Middle ground trumpiano, ricompattamento europeo e smottamenti geopolitici: la crisi dalla ricerca cooperativa allo scontro competitivo
Relazione di Raffaele Sciortino per il seminario Autonomia Contropotere 15-16 luglio 2017 a Chianocco (Val Susa)
Visti i tempi entro subito nel merito della questione che mi è stato chiesto di affrontare: si è invertita la tendenza, fin qui evidente ai vari livelli, alla disgregazione se non rottura dell’Unione Europa (su cui mi ero già soffermato nell’intervista di qualche mese fa “L’Europa fra Trump e Merkel” (http://www.infoaut.org/approfondimenti/leuropa-fra-trump-e-merkel-intervista-a-raffaele-sciortino)? Siamo di fronte ad un’inversione di rotta con la nuova assertività tedesca contro la presidenza Trump, la vittoria alle presidenziali francesi di Macron, ecc.?
Una risposta argomentata richiederebbe di considerare a fondo lo stato e le prospettive dei rapporti Usa-Germania-Ue. Qui mi limito -semplificando al massimo e astraendo dal livello profondo della crisi dell’accumulazione capitalistica – agli elementi imprescindibili:
Per il nostro problema, tutto ciò comporta – qui la novità, ma pur sempre solo relativa se guardiamo al corso obamiano-clintoniano – la necessità di riallineare di brutto gli “alleati” e stringere in particolare sulla Germania, vista a ragione come fulcro di una possibile autonomizzazione europea. L’euro è già stato decisamente ridimensionato dai precedenti attacchi (a proposito, chi aveva ragione già cinque-sei anni fa a leggere la crisi dei debiti sovrani in chiave di scontro Usa-Europa piuttosto che come esito della “cattiveria” tedesca pro-austerity o dell’”errore” euro?!). Ma ciò non basta: è l’Unione europea germano-centrica in quanto tale a non andare giù agli yankee. E Washington sa qui di poter giocare sia sui miserabili nazionalismi anti-russi e anti-tedeschi dei paesi dell’est Europa (i nazionalismi minori sono sempre pronti a leccare i più potenti, gli italioti ne sanno qualcosa) sia sulle contraddizioni tra nucleo mitteleuropeo e fronte Sud della Ue.
Ciò significa che l’oasi tedesca in prospettiva verrà da un lato scardinata (o lo si tenterà) nel suo modello economico, dall’altro invasa dal caos geopolitico di ritorno che Washington non può fare a meno di continuare a creare in giro per il mondo (la manomissione dell’Ucraina, l’ondata di profughi siriani e gli attentati jihadisti in Europa ne sono le avvisaglie, ma il vero banco di prova sarà l’eventuale scatenamento della guerra aperta da parte Usa-Sauditi-israeliani contro l’Iran e la “mezzaluna sciita”, vettore potenziale della cinese nuova via della seta: vedi già il “povero” Qatar). La situazione si fa interessante.
Ora, è indubbio che di fronte a ciò Berlino ha preso atto e chiamato a un primo ricompattamento europeo, forte del (relativo) successo elettorale di Macron e delle difficoltà britanniche del dopo Brexit ma anche sfruttando gli umori anti-Trump di parte dell’elettorato europeo. E qui si può parlare, seppur in termini reattivi, di relativa inversione di tendenza rispetto ai segnali di disgregazione degli ultimi anni. C’è qui però una potenziale dinamica, da seguire con attenzione, foriera di contraddizioni importanti, anche sul piano delle relazioni di classe. Merkel vorrebbe contenere la reazione tedesca ed europea entro il perimetro di una ricontrattazione con Washington in attesa di una transizione post-Trump che rinnovi i fasti della globalizzazione (pia illusione!), ma al tempo stesso evitare derive “populiste” e anti-americane tra la popolazione. Ma non potrà, se vuole reggere alla sfida americana, non potrà non rivedere il modello economico (un contro-protezionismo in nome dei… liberi mercati?), aumentare le spese militari, lasciarsi coinvolgere nella politica di potenza e, con questo, intaccare le ampie riserve fin qui utilizzate per mantenere il compromesso sociale con il proletariato interno – il che incentiverà esattamente quelle “derive” (come si vede ampiamente in Francia) e porrà a un certo punto il problema di se e come governarle dall’alto (ma allora saremo ben oltre il ciclo politico merkeliano). A scala europea, poi, tutto ciò comporterà una stretta complessiva, tanto più dopo la fine del Quantitative Easing della Bce previsto per il prossimo anno (altro che margini anti-austerity che secondo gli idioti si amplierebbero per paesi come l’Italia grazie a… Macron!) ma ciò non potrà non rinforzare le spinte anti-europeiste interne ed esterne all’Europa. Il che di rimando, e in mancanza delle “riforme” auspicate, dovrebbe portare Berlino a ripiegare su un gruppo esclusivo (le diverse velocità su cui riordinare la Ue). Insomma, la risposta alla lotta contro l’implosione europea indotta (anche) dagli Usa sembra al massimo andare nella direzione di un… dimagrimento controllato. L’Europa attuale appare troppo ampia sia per Berlino che per Washington, per ragioni opposte. La dirigenza tedesca è assai preoccupata delle nubi che si stanno accumulando sui rapporti transatlantici e per questo si mostra ancora cauta e pronta a un compromesso anche parzialmente a perdere.
Non possiamo già oggi prevedere se si arriverà a un punto di rottura tra le due sponde dell’Atlantico o se Washington piegherà ancora una volta gli europei, non senza averli bastonati, in funzione della creazione di un fronte anti-cinese. Va ricordato a questo riguardo che la Germania non ha un modello complessivo alternativo di globalizzazione da contrapporre e sostituire a quello americano, né ha capacità militari minimamente comparabili, anzi resta sotto questo aspetto un paese a sovranità dimidiata. Ma sappiamo anche che oltre un certo livello non è più questione di volontà (discorso analogo andrebbe fatto per Cina e Russia, che di per sé non vogliono affatto scalzare la leadership americana né hanno già trasformato la tattica comune in un accordo strategico definitivo, il che costituisce la base su cui Trump -contro il resto dell’establishment Usa- cerca di giocare per associare la Russia all’Occidente, in posizione ultrasubordinata, sottraendola alla Cina). In un caso o nell’altro, ci aspettano scosse telluriche che riconfigureranno l’Europa. Anche nei rapporti di classe.
Ora, è proprio questo, il posizionamento di classe, l’anello intermedio tra il quadro economico-geopolitico e una vera analisi politica della situazione. Su questo piano credo che le ragioni della spinta cosiddetta populista, di “destra” o di “sinistra”, non recederanno se non transitoriamente (al momento abbiamo infatti una parziale ripresa dell’europeismo in Francia e Germania a ragione dell’effetto Trump e del persistente attaccamento all’euro degli strati medio-alti, dei lavoratori metropolitani e dei pensionati, cosa del resto visibile anche negli altri paesi europei). Non solo, queste spinte populiste -ben al di là degli attuali contenitori organizzativi!- tenderanno a qualificarsi su un terreno più “di classe” (come nodi da affrontare, non certo per il modo del loro scioglimento) anche con la ripresa di temi che si direbbero “riformisti” – laddove ciò non avvenga in contenitori più tradizionali come nel caso del “nuovo vecchio” Labour di Corbyn (che non a caso ha recuperato con una campagna su temi sociali parte del voto popolare pro Brexit oltre ad aver capitalizzato sia gli umori anti-Trump sia la sua pur timida denuncia delle responsabilità dell’imperialismo britannico nell’ondata di attentati jihadisti in GB) o con il discreto successo di Mélenchon. A meno, ovviamente, dell’imporsi di tendenze alla disgregazione tout court, politica e sociale, come potrebbe essere per l’Italia (sempre più lacerata tra la funzione di stato-cuscinetto per la Kerneuropa e cavallo di Troia anti-europeo per gli Usa).
Ovviamente, queste sono indicazioni genericissime: resta che qualunque decisiva ridislocazione nei fronti geopolitici non è possibile senza forti riposizionamenti e attivizzazioni dei fronti di classe. Questo è il criterio in ultima istanza decisivo che media geopolitica e politica in senso forte. Ma ricordando che le forme di questi riposizionamenti sono assai diverse rispetto ai cicli passati, per certi versi irriconoscibili e magari poco piacevoli. Basta guardare, per scendere sul concreto, alla questione profughi: non vedo in giro dalle nostre parti riflessioni serie sul rischio di scivolare, da una giusta opzione anti-razzista, verso posizioni umanitarie e filo-ong (egemonizzate dall’obamismo-sorosismo) invece che chiamare per nome le politiche imperialiste che manomettono, economicamente, politicamente e militarmente Africa e Asia e producono la necessità di migrare mettendo a disposizione forza-lavoro semischiavistica, senza dire che oramai l’approccio “vittimista” a questi soggetti sembra passato su tutta la linea (e probabilmente introiettato strumentalmente da loro stessi). L’anti-G20 di Amburgo sotto questo punto di vista mi sembra, per quel poco che ho visto, un colossale passo indietro politico rispetto, per rimanere alla Germania, alle mobilitazioni anti-TTIP. Sono temi certo delicati su cui è facile scivolare in senso “populista” ma che non mi pare possibile affrontare solo con la “giusta posizione ideologica” a meno di volersi ridurre a una nicchia senza nessuna possibilità di incidere sulle dinamiche future. Non c’è lotta, non c’è questione immediata che non abbia una valenza politica e geopolitica, piaccia o non piaccia il vecchio Lenin.
Per concludere:
la parziale inversione della tendenza alla rottura della compagine europea appare in tutta la sua criticità se la collochiamo dentro l’ipotesi – credo plausibile – di un passaggio in corso alla seconda fase della crisi globale: il passaggio dalla ricerca “cooperativa” (pur con ineguale distribuzione dei costi) di una exit strategy dalla crisi all’aperto scontro competitivo sulla riconfigurazione del mercato globale. Il che è riflesso del fatto profondo che l’insufficiente distruzione del capitale fittizio accumulato negli ultimi decenni è pagata dal capitalismo mondiale con una sostanziale stagnazione e dunque con l’aumentata competizione. Che, per la prima volta così chiaramente dallo scoppio della crisi, torna a far spirare minacciosi i venti di guerra…
12 luglio ‘17
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