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Ma quale “imperialismo iraniano”?

Credevamo, evidentemente a torto, che di fronte allo scenario cristallino che si sta dando in Medio Oriente negli ultimi giorni il dibattito tra chi si oppone alla guerra non sarebbe stato solcato dai soliti posizionamenti ideologici.

Per un attimo ci siamo illusi/e che di fronte a fatti di questa portata la priorità fosse quella di capire come opporsi, dal nostro lato di mondo, al caos sistemico che Israele, con l’appoggio degli Stati Uniti, sta portando sulla regione.

Invece ci tocca constatare che molti e molte nel mondo dei “movimenti” continuano ad avere priorità diverse. Sono diversi i comunicati e gli articoli che affollano l’infosfera negli ultimi giorni che suonano tutti più o meno nella stessa maniera: “condanniamo l’aggressione israeliana, siamo al fianco del popolo iraniano, ma non del regime”. Fino a qui tutto pienamente condivisibile, non nutriamo nessuna simpatia per la teocrazia iraniana e non siamo tra quelli che considerano ogni nemico dell’Occidente come un amico, ammesso che questo genere di categorie in politica valgano qualcosa. Ma la parte problematica di quasi tutti questi articoli e comunicati viene dopo questa presa di posizione quando si inizia a parlare di uno scontro tra opposti imperialismi.

Ci pare che questa lettura sia identica e speculare rispetto a quella dei “campisti” che chi sostiene queste posizioni dice di avversare. Entrambe queste visioni condividono lo stesso errore teorico: l’idea che siamo già in un mondo multipolare in cui diverse potenze più o meno equivalenti si combattono dentro un quadro di competizione tra capitalismi nazionali. La differenza tra le due versioni di questa storia è che mentre i “campisti” ritengono che bisogna sostenere il “polo” ascendente contro il declinante occidente, dall’altro lato si ragiona sulla costruzione di una terza via, né con l’uno, né con l’altro.

Noi crediamo che questa lettura degli opposti imperialismi non sia solo errata, ma anche nefasta.

Ci chiediamo come si faccia a definire un paese come l’Iran uno stato imperialista. Cos’è che qualifica l’imperialismo? Semplicemente la dinamica aggredito-aggressore? Se così fosse ogni guerra, anche una lite di condominio si potrebbe definire imperialista. L’Iran è uno stato teocratico e reazionario che però è nato da una rivoluzione con tratti anticoloniali che mirava a cacciare lo Scià anche per via della sua complicità con lo Stato d’Israele e la strategia degli USA sulla regione. Da allora l’Iran è sottoposto ad un regime di sanzioni ed embargo, ad uno stato di assedio militare permanente. A tenere in piedi la sua economia, la diciottesima a livello mondiale sono principalmente le riserve di idrocarburi. Una parte significativa delle sue risorse economiche è votata allo sforzo di deterrenza nei confronti delle ingerenze occidentali e di alcuni suoi vicini. Come si può pensare che un paese in queste condizioni abbia mire espansioniste sulla regione dettate anche solo da una lettura estremamente semplificante dalle basi economiche dell’imperialismo dal punto di vista marxista cioè l’apertura di nuovi mercati e l’appropriazione delle risorse?

Certo se si pensa ai fasti passati, all’impero persiano, all’influenza che l’Iran ha avuto dal punto di vista culturale, sociale e religioso in Medio Oriente e parte dell’Asia la tentazione di proiettare il passato sul presente può essere grande, ma non si finisce per fare quello che fa uno studioso di geopolitica qualunque? Bisogna ben distinguere tra la nozione di “impero” da un punto di vista storico e quella di “imperialismo” come fenomeno proprio del capitalismo, altrimenti ci si mette nella condizione di non comprendere cosa sta accadendo.

Ci verrà risposto, eh ma i suoi proxy in Medio Oriente? Anche qui si nota una lettura tutta schiacciata sul dibattito politico mainstream europeo e statunitense. Considerare milizie come Hezbollah, Hamas o gli Huthi come proxy è una totale mistificazione. Queste sono organizzazioni che a livello ideologico ci possono piacere o meno, ma sono movimenti popolari, radicati nelle società di riferimento, con una soggettività propria che si sono uniti all’Iran in un’alleanza finalizzata a combattere Israele e gli USA nella regione. Considerarli come gli agenti dell’imperialismo iraniano è ridicolo e controproducente.

Dunque siamo contro ad un cambiamento, alla possibilità di una rivoluzione in Iran? Niente affatto, ma crediamo che se questa non è già avvenuta sia anche a causa dello stato di assedio permanente che l’occidente ha imposto sul paese. La minaccia di diventare come la Libia, come la Siria, come l’Iraq è il collante su cui si fonda la tenuta del regime, su cui si giustifica la sua militarizzazione, su cui oggi anche molti e molte che odiano profondamente la teocrazia si trovano costretti/e a considerarla un nemico meno pericoloso di quelli alle porte.

In questo quadro più o meno esplicitamente alcune (per fortuna non tutte) delle realtà e individualità di cui sopra tifano o si auspicano la dissoluzione dello stato iraniano, nella speranza che questa dissoluzione apra possibilità per le forze emancipatrici. Una grande illusione: ben che vada l’Iran si troverebbe governato da un regime fantoccio e corrotto tenuto in piedi da una delle potenze regionali alleate degli USA e non ostili ad Israele, mal che vada si trasformerebbe in una guerra di tutti contro tutti, nel kaos totale grandemente desiderato dalle amministrazioni democratiche e repubblicane che si sono succedute negli Stati Uniti. Chi ha contatti in Iran conferma che nessuno, a parte qualche opportunista sconsiderato, pur opponendosi al regime teocratico baratterebbe la sua caduta con la distruzione del paese.

Parlare di imperialismi contrapposti mentre Israele porta avanti una guerra genocida con il progetto apertamente dichiarato da parte di alcuni suoi ministri di costruire il “Grande Israele” vuol dire gettare sabbia negli occhi. La logica dei poli opposti è ridicola, mentre Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia collaborano attivamente alla difesa di Israele, mentre Trump è ad un passo dal mettere i boots on the ground, mentre l’Italia presta supporto dalle sue basi militari alla guerra genocida di Israele, mentre l’Europa si rifiuta di imporre sanzioni, dal lato del presunto mondo multipolare la Cina e la Russia si limitano a qualche tentativo di spegnere le tensioni e ad inviare all’Iran qualche carico d’armi. Che poi questi stati a lungo andare saranno costretti a scendere in campo più esplicitamente è un altro discorso, ma chi vuole imporre un controllo neocoloniale a base di kaos e distruzione sulla regione sono gli USA ed i suoi alleati regionali (Israele, Turchia, Egitto, alcuni paesi del Golfo) che, chi più chi meno, hanno una loro autonomia di azione, ma iscritta dentro la visione generale della Casa Bianca per il Medio Oriente (anche se la Turchia inizia a preoccuparsi di essere la prossima della lista, proprio per la continua forzatura di questi paletti).

Lo esplicitiamo giusto per non farci dare dei complottisti, visto che la distribuzione di patenti ad cazzum è uno sport nazionale: la visione generale degli Stati Uniti non è un piano studiato a tavolino, ma si basa su un costante lavoro di logoramento degli avversari per poi sfruttare le finestre di opportunità che si aprono in una determinata fase storica. Ciò non toglie che la direzione, la strategia, sia ben chiara. Gli unici stati a cui è concessa una proiezione imperiale regionale, gli unici a cui è garantita l’impunità totale a fronte di qualsiasi crimine messo in campo sono quelli che collaborano al progetto USA. Gli altri o si piegano o presto o tardi verranno trovate prove della creazione di armi chimiche, della costruzione di bombe nucleari, o di qualsiasi altra cosa che giustifichi le “guerre preventive”.

Continuare ad insistere su questa visione ideologica degli opposti imperialismi non fa che renderci incomprensibili alle masse dei nostri paesi che di fronte a tutta questa morte e distruzione considerano ogni limite, ogni rigidità imposta al piano israelo-statunitense qualcosa di positivo e a renderci ostili gran parte delle masse del sud del mondo che misurano quotidianamente sulla propria pelle cosa vuol dire questo modo di agire dell’imperialismo USA.

Se è fondamentale l’adagio “i popoli si liberano da soli” allora bisogna sostenere le traiettorie che creano le condizioni per cui ciò sia possibile e questo significa opporsi con determinazione al genocidio palestinese, al progetto USA sulla regione ed ai nostri governi che supportano questo progetto.

Come successo dopo il 7 ottobre, sull’Ucraina lasciamo perdere, il riflesso condizionato di una parte del movimento è quella di prendere le distanze e far distinguo, crearsi un cantuccio etico da cui poter dire “guardate ci siamo anche noi”. Questo crea innanzitutto un ghetto in cui ci si parla solo tra simili e poi un’immobilità che danneggia la mobilitazione e crea confusione. In secondo luogo si avalla indirettamente la “coscienza occidentale” sul fatto che siamo la parte giusta del mondo, in cui ci sono più diritti e democrazia. Le soggettività antagoniste, ma le masse popolari occidentali tutte, non hanno che da guadagnare nell’incepparsi della macchina del dominio e del profitto occidentale. Non hanno niente da guadagnare di fronte al disfacimento degli stati che vi si oppongono, anche se questi non sono socialisti. Il progetto statunitense per tutti coloro che alzano la testa è lo schema siriano, libico ed iracheno, non solo per il Medio Oriente.

Per capire che Hamas e la resistenza palestinese rappresentavano la sola opzione in campo contro Israele e i suoi progetti ci sono voluti mesi di distinguo e dibattiti imbarazzanti, che si sono taciuti solo di fronte all’enormità del genocidio sui palestinesi. Ora ci sarà bisogno di vedere Teheran rasa al suolo, la sua popolazione sterminata, magari il disastro nucleare, per capire come il fatto che siano in grado di resistere all’aggressione sionista è ossigeno per i popoli mediorientali e per chi in occidente si batte contro il genocidio?

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