La talpa kurda scava nelle elezioni locali in Turchia
Domenica 31 marzo è arrivata a conclusione in Turchia una tornata elettorale locale di rilevante importanza –
si eleggevano i sindaci delle principali città del paese, tra cui Istanbul ed Ankara che da sole contano 25 milioni di abitanti – in un quadro di pesante crisi economica e autoritarismo. Stretto tra una spirale inflattiva fortissima e il deterioramento dei rapporti con gli alleati occidentali (è delle scorse ore il blocco da parte degli USA della consegna di caccia F35 alla Turchia, come ritorsione per l’acquisto di quest’ultima di batterie antiaeree S-400 dalla Russia), Erdogan non ha esitato a strumentalizzare a fini elettorali i morti musulmani di Christchurch per soffiare sul fuoco dello scontro di civiltà: minacciando nell’anniversario della battaglia di Çanakkale (Gallipoli), importante ricorrenza nazionalista, “di far tornare in patria australiani e neozelandesi nelle bare, come i loro nonni”.
Un richiamo all’Islam radicale premiato, ancora una volta, nel cuore anatolico del paese – che ha consegnato al presidente la maggioranza relativa dei consensi nazionali; mentre, nonostante i consueti brogli e violenze (con l’uccisione di quattro oppositori durante gli scrutini), è risultato spuntato nei grandi centri, dove i candidati dell’AKP hanno perso con un notevole scarto (come ad Izmir, ma persino Ankara) o di misura (come ad Istanbul dove correva l’ex-primo ministro Yildirim).
E’ da dietro le sbarre del carcere di Edirne tuttavia che si è giocata buona parte dell’esito della tornata elettorale. Le indicazioni di Selahattin Demirtas, co-leader del partito progressista e filo-curdo HDP li prigioniero da due anni e mezzo, sono state per la formazione di non correre nelle grandi città dell’ovest. Spianando tatticamente la strada alla vittoria dei candidati dell’Alleanza Nazionale dei partiti CHP e IYI in quei territori e provando così a scardinare la presa dell’AKP sul paese; a prezzo di un calo di preferenze che rende specioso il raffronto di questa con le passate consultazioni locali (nelle quali peraltro l’AKP ed i fascisti del MHP non erano ancora alleati, e raccoglievano nel loro complesso un numero maggiore di elettori).
Consensi che comunque sono bastati nel sud-ovest (dove è anche stato eletto per la prima volta alla guida del capoluogo provinciale di Tunceli un candidato del Partito Comunista Turco, Fatih Mehmet Maçoğlu) all’HDP a sbarazzarsi delle amministrazioni commissariate dall’AKP dopo la sollevazione kurda del 2015. Il tutto nonostante un contesto di estrema militarizzazione, voto eterodiretto e ricatto da parte delle clientele di Erdogan nell’imprenditoria edilizia e degli alloggi pubblici nel ricostruire città come Cizre e Sirnak – rase al suolo in quell’occasione.
Per questo c’è chi ha commentato: “Se Erdogan non avesse mandato i suoi soldati e poliziotti a votare nelle città kurde l’AKP non avrebbe perso Istanbul ed Ankara” o, altrettanto verosimilmente, “il risultato nelle metropoli dell’ovest è la vendetta dei kurdi costretti a migrare lì dalle proprie terre”.
Ciò ovviamente non toglie che l’AKP provi a riappropriarsi di quelle amministrazioni con ulteriori colpi di mano e disconoscimenti dei risultati. Ma il tutto – considerando ovviamente la dimensione nazionale dei ricorsi già in atto – andrebbe a deteriorare un quadro formale di garanzie politico-legali traballante; e che anche media mainstream e mercati finanziari internazionali stanno iniziando a criticare apertamente.
Siamo quindi all’inizio della fine del regime dell’AKP – che questi stessi attori hanno, negli anni, ripetutamente coperto e coccolato? Non proprio. La prima vera minaccia al potere di Erdogan fu quella della sollevazione di Gezi Park e Piazza Taksim nel 2013, che pose le basi per una ricomposizione dell’opposizione democratica, popolare e progressista in quello che divenne l’HDP. Quando quest’ultimo riuscì, nelle prime elezioni del 2015, a prevenire l’ottenimento da parte di Erdogan della maggioranza necessaria per le riforme costituzionali, la risposta del Sultano – che oggi potrebbe ripetersi – fu la strategia della tensione a colpe di bombe ed attentati nel paese, e l’intervento militare – diretto o per procura – nella stessa Turchia, in Siria e in Iraq contro le istituzioni autonome kurde. Operazione quest’ultima da sempre in grado di far accodare i peggiori istinti nazionalisti degli altri partiti di opposizione al cocchio di Erdogan. Il quale, ad ora, non intende riconvocare elezioni prima del centenario della repubblica turca del 2023 e mantiene saldo il proprio controllo sui tre poteri dello stato e sull’esercito – veri discrimini di una crisi del regime di Ankara.
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