La produzione dello spazio urbano in tempo di crisi
Pubblichiamo la seconda introduzione (qui la prima), scritta da Felice Mometti, all’ebook di prossima pubblicazione “Città, spazi abbandonati, autogestione”, esito del convegno tenutosi a Bologna il 3 ottobre 2017.
La metropoli non si fotografa, non si fa fotografare. Si può percorrere e attraversare in un movimento continuo alla ricerca dei punti di crisi e delle fratture nella valorizzazione capitalistica dello spazio urbano. Non si fa fotografare perché è allo stesso tempo un laboratorio della produzione sociale e il palcoscenico di un immenso accumulo di eventi e di conflitti. Una fotografia sarebbe sempre troppo mossa e mancante di prospettiva. La crisi di questo decennio poi ha accelerato il cambiamento delle coordinate delle aree metropolitane e degli assetti territoriali: il non-urbano è stato sussunto dall’urbano e la progressiva reificazione dello spazio pubblico, dovuta all’assorbimento di una parte significativa delle relazioni spaziali da parte dei media mainstream, dei social network e delle internet company, si sta traducendo in grandi operazioni di marketing in cui convergono luoghi reali e virtuali in immaginari ibridi e in nuove estetiche metropolitane.
Rigenerare gentrificando
La crisi, con il suo andamento sussultorio, mette in tensione acuta sia la struttura economica che la società facendo emerge di nuovo la «questione urbana». Una nuova «questione», rispetto al passato, dove non esiste una linea netta di demarcazione tra il declino e la riorganizzazione degli spazi della produzione e della riproduzione sociale. Tra rendita urbana assoluta e differenziale nel processo di finanziarizzazione della società immobiliari, dei grandi proprietari, delle agenzie pubbliche, cioè i produttori della gentrificazione. Limitarsi a interpretare la gentrificazione degli spazi urbani solo come una nuova fase di investimento di capitali nelle aree metropolitane – se non solo nei centri storici – che hanno avuto una precedente fase di disinvestimento e di degrado, non fa comprendere la natura e la profondità del processo in atto. Non si coglie il profondo intreccio tra rendita urbana, modelli di governance, nuove gerarchie territoriali e disciplinamento dei comportamenti sociali. Un intreccio che sta diventando una costante anche in città di media grandezza. La rendita urbana, all’interno dei circuiti della finanziarizzazione dei produttori di gentrificazione, è rilanciata con un’infinità di progetti di rigenerazione, riqualificazione, rivitalizzazione che diventano dei veri e propri «dispositivi morfogenetici» dello spazio urbano. Progetti come dispositivi che indirizzano, trasformano, implementano lo spazio urbano già nel momento in cui vengono redatti e viene attivato il teatrino delle partecipazione orientata e/o simulata dei cosiddetti portatori di interesse. Sotto il velo del coinvolgimento dei cittadini, delle imprese, delle società finanziarie, delle associazioni presenti sul territorio si nasconde un modello di governance che punta a rendere strutturale l’ibridazione tra un’imprenditorialità pubblica e l’iniziativa privata. Si invoca il protagonismo della società, indistintamente dalle collocazioni di classe, per veicolare i «protocolli prestazionali» dei veri attori decisionali nonché il mantenimento di alti livelli di appropriazione del plusvalore sociale attraverso la rendita urbana. Una governance attenta anche a mettere in campo delle forme di colonizzazione di tutti quegli aspetti trasformativi dello spazio che si danno nella cooperazione informale tra quei soggetti, quasi sempre segnati da una precarietà lavorativa ed esistenziale, che tuttavia possiedono alto contenuto di «capitale culturale». La studentification di alcune grandi città viene utilizzata come premessa di una futura gentrificazione. Gli studenti come diffusori di stili di vita, di modi di abitare, di percorsi urbani, di precursori di nuove forme del entertainment sono un fattore di squilibrio nelle produzione dello spazio urbano, che viene successivamente reso funzionale alla rendita differenziale di parti di città mutandone geografie e connotazioni sociali. Recentemente in alcune città italiane hanno fatto la loro apparizione le strategie di block busting di importazione americana. Strategie di degradazione selettiva di alcune aree urbane per far diminuire i valori immobiliari e successivamente rigenerarle per incrementare la rendita. Sono aree generalmente abitate da migranti che sperimentano anche a livello territoriale l’inclusione differenziale derivante dalla loro cittadinanza amministrata. Le retoriche sulla smart city, sulla città-evento hanno lo scopo di connotare il cittadino solo in quanto consumatore/spettatore che si muove nei luoghi del consumo e dello spettacolo sempre più uniformati e blindati. Luoghi che diventano i campi della sperimentazione del controllo sociale e delle politiche securitarie. E’ l’insieme di tutti questi aspetti, che sono diversamente presenti e modulati a seconda dei contesti e della conflittualità urbana, a definire gli attuali processi di gentrificazione dello spazio urbano.
Un diritto eccedente
Il diritto alla città è fatto di contenuti, di soggetti e di pratiche. Le relazioni che si stabiliscono tra il contenuto del diritto alla città, la natura dei soggetti che lo rivendicano e le forme assunte dal conflitto per ottenerlo, condizionano spesso il senso, la validità e l’efficacia del diritto stesso.
Se il punto di partenza è la netta separazione di un positivo valore d’uso della città, della vita urbana, del tempo urbano, rispetto a un negativo valore di scambio degli spazi acquistati e venduti, del consumo dei beni, dei luoghi, non si va oltre l’immagine di una città come una merce che ha al proprio interno degli antidoti che ne permetteranno la demercificazione. La città e lo spazio urbano sono considerati dei “prodotti” della società e di un modo di produzione.
In altre termini un valore d’uso che deve essere liberato dal valore di scambio e per questa via introdurre e rivendicare il diritto alla città. Un diritto che può essere formulato solo come diritto a una vita urbana trasformata e rinnovata: un diritto, quasi necessitato, al valore d’uso. Senza mai arrivare a definire la produzione dello spazio urbano come uno specifico rapporto sociale. Lo spazio urbano come un rapporto connotato da conflitti, trasformazioni, differenze, contraddizioni che si presentano all’interno del processo di valorizzazione capitalistico e non un semplice esito di una dinamica sociale ed economica
In una seconda variante il diritto alla città è concepito come un significante vuoto che si può riempire di possibilità immanenti. Il diritto alla città è il diritto a cambiare e reinventare la città secondo le proprie esigenze. Rivendicare il diritto alla città significa rivendicare il potere di dar forma ai processi di urbanizzazione, ai modi in cui le città vengono costruite e ricostruite. Si potrebbe dire che il diritto alla città è il diritto umano al superamento del capitalismo. A sostegno di questa argomentazione ci si rifà spesso al concetto di eterotopia di Lefebvre (diverso da quello di Foucault) in cui si delineano degli spazi liminali, di soglia, di passaggio, dove «qualcosa di diverso» è possibile. Le pratiche che si danno nello spazio urbano creano dappertutto degli spazi eterotopici in cui confluiscono spontaneamente i gruppi più disparati che «irrompono», aprendo la possibilità di un’azione collettiva per qualcosa di radicalmente diverso. Secondo questa visione sono comunque le pratiche e non i soggetti che fanno la differenza. Ad esempio la pratica del commoning in cui la relazione tra gruppi sociali e ambiente è collettiva e non mercificata. Una pratica cruciale perché dovrebbe permettere di distinguere tra un bene pubblico visto come costo per lo Stato e un common il cui statuto e il cui uso rispondono a logiche e finalità diverse. E quindi l’urbanizzazione è da intendersi come l’intreccio tra la continua produzione di un common urbano (anche nelle forme di spazi e beni pubblici) e la sua perpetua appropriazione e distruzione da parte di interessi privati. Il diritto alla città come diritto umano al common urbano? Sembrerebbe di sì. Il valore d’uso transita così dalla società urbana al common urbano. Un common urbano senza connotazioni e confini che scaturisce dell’assorbimento del surplus di capitale da parte del processo di urbanizzazione. Senza entrare nel merito della differenza tra un capitale che si valorizza in ambito urbano e l’assorbimento di un generico surplus da parte del processo di urbanizzazione resta il fatto che il diritto alla città non è mai visto come un processo di soggettivazione che combina autonomia e antagonismo, ma è sempre riferito a dei soggetti già dati e a delle pratiche già sperimentate, che sono da rinverdire o da riportare in vita. In ultima analisi lo spazio urbano è sempre e solo un’infrastruttura materiale per la produzione, la circolazione, lo scambio e il consumo.
Politicizzare lo spazio urbano
Non esiste un «fuori» all’organizzazione capitalistica del territorio: una società urbana, un common urbano altri rispetto alla riproduzione allargata dei rapporti di produzione capitalistici e alla valorizzazione del capitale. Lo spazio urbano è un rapporto sociale in cui non c’è una gerarchia precisa o una separazione definita una volta per tutte tra una prassi in cui i soggetti non realizzano e non trasformano nient’altro che se stessi e le azioni individuali e collettive sottomesse ai rapporti capitalistici. Non si tratta di un mero uso capitalistico del territorio e della città, come se città e capitale fossero entità diverse e distinte in cui il capitale vampirizza una società urbana, un common urbano, che non devono altro che essere liberati dalla morsa dell’appropriazione privata. La città, il territorio, lo spazio urbano sono sia il teatro dei rapporti sociali che rapporti sociali essi stessi, incessantemente investiti dalle trasformazioni del modo di produzione, di circolazione e di consumo. Le gerarchie urbane sono continuamente riconfigurate dal rapporto sociale che si dà nello spazio urbano. Politicizzare lo spazio urbano significa quindi aprire un conflitto che aumenti la tensione nel rapporto sociale tra affermazione delle ragioni e dei comportamenti soggettivi, individuali o collettivi, e la riproduzione della gabbia del dominio, dello sfruttamento e della rendita urbana. È da questo punto di vista che può acquisire una valenza politicamente innovatrice la questione dei diritti, compreso il diritto alla città. La rivendicazione di un diritto non è separabile da un processo costituente, o quanto meno trasformatore, del soggetto che lo rivendica. Il momento stesso del rivendicare il diritto alla città dovrebbe interpellare sia uno spazio urbano come rapporto sociale, sia le forme della sua radicale modificazione.
Negli ultimi decenni ci sono state centinaia di occupazioni di spazi sociali e migliaia di occupazioni per scopo abitativo che in maniera eterogenea e con obiettivi diversi hanno risignificato la «questione urbana» in un’ambivalenza che ha oscillato tra rifugio e riconoscibilità, tra proiezione esterna conflittuale e riproducibilità interna autorganizzata. Guardare alle continuità e alle fratture nelle esperienze di nuove socialità, negli spazi delle comunità migranti, nelle nuove forme dell’abitare, nell’opposizione politica nei territori, nelle forme di mutualismo, nella produzione di soggettività, di cultura e di immaginario potrebbe essere il terreno di un’inchiesta che reinventa il presente articolando politicamente le fratture e gli scarti improvvisi dei conflitti che acquistano intensità, profondità ed estensione nella produzione dello spazio urbano.
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