Nessuno tocchi il PD
“Nessuno tocchi Milano” è stato quindi lo slogan attraverso il quale una massa numericamente non ininfluente di persone – sarebbe sbagliato e dannoso non prendere atto della massiccia partecipazione, anche se ovviamente 20.000 partecipanti rimane una cifra calcolata a tavolino nelle redazioni dei quotidiani – si è abbandonata ad uno spettacolo mediatico che prevedeva in primo luogo una vera e propria “identificazione della città – e dei suoi cittadini – con il suo circuito finanziario-commerciale”, come ha ben sottolineato Valeria Pinto nel suo contributo sulla giornata di ieri.
Ma a ben vedere la squallida rivendicazione di chi attribuisce un valore enormemente più alto agli oggetti che, per dirne una, alle vite di centinaia di migranti che affogano quotidianamente nel Mediterraneo cercando di scappare da guerre e genocidi (a quando una mobilitazione di indignazione popolare?) o anche solo alla vita di Klodian Elezi, caduto da un ponteggio mentre lavorava in un cantiere dell’Expo (E chi cazzo è?!? Potrebbero candidamente rispondere i milanesi “angeli delle vetrine” in azione ieri) non è che uno dei dati emersi nella giornata. Questi novelli Mazzarò, per i quali la “roba” e lo status che si consegue nel possederla e nel mantenerla linda e ordinata, anche se si tratta di “roba” altrui (alzi la mano chi detiene quote azionarie di una qualsiasi banca di cui ieri è stata pulita la vetrina con il sorriso), sono la realizzazione e la pura immedesimazione nel partito-della-nazione di matrice renziana. E, peggio ancora, sono felici di esserlo.
Uno dei tanti motivi per cui Expo ha finora ricevuto più critiche e commenti scettici – al netto degli entusiasmi politici di rito – è stato quello relativo allo sfruttamento sottopagato o per nulla pagato di quelli che vengono venduti (o meglio, regalati) come “volontari” ma che nei fatti si tramutano in lavoratori a tempo pieno e a salario vuoto; insomma, che un lavoro non venga retribuito da fastidio anche al più tiepido riformista, certamente non black bloc o presunto tale, che si ritrovi nel limbo tra l’essere additato come “fannullone” o il doversi piegare al ricatto del volontariato. Questo discorso, però, non vale per le centinaia di persone scese ieri in piazza e ben contente di aggirarsi per le strade del centro dimostrando quanta gioia si provi nel sfregare una spugnetta contro un muro mentre il sindaco ti ricorda i doveri civici del buon residente.
Perchè alla reazione spontanea di chi vorrebbe semplicemente aiutare a “dare una ripulita” si aggiunge l’ipocrisia di chi – da governante, e quindi responsabile, almeno in teoria, di quanto accade in città – si fa campagna elettorale riciclandosi come “salvatore della patria” davanti a persone completamente dimentiche dello scempio di cui è stato capace nel corso degli anni. “Basta un poco di zucchero…” e la speculazione, il cemento e le mazzette che hanno accompagnato la nascita di Expo scompaiono grazie a un po’ di sgrassatore e un paio di selfie con le “sciure” della Milano da Bere (o, in questo caso, da ripulire); gli sfratti e le retate nei quartieri popolari svaniscono sotto una coltre di ipocrisia che ci ricorda come la priorità, per chi ci governa, non sia quella di dare una casa a chi non se la può permettere, ma pulire le vetrate e i portoni di chi ne ha talmente tante da potersi concedere di lucidare quelle degli altri.
Beppe Sevegnini – secondo il quale, per un sillogismo che funziona solo nella sua testa, le auto bruciate e le vetrine sfondate il primo maggio sarebbero l’indicatore inequivocabile per cui “adesso l’Expo sarà sicuramente una festa” – scrive sul Corriere della Sera che “«Nessuno tocchi Milano» è la reazione di una città che non è reazionaria, e non vuole diventarlo”. E’ proprio qui, invece, il nodo focale su cui bisogna concentrarsi: “Nessuno tocchi Milano” diventa specchio inequivocabile di una parte di paese (benestante e compatibile alla dialettica renziana) la cui unica forma di protagonismo e riattivazione sociale sarà sempre dettata dalla reazione a movimenti di rottura che altri hanno avuto la forza e la volontà di mettere in campo. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, ad un sentore diffuso e capillare che vede nella classe politica attuale la responsabile dei mali della società (con tutte le sfaccettature che questo sentimento può assumere), l’unica risposta di massa (a)critica debba provenire dalla sponsorizzazione di Pisapia e del PD milanese, vero motore della manifestazione di ieri.
La doppiezza del Partito Democratico – che approfitta di un’attivazione volontaria per reindirizzarla a scopi elettorali e allo stesso tempo per ripulirsi di fronte a una popolazione che prima o poi lo identificherebbe con un apparato riproduttore di appalti truccati, precarietà, cemento selvaggio e corruzione – si esplicita infine in quanto accaduto a Bologna, sempre nel pomeriggio di ieri. Alla passerella sui navigli di Pisapia&friends, che alternavano pose da massaie a proclami cittadinisti, si affiancava la cartolina dalla Festa dell’Unità dove studenti e professori venivano manganellati e pestati a sangue da quegli stessi tutori dell’ordine che nella giornata di venerdì avevano svolto un così mirabile lavoro “evitando che ci scappasse il morto”, come hanno avuto a dire diversi esponenti politici.
Com’era prevedibile nessun moto di indignazione ha scosso la piazza milanese, troppo intenta a lustrare le facciate della città-vetrina d’Italia per accorgersi che a pochi km di distanza lo stesso Matteo Renzi che due giorni prima liquidava i manifestanti della May Day come “quattro teppistelli” ordinava a dei teppisti ben più equipaggiati e pericolosi di sopprimere ogni forma di dissenso a suon di cariche. Ecco, questa è l’immagine più aderente alla narrazione odierna del potere: una classe politica di intoccabili, distanti anni luce dal paese reale ma in grado di pacificarne una fetta sufficiente ad avere la legittimità di governare cancellando le proprie responsabilità con una manganellata da una parte e un colpo di spugna dall’altra.
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