strategia: scaricate tutto addosso a La Barbera, che tanto ormai è morto, e non se ne parla più. In seguito a questo encomiabile comportamento, De Gennaro continuerà a fare carriera nelle alte sfere dello stato (soprattutto aiutato dal partito democratico, di cui è referente in polizia) e Mortola verrà inviato, giusto per evitare che faccia altri danni, a dirigere la tranquilla piazza torinese e della Val di Susa, oltre che a svolgere compiti di polizia giudiziaria per il dubbio ex eroe dell’antimafia, ora eroe dell’anti-studenti, e presto eroe dell’anti-No Tav, Giancarlo Caselli.

In occasione degli arresti degli studenti Caselli si presenta ai giornalisti in conferenza stampa, finalmente di nuovo agli onori delle cronache, dopo esattamente dieci anni dall’esperienza come tigre di carta a Palermo. Parla di “organizzazione paramilitare” di una piccola minoranza interna al corteo (in realtà erano gli studenti autonomi che l’avevano indetto, annunciato e organizzato) che ha agito a dispetto e contro il resto della manifestazione: gli arresti non sarebbero stati contro l’Onda, quindi, ma per proteggere l’Onda da infiltrazioni estranee. Gli studenti rispondono con una conferenza stampa dal politecnico occupato mostrando loro stessi i caschi che hanno usato, poggiati sulla scrivania dell’allora rettore Francesco Profumo, che aveva organizzato la conferenza contestata, come gesto di rivendicazione collettiva della resistenza alla polizia. (Va detto che alcuni studenti – cinque o sei – di Libera Torino, l’associazione “contro tutte le mafie” sponsorizzata da Caselli – che utilizza in modi tutti da scoprire i proventi dei beni sequestrati a Cosa Nostra – sposarono inopinatamente, e pubblicamente, le tesi del procuratore, mentre i loro compagni di corso erano ancora in carcere).

La strategia mediatica di Caselli, basata sull’immagine televisiva di eroe di Sicilia (immagine, come abbiamo visto, tutta da riformulare), risultò chiara: come accadrà due anni dopo contro il movimento No Tav, il tentativo fu quello di giocare un ruolo pseudo-paternalistico verso la protesta, tentando di spaccare i movimenti intorno all’unico discrimine che egli sia in grado di comprendere: quello del rispetto della legge. (Una strategia talvolta ripresa, anche se con altra caratura intellettuale, dal principale teorico del miglioramento della società attraverso l’azione giudiziaria, Marco Travaglio, che non a caso non punterà mai il suo affilatissimo dito polemico contro il procuratore capo, con cui gioca ogni settimana a tennis, nonostante che, quantomeno, tutto ciò che abbiamo detto sul periodo di Caselli in Sicilia gli sia perfettamente noto; ed è la stessa strategia che sarà usata dal suo collega Antonio Padellaro, direttore del Fatto Quotidiano, forse anche perché in redazione lavora il figlio del procuratore; o, in ambito diverso, dal vate da strapazzo della letteratura di stato, il carabiniere mancato Roberto Saviano che, dopo l’assalto degli studenti alle camere che votavano l’ennesima – e più vergognosa – fiducia a Berlusconi, il 14 dicembre 2010, li definirà “imbecilli” perché, ancora una volta, non erano scappati di fronte alla polizia).

Caselli, tuttavia, non intende riprendere soltanto l’attacco contro le forme di dissenso che non esitano a rompere i confini della legge: intende provare, da vero plurirecidivo specifico, che lo stato è qualcosa di più e di meglio rispetto alla criminalità organizzata. Si muove dunque in un’inchiesta contro la ‘Ndrangheta, che già nel 1983 aveva ucciso l’allora procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, dimostrando di aver radicato i suoi progetti anche al nord. Caselli avvia l’operazione Minotauro che, in mancanza di quella che era stata la sua principale fonte di informazioni in Sicilia, i collaboratori di giustizia, si basa anzitutto su intercettazioni ambientali e telecamere nascoste dai carabinieri presso gli uffici e le abitazioni di personaggi legati all’impresa e alle amministrazioni locali del Piemonte, soprattutto nell’hinterland torinese. Ne emerge un intreccio ad ogni livello tra aziende riferibili all’organizzazione calabrese, camuffate attraverso prestanome, e notabili locali investiti di ruoli amministrativi nella fornitura di appalti, soprattutto nell’edilizia e nel movimento terra: da sindaci ad assessori, fino a intere sezioni locali di partiti come il Pd e il Pdl. La Val Susa e il cantiere del Tav sono investiti appieno dalle relazioni di questo intreccio, ma Caselli decide di sorvolare: l’indefettibilità dell’azione penale, prevista dall’ordinamento giuridico a lui tanto caro, cede il passo – per una volta, per sua autonoma scelta – alla ragion di stato.

 

I nodi vengono al pettine

Durante gli appostamenti presso l’abitazione di Bruno Iaria, capo della “locale” (la struttura territoriale della ‘Ndragheta) di Cuorgné, nella cintura torinese, i carabinieri fotografano decine di piccoli imprenditori che si recano nell’abitazione, e su questi incontri Caselli ha costruito parte della mappatura delle relazioni illegali proprie del capitalismo piemontese. Tra gli imprenditori in visita alla villa, però, c’è anche Claudio Pasquale Martina, la cui famiglia è proprietaria della Martina Servizi S.r.l., una ditta inserita in fretta e furia nei lavori del cantiere affidati al neonato (siamo nel maggio 2011) Consorzio Valsusa, che raggruppa un insieme di aziende interessate a lavorare a vario titolo (studi tecnici, infrastrutture, movimento terra) nel cantiere di Chiomonte previsto per il tunnel esplorativo dei lavori per l’alta velocità. La Martina S.r.l. vi lavorerà insieme alla Italcoge S.p.a., proprietà della famiglia Lazzaro, un esponente della quale, Ferdinando, era già stato arrestato nel 2002 per una spartizione di appalti; ma che ha annoverato, soprattutto, tra i “dipendenti”, proprio Bruno Iaria che, secondo il rapporto che i carabinieri consegnano a Caselli, oltre a imperversare nel Piemonte per conto della ‘Ndrangheta, ha anche gestito in modo occulto alcuni lavori con l’Italcoge (e altre ditte di copertura) sia per la Salerno-Reggio che per al costruzione di acquedotti in Calabria.

Caselli fa scattare gli arresti per l’operazione Minotauro nel giugno 2011, ma nessuno degli imprenditori legati al Tav figura tra gli arrestati (neanche quello che era stato filmato entrare nella casa del boss a Leinì, e neanche quello che aveva inserito il boss nel suo personale). Il torbido, dal punto di vista della legge tanto caro a Caselli, c’è eccome, ma il terzo governo Berlusconi, per bocca del ministro dell’Interno Maroni (con cui Caselli ha sempre avuto un rapporto di fiducia e stima, fin dal 1994, come più volte riconosciuto da entrambi), ha appena annunciato l’assalto alla Val Susa da parte di Ltf (l’ente italo-francese creato per il Tav) e del suo codazzo costituito da questi imprenditori, polizia e carabinieri. Poche ore dopo, infatti, i primi operai dell’Italcoge cercano di raggiungere il sito della Maddalena di Chiomonte, dove è previsto l’avvio dei lavori per la recinzione del cantiere ma, nonostante siano scortati da molti uomini in divisa, vengono colpiti da sassaiole e respinti. Immediate partono le denunce per quattro No Tav, e un quinto, Alberto Perino (uno dei portavoce più noti) si vede perquisita la casa per “istigazione a delinquere”. Comincia ad essere chiaro quale sarà la dinamica: il movimento è visto come un pericolo tanto da Maroni quanto da Caselli, quindi la legge dovrà essere in Val Susa ancor più che altrove diseguale per tutti, pena il rischio di dare argomenti ulteriori al movimento e creare dubbi in un’opinione pubblica che, in quei giorni, è debitamente disinfomata da tutti gli organi di stampa.

Di fronte al tentativo di Berlusconi e Maroni di invadere militarmente l’area, migliaia di persone si radunano in pianta più o meno stabile dove dovrebbe sorgere il cantiere, in quella che viene ribattezzata – cosa che la presidente di confindustria Marcegaglia, e Caselli a ruota, dichiarano essere gravissima e “sconcertante” – “Libera Repubblica della Maddalena”, promettendo di opporsi alla penetrazione del Tav e di quelle aziende nell’area. Il 27 giugno migliaia di poliziotti e carabinieri arrivati da tutta Italia invadono la Libera Repubblica utilizzando gas lacrimogeni, distruggendo gli averi dei manifestanti in fuga per i boschi e defecando nelle loro tende abbandonate. Un’anziana signora di Chiomonte dichiara ai giornalisti: “I ragazzi dei centri sociali che erano con noi hanno sempre tenuto tutto pulito: doveva arrivare la polizia a portare la merda” (sic). La pala meccanica che abbatte la barricata costruita presso la centrale elettrica di Chiomonte, in zona Gravella, è della Italcoge. Le imprese Italcoge e Geomont iniziano il lavoro di fortificazione dell’area, cui poco dopo si aggiungerà la Martina.

Lo slogan “Tav = Mafie” che da anni campeggia sui ciglioni delle montagne a caratteri cubitali, assume per i valligiani, da sempre ostili a simili penetrazioni nel territorio, pur già presenti, un significato sempre più forte. Quando i No Tav si recano a raccogliere quel che resta del materiale della Libera Repubblica trovano sul piazzale esponenti delle famiglie Lazzaro e Martina che si comportano, così diranno, “da padroni del mondo”. I giornali non parlano delle ombre che aleggiano sulle ditte e sui personaggi del Consorzio Valsusa, e lo stesso Caselli si guarda bene dal bloccare i lavori (peraltro di mera fortificazione dell’area) per dare seguito alle reiterate denunce del movimento, cosa che rientrerebbe perfettamente nelle sue funzioni e, dal punto di vista della legge, nei suoi doveri; nemmeno lancia contro questi chiacchierati individui i moniti che, invece, lancia un giorno sì e l’altro pure contro i No Tav; né, infine, ritiene di dover fare luce sulla miriade di irregolarità di Ltf e dello stesso prefetto nello sgombero e nel sequestro della Maddalena, denunciati pubblicamente da avvocati del movimento e dalla stessa Comunità Montana Val Susa e Val Sangone.

Il 3 luglio 70.000 persone protestano a Chiomonte, e diverse migliaia partono da Giaglione, Exilles e dalla Ramats (piccoli paesi dell’alta valle) per assediare il fortino appena costruito, difeso da migliaia di poliziotti e carabinieri che bombardano i manifestanti con oltre quattromila candelotti lacrimogeni (come sarà rivelato dalle incursioni informatiche di Anonymous), dando avvio a scontri che si prolungano per ore. Nonostante la stampa parli di “Black Bloc infiltrati”, il giorno seguente i portavoce di tutto il movimento (seguiti dopo pochi giorni dal coordinamento di tutti i comitati della valle) dichiarano di sentirsi tutti Black Bloc e di aver partecipato a un’iniziativa unitaria di ribellione all’occupazione militare della Val Clarea (la piccola e antica valle in cui è inserita la località della Maddalena). Queste dichiarazioni non piacciono a Caselli, che aveva auspicato la consueta dissociazione dei “portavoce” dai “violenti” sul modello del G8 di Genova di dieci anni prima di cui, da questo punto di vista, tutti i professionisti della repressione sono innamorati; anzi proprio questa era la ragione recondita della perquisizione a casa di Perino un mese prima: spaventarlo e indurlo a più miti consigli. Già allora, però, il procuratore dovette registrare l’imprevista reazione: “Se mi metteranno ai domiciliari, darò il bianco alle pareti”.

Oltre alla ruvidezza, alla compattezza e alla tenacia del movimento, causa di grande difficoltà per Caselli è proprio ciò che egli diceva sempre di aver favorito e auspicato, cioè la mobilitazione popolare contro gli interessi occulti nell’economia. Ciò che avrebbe dovuto essere per lui, se fosse stato onesto quando aveva parlato in passato di “antimafia dei diritti”, fonte di soddisfazione (anche perché inizialmente, nel 2010 e ancora nel 2011, non pochi valsusini credevano davvero che le forze sane dello stato sarebbero intervenute in loro soccorso) è invece fonte di imbarazzo, nel momento in cui ciò che lo preoccupa maggiormente non sono certe “tipiche” aziende e i loro affari, ma chi le contrasta attraverso un movimento sociale completamente

libero e autonomo dalle istituzioni. Con il suo comportamento, in pochi mesi il procuratore riesce ad operare una radicalizzazione rabbiosa non tanto della protesta, che è sempre rimasta, seppur determinata, incruenta, ma dei sentimenti della popolazione valsusina verso le istituzioni statali.

Come nel resto d’Italia, anche in Val Susa una popolazione priva dei generali riferimenti culturali e politici distrutti negli anni Settanta e Ottanta, aveva vissuto come ultima speranza, paradossalmente, proprio l’azione giudiziaria che la magistratura “costituzionale” aveva portato negli anni Novanta contro i potenti del paese: da Craxi ad Andreotti, fino a dell’Utri e Berlusconi. Per questo in valle non ci ha stupito talvolta (sebbene non l’abbiamo mai condiviso) vedere montanari con addosso lo stemma della direzione investigativa antimafia, quasi fosse il simbolo dell’armata rossa; oppure persone che agitavano la costituzione in faccia ai celerini durante le manifestazioni come fosse stata il libretto di Mao in Cina. Se l’idea di Caselli del 1967, secondo cui lo stato avrebbe migliorato la società, era fallita miseramente alla prova dei fatti in Sicilia (e non solo), la cancellazione delle culture della critica che aveva dato l’Italia in mano a Berlusconi aveva paradossalmente fatto di quell’idea fallimentare l’unico appiglio razionale contro i propugnatori spregiudicati delle politiche neoliberiste, la cui prassi arrogante e consolidata, e mai abbandonata, era stata sin dall’inizio fare e disfare le leggi e il loro dettato a vantaggio di chi è al potere, volgendo i meccanismi di punizione soltanto contro le vittime della loro macelleria sociale. Così Di Pietro, Caselli, De Magistris sono diventati negli anni i delegati immaginari di un’azione che proprio la magistratura, insieme alla politica e talvolta al crimine organizzato, ha contribuito e contribuisce deontologicamente a soffocare e rendere impossibile nell’unico luogo da cui potrebbe avere origine, la società.

Anche per queste ragioni, nei mesi successivi il movimento No Tav denuncerà a più riprese, pubblicamente e talvolta formalmente, la presenza di fenomeni che la popolazione della valle, da sempre, ha ritenuto estranei e contrari agli interessi della comunità. La presenza nel cantiere di diverse ditte cui i tribunali hanno rifiutato il cosiddetto “certificato antimafia”, come la Pato Perforazioni, o della romagnola Bentini, al centro delle indagini sulla ‘Ndrangheta; la presenza nel Consorzio Valsusa del mago degli appalti torinesi Vincenzo Procopio, arcinoto alla procura per i suoi vari precedenti per turbativa d’asta, l’affidamento di lotti di lavorazione all’Impregilo, proprietà delle famiglie Gavio, Benetton e Ligresti, azienda indagata per aver fatto artificialmente raddoppiare le spese di denaro pubblico per la linea ad alta velocità Milano-Novara, oltre che sponsorizzata da dell’Utri in vista di eventuali lavori per il ponte sullo stretto.

La presenza, ancora, del gruppo Gavio, coinvolto nella stessa truffa anche attraverso l’Itinera S.p.a., che ha sede a Salbertrand in Val Susa ed è vincitrice dei lotti 1 e 2 per i lavori della Torino-Lione. O, ancora, la Cmc, contraente generale, tra l’altro, dei lavori per l’autostrada infinita Salerno-Reggio Calabria e per la base Dal Molin di Vicenza, indagata per turbativa d’asta in vista di Expo 2015 a Milano; una mega-cooperativa da sempre legata al Pd (Bersani, segretario all’epoca del coinvolgimento a Chiomonte, ottenuto senza gara d’appalto, ne fu presidente) e molte altre cose, tra cui l’assenza di gare per molti lavori compiuti a Chiomonte, tra cui quelli della primavera-estate 2011 (riguardanti le recinzioni e le fortificazioni coinvolte negli scontri), e le spese per questi stessi lavori gonfiate fino al 300% nei bilanci di Lft, come denunciato a più riprese dal movimento.

Movimento che parla di “partito trasversale degli affari”, “partito del tondino e del cemento”, di “Bancomat della politica”; e dimostra, carte e dati alla mano, l’irrazionalità economica dell’opera, da un lato, e il suo reale utilizzo per creare l’ennesimo cratere dove gettare decine di miliardi di denaro pubblico (mentre vengono tagliate sanità, scuola e pensioni, alzate le tasse e azzerati i consumi) da regalare agli amici degli amici. Gli effetti politico-economici generali dell’accordo tra capitale legale e illegale perfettamente simboleggiato dalla famosa trattativa tra i Ros e Provenzano, nel 1993, vengono forse per la prima volta ostacolati da un movimento popolare ostile allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della natura, con una mobilitazione straordinaria, che trova – nella concretezza della sua battaglia – nuove strade di interpretazione politica dei problemi dell’Italia, giungendo a intersecare idee di trasformazione della società con i valori di giustizia che riposavano, nascosti, anche sul fondo delle più ingenue proteste legalitarie. Caselli deve per la prima volta schierarsi non semplicemente tra stato e rivoluzione, e non tra “stato” e “mafia”, ma tra l’illegalità dei potenti, stato e mafia inclusi, e l’illegalità dei senza potere. I nodi annodati nel 1967 – e nel 1978, o nel 1993 – iniziano per lui, nel 2011, a venire al pettine. E inizia la sua sconfitta.

 

To be continued

Puntate precedenti:

 

La notte del procuratore (1) Gli anni Settanta 

La notte del procuratore (2) Parte Seconda: La Sicilia

intro: Quel che è Stato è Stato

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