
Non ci sono più diritti ma premi

di Vincenzo Guagliardo, maggio 2013 (insorgenze.wordpress.com)
Nel nostro comune immaginario, la tortura si concentra in episodi  eccezionali, in particolari circostanze, per una durata di tempo  “relativamente” limitata al fine di estorcere una confessione, ma  soprattutto – in realtà – per spezzare un individuo, annichilendo la sua  volontà, distruggendo cioè gli animi prima ancora che i corpi. Oggi  questi confini che abbiamo posto nella nostra mente si fanno sempre più  labili. L’indifferenza con cui, per esempio, si continua ad accettare il  “sovraffollamento” carcerario nasconde una realtà torturante, volta a  distruggere l’individuo dal punto di vista psicofisico, ed è una realtà  che sta diventando sistema: applicato a migliaia di persone come  condizione di vita quotidiana prolungata. Ma c’è di più. Per esempio: i  molti che scontano l’ergastolo con il cosiddetto reato “ostativo”.  Costoro non possono usufruire di alcun beneficio previsto  dall’ordinamento penitenziario e perciò, in teoria, possono solo  aspettare la morte in carcere. In teoria, perché il “trucco” c’è: se  “collaborano”, questa condanna a morte a secco e diluita nel tempo viene  ritirata… In pratica, queste persone possono uscire da lì solo se  accettano di mandare un’altra persona al loro posto!
 Ebbene, molti di questi ergastolani non lo hanno fatto.  Qualcuno ha detto che non lo fanno per non esporre i loro cari a  rappresaglia. A prescindere dal fatto che preoccuparsi della sorte  altrui è una scelta rispettabile che nulla toglie all’orrore del ricatto  posto loro, c’è da dire che non è solo così perché non può essere solo  così. E basta leggere i loro appelli, le loro lettere e testimonianze  per rendersene conto. Il fatto stesso di accettare di morire in carcere  se non cambia questa legge ricattatoria è oggi una delle più alte  espressioni di una resistenza per la libertà di coscienza di tutti e per  la dignità d’ognuno, offese da un sistema penale “impazzito” e  accettato con il silenzio generale. Le condizioni estreme possono  distruggere un individuo, ma possono anche suscitare una dolorosa presa  di coscienza alla quale è prezioso rispondere, scoprendo gli orizzonti  di una non-collaborazione che non avevamo preso in considerazione e  rendendoci così i ciechi complici di una nuova Inquisizione.
 Ma da dove viene questo “impazzimento”? Intanto – direbbe Shakespeare –  bisogna notare che in questa follia c’è del metodo. Proviene dall’alto, a  partire dallo stesso potere legislativo, e non dalla cattiveria del  singolo che poi vi potrà trovare il suo spazio congeniale. C’è infatti  sempre meno ipocrisia nella pioggia di provvedimenti vari e leggi che  creano questo inferno delle anime, che investe, prima ancora del  carcere, già il processo, per esempio con l’istituto del patteggiamento:  cioè con la riduzione delle aule di giustizia a un mercato. Al centro  di questa nuova logica che prima si nascondeva nel buio più profondo  delle carceri, o nelle tecniche di tortura, nascoste dietro situazioni  “particolari”, si affaccia come sappiamo dagli anni ’80, cambiando il  volto delle stesse leggi, il “premio” che progressivamente sostituisce  tutto ciò che fino a ieri intendevamo come “diritto”. E’ evidente in  lingua italiana che se ti dico che una cosa può spettarti solo come  premio, è perché non ti spetta più come diritto. E se non ci stai,… ti  distruggo. Perché dove c’è premio, c’è punizione per chi non lo merita:  il “pentito” esce, e spesso riprende a compiere reati, il non-pentito  vive il carcere ostativo… Ma lo scopo di questa strategia, d’altronde,  non è quello di far diminuire i reati né quello di punire i rei…
 La premialità infatti instaura così facendo un regime totalitario che pretende il controllo sistematico e capillare degli individui al di  là dei loro comportamenti, fino a colpire la loro realtà interiore. Non  vuole cittadini “perbene” ma nuovi sudditi. Questa  pretesa, perciò, crea inevitabilmente anche il suo contrario al momento  della sua applicazione: l’arbitrio. Una prassi penale fuori dal diritto.  Ed è qui che non possiamo più stupirci quando si affacciano personaggi  come la defunta suicida direttrice di carcere Armida Miserere.  Aveva fama tra i reclusi di non essere a posto. I reclusi avevano  torto. Veniva persino mandata in missione quando c’era da mettere “a  posto” qualche carcere e nella sua lettera di addio al mondo accenna di  aver fatto parte di quella nuova struttura di intelligence (ossia di  spionaggio) realizzata nelle… carceri (!) quand’era ministro della  giustizia il “comunista” Diliberto. Miserere forse non ha più retto  questo ruolo – in tal caso ciò vada a suo merito –, ma è stata lo stesso  un’avanguardia che oggi è sempre meno sola.
 Oggi hanno fatto un film con la Miserere come eroina, interpretata da Valeria Golino.
 L’ipocrisia del potere, in fondo, era una mezza virtù. Quando fingi di  onorare certi princìpi mentre vuoi fare l’opposto, sei comunque  costretto a mascherarti, e quindi a limitarti. L’ipocrisia è un freno a  quell’arbitrio totale che è il frutto inevitabile dei sogni di controllo  totalitario. Oggi il “liberismo” penale non è più ipocrita. Ha  finalmente portato alla luce del sole il nucleo da sempre nascosto del  sistema penale nei suoi angoli più bui o nelle sale di tortura. Ora, chi  ha occhi per vedere, può capire e riflettere.
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