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Verità e Giustizia per Mahmoud!

Anche se si hanno ancora poche notizie, se non filtrate dalla polizia e dai giornali main stream, alcuni fatti sono chiari. Un altro giovanissimo è morto, molto probabilmente inseguito da una volante della polizia, schiantandosi alla guida di una moto a notte fonda. È sconcertante il fatto che Mahmoud Mohamed fosse amico di Ramy, altro ragazzo ucciso dai carabinieri dopo un inseguimento a novembre scorso,nello stesso quartiere. La gravità della situazione del razzismo sistemico e delle violenze della polizia in Italia, in particolare a Milano, continua ad aumetare. A pagarne il prezzo è una intera generazione.

Anche se ancora fatica a chiarirsi la dinamica precisa degli eventi, è chiaro che il ruolo istituzionale e dei giornali sia stato determinante. Anche se non è chiaro se l’inseguimento sia partito a causa di una svolta improvvisa dello scooter alla vista della volante o viceversa, il dato che importa è che, stando alle ricostruzioni del corriere di Milano e di altri giornali, una telecamera di un negozio in zona abbia ripreso lo schianto e l’arrivo della volante una decina di secondi dopo. Questo lascia pochi dubbi sul fatto che ci sia un qualche fattore di responsabilità della volante in questione. Come nel caso di Ramy probabilmente ci vorrà del tempo perché affiorino ulteriori dettagli e nulla va dato per scontato viste le fonti.

Quindi ci chiediamo, sicuri di non essere i soli, se quegli stessi poliziotti in un altro quartiere, magari non in periferia, avrebbero agito alla stessa maniera. È cosa nota che ormai in periferia a Milano, le forze dell’ordine si comportino in maniera diversa e molto più zelante, per il solo fatto di essere in un territorio da loro considerato “differente”, meritevole di maggior controllo repressivo; perché così è stato deciso nei piani sicurezza della metropoli milanese.

Ci sembra fondamentale provare ad analizzare le dinamiche di quello che è successo. La presa d’atto della gravità del fatto da parte della Questura, mette subito in moto un meccanismo preventivo di militarizzazione e controllo ulteriore. Militarizzazione dell’ospedale in cui è stato portato Mahmoud, dispiegamento di camionette sul luogo dell’incidente, come testimoniano gli stessi video dei servizi giornalistici di questi giorni. Si aggiunge una probabile anche se di difficile verifica al momento, diffusione di veline costruite ad hoc per i giornali, per dare il La alla macchina del fango.

Questo atteggiamento è frutto di una strategia decisa a priori, che scaturisce dalla paura di come possa rispondere chi vive nelle periferie milanesi alla notizia. In un meccanismo di risposta automatica, a violenza poliziesca se ne somma altra. È importante evidenziare questo atteggiamento preventivo, per vedere la natura coloniale dei piani di gestione dell’ordine pubblico, non perché un intervento reattivo fosse invece auspicabile o più “giusto”.

I giornali sono i secondi protagonisti della gestione violenta della vicenda. Subito si innesca la macchina della denigrazione, la creazione del mostro, la colpevolizzazione di Mahmoud. Non è solamente una strategia di mercato di giornali abituati a trattare tutto con sensazione per vendere più copie e acchiappare clic sull’infosfera, ma risponde anche ad una paura e ad una funzione sistemica. La paura è quella della possibile risposta violenta da parte degli abitanti del Corvetto, la fobia della rivolta. La funzione è quella di isolare la solidarietà dell’opinione pubblica, dei lettori, dare una versione che impedisca l’indignazione e traferisca la colpa dalla polizia a Mahmoud. Subito si iniziano a diffondere notizie inventate di sana pianta. Prima il fatto che scappasse perché aveva rubato qualcosa, falso e mai dimostrato, e anche se fosse, non giustificherebbe comunque niente. Poi l’assalto dei parenti e amici al pronto soccorso, mai avvenuto, e poi non più ripreso in seguito. Questa notizia è particolarmente fastidiosa perché vuole trasformare il dolore di una vita spezzata, in una funzione per costruire l’immagine dei barbari non civilizzati, incapaci di controllare i loro impulsi che sfogano la loro cieca violenza congenita contro tutto e tutti. Anche questa notizia si rivela falsa, e comunque anche là dove il dolore si fosse trasformato in episodi di violenza scomposta, quello non sarebbe stato un modo rispettoso e adeguato di darne notizia. Guidava senza patente, si scopre poche ore dopo che aveva il foglio rosa e quindi anche questa si rivela una fake news. Va notata la rapidità,la quantità e la qualità delle menzogne e va collegata a quanto successo a Ramy a Novembre scorso perché vuol dire che il meccanismo si è sedimentato come prassi nelle redazioni, rendendo ancora più urgente la necessità di notizie indipendenti e verificabili su quanto è successo e su quanto succederà nei prossimi giorni e mesi.

Solo dopo un giorno iniziano a circolare immagini e interviste di persone che mettono in dubbio le ricostruzioni ufficiali e danno voce a Mahmoud al suo ricordo, alla sua persona.

Alla fine se mai saranno chiare le dinamiche, una delle cose importanti è capire che in ogni caso non è stato un incidente, ma il naturale effetto della pressione istituzionale sui giovani che abitano le periferie delle nostre metropoli e piccole cittadine. Il fatto che la polizia agisca con una prassi violenta, crea una risposta giustamente guardinga e di autotutela da parte dei giovani, il comportamento diffuso fra chi ha conosciuto la violenza poliziesca è quello per cui non serva un motivo particolare per subirla. Si è colpevoli per quello che si è, non per quello che si è fatto. Quindi evitare di farsi fermare e controllare non ha nulla di strano, è anzi una pratica che evita ulteriori vessazioni immeritate. Non c’è una situazione in cui le forze dell’ordine svolgono il loro lavoro in maniera corretta, esistono solo sfumature e gradi di espressione della loro funzione sociale. La criminalità e la violenza orizzontale fra i i proletari e le proletarie non diminuisce a seguito di un comportamento virtuoso della forza pubblica, ma per altre dinamiche che hanno a che fare con la solidarietà e i processi di lotta collettivi.

Nessuno in questa vicenda riesce a dare protagonismo a Mahmoud, a dire le ragioni profonde di questa tragedia, ad amplificare la voce di chi lo ha conosciuto, delle persone che condividono la sua condizione. L’importanza del protagonismo e dell’ emersione di un punto di vista autonomo di chi vive le condizioni del razzismo sistemico è la condizione per un percorso di riscatto. E anche se questa volta non ci saranno rivolte o episodi di conflittualità verso la polizia, non è meno urgente lavorare per la costruzione di percorsi di liberazione collettiva. Non è un fuoco di paglia quello che sta bruciando questa generazione, ma lava rovente.

Qui di seguito un intervista di Lugi Mastrodonato da Radio Blackout

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