
MAGA vs neocons: la coalizione trumpiana si spacca sulla guerra all’Iran
Qualcosa di interessante sta accadendo all’interno della coalizione che ha portato alla vittoria Donald Trump: la tentazione di entrare in guerra direttamente contro l’Iran al fianco di Israele sta creando scompiglio.
Alcune importanti figure del movimento MAGA che interpretano gli umori della basa si stanno esponendo per criticare l’atteggiamento che ha tenuto l’amministrazione USA nei confronti dell’attacco israeliano all’Iran e si stanno muovendo per impedire un intervento più diretto nella guerra.
Personaggi come Tucker Carlson, Steve Bannon, Marjorie Taylor Greene, Rand Paul hanno criticato od espresso dubbi sulla scelta di Trump di celebrare l’attacco all’Iran come un risultato congiunto di Israele e Stati Uniti. Alcune testate conservatrici si sono spinte inaspettatamente a definire Israele uno “stato canaglia” e a condannare integralmente anche il massacro di Gaza.
Che il consenso unanime verso Israele si stesse indebolendo dentro la coalizione trumpiana lo si era già iniziato a notare da tempo. Durante i giorni precedenti all’operazione “Carri di Gedeone” persino Trump aveva fatto trapelare irritazione per l’atteggiamento dell’alleato. Ora che l’attacco contro l’Iran fosse una mossa concordata o che si sia trattato di un colpo di mano israeliano con Trump che ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco cambia poco. La sostanza è che Israele sta imponendo la propria agenda sul medioriente agli Stati Uniti tirandoli per la giacchetta in una guerra dagli obiettivi poco chiari e dagli esiti imprevedibili. All’interno dell’amministrazione USA emergono chiaramente due schieramenti, quello neocons che spinge per una entrata diretta in guerra prospettando l’attacco israeliano come una finestra di possibilità per un regime change in Iran e quello MAGA che continua a propugnare il verbo del neo-isolazionismo, della necessità di concentrare i propri sforzi nel contenimento della Cina piuttosto che spendere risorse e tempo in un ennesimo pantano in Medio Oriente. In questo quadro emergono inedite convergenze “di fatto” dove la sinistra del Partito Democratico e i MAGA stanno sottoponendo al Congresso risoluzioni che obblighino Donald Trump a chiedere l’autorizzazione prima di entrare in guerra.
Non bisogna dimenticare che, a differenza del 2016, sono diverse le figure chiave dell’area MAGA del Partito Repubblicano che rivestono ruoli di rilievo all’interno dell’amministrazione. Tra questi c’è Tulsi Gabbard ad esempio, direttrice dell’intelligence nazionale, veterana ed ex democratica che aveva rotto nel 2022 con il partito proprio sulla politica estera guerrafondaia di Biden.
Trump da poco ha avuto problemi con i veterani che avevano votato al 67% per i repubblicani nelle scorse elezioni (i veterani negli States sono circa 15 milioni, un blocco elettorale significativo): infatti nella folle corsa allo smantellamento di qualsiasi forma di stato sociale negli USA l’ex capo del DOGE, Elon Musk, aveva deciso di licenziare più di 80mila dipendenti della Veterans Amministration. Durante la parata militare del 14 giugno è andata in scena la protesta organizzata da Veterans against War e Veterans for Peace davanti al Campidoglio. Una manifestazione tesa in cui alcuni veterani hanno tentato di superare le barriere per raggiungere Capitol Hill e sono stati fermati dalla polizia, mentre ieri è stato arrestato un 87enne che avanzava con il suo deambulatore verso il Campidoglio mentre un centinaio di veterani stava manifestando sotto la Corte Suprema.
L’atteggiamento sulla guerra del trumpismo è stato uno dei principali punti di rottura con la tradizione conservatrice e repubblicana precedente ed è stato uno dei fattori che ha permesso a Trump di guadagnare consensi tra l’elettorato democratico deluso e più in generale tra quei settori della popolazione sempre più maggioritari stanchi di spendere risorse e vite umane per garantire la proiezione imperiale degli Stati Uniti.
Oggi i nodi vengono al pettine: Trump aveva promesso che nei primi mesi della sua amministrazione avrebbe messo fine alla guerra in Ucraina e a quella in Medio Oriente. L’Ucraina con il supporto dei “volenterosi” europei è riuscita a sabotare qualsiasi tentativo messo in campo dagli USA per congelare per lo meno il conflitto. In Medio Oriente l’alleato Israeliano sta cercando in ogni modo di produrre un’escalation di dimensioni globali con il supporto dei necons USA.
Il quadro si va chiarendo ed il tema della guerra può rappresentare sempre di più per gli Stati Uniti non solo un tema di politica estera, ma anche un problema interno, il grande ciclo di proteste contro il genocidio a Gaza ne è stato una dimostrazione, la spaccatura all’interno della coalizione trumpiana può diventarne un’altra, almeno che Trump sotto la pressione della sua base non faccia una nuova piroetta. Vedremo.
In ogni caso mai come oggi lo spazio politico e sociale dell’opposizione alla guerra, all’escalation ed al riarmo è il terreno prioritario su cui provare a ricostruire una forza di massa con interessi comuni.
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