Passare all’offensiva: ipotesi di approccio antagonista alla comunicazione
Intervento (da Bologna) nel tavolo di discussione “Strategie di governance e offensiva antagonista nello spazio mediale”, domenica 19 giugno 2016.
Il tema della comunicazione, su cui da molti anni siamo portati a confrontarci, senza forse mai arrivare ad un punto che riesca a risolvere effettivamente la portata e la complessità della questione, è senza dubbio centrale se vogliamo parlare di come, nel 2016, riusciamo a costruire un contro uso dei social network o dei media che sia di parte e collettivo.
La comunicazione è anch’essa un terreno da esplorare, da agire. È ormai parte totalizzante delle nostre vite individuali e collettive, determinata appunto dalle relazioni sociali e politiche che riusciamo a mettere in campo nei terreni fisici che attraversiamo e sui cui vogliamo creare basi antagoniste di contropotere.
I momenti liberi, i momenti di svago, i momenti di lavoro, i momenti di socialità, sono segnati da un approccio comunicativo; non possiamo tendere a guardare la comunicazione come un terreno meramente immateriale e virtuale, o meglio la virtualità è compresente alla nostra realtà quotidiana.
Sappiamo che i nostri corpi (e quindi anche le nostre menti) vengono quotidianamente determinate da quelli che siamo abituati a chiamare media mainstream e di cui siamo potenzialmente consumatori. Pubblicità, allarmismo, retoriche emergenziali che vengono dall’esterno e dalla controparte, tendono a sovradeterminare i soggetti per svuotarli di contenuti rivoluzionari e indebolirli e nel fare questo non solo agiscono un attacco frontale alle possibilità di attivazione sociale liberogene ma ci mettono quotidianamente a lavoro, estraendo tra i nostri comportamenti nel web 2.0, merci.
E’ anche vero che a partire dai processi rivoluzionari in nord africa il media 2.0 ha rivestito un ruolo molto importante nello sviluppo dei movimenti e in alcuni casi si è configurato come una vera e propria piattaforma di organizzazione sociale. In Tunisia, in Egitto e in Spagna durante i picchi più potenti il 2.0 ha giocato un ruolo decisivo. Da quelle esperienze, ormai rifluite, sono rimasti degli usi che a mio avviso rappresentano una sorta di simulacro di ciò che fu: mi riferisco alla così detta tecno-politica spagnola o ad altre esperienze che consumatasi la spinta rivoluzionaria di questi strumenti ne hanno fatto dei simulacri e delle ideologie. Dobbiamo riconoscere che dalla fine del 2011 ad oggi anche un esperienza possente come quella di Anonymous è andata a mano a mano a perdere forza politica antagonista. E quindi possiamo ritenere che quella fase si è conclusa.
Con ciò però non voglio dire che una riflessione e uno sviluppo di pratiche online e nello spazio mediale non vada più pensata e che, anche a partire da quelle esperienze, non bisogna farne un uso ideologico o peggio ancora viverle in una sorta di appagamento emozionale per cui la quantità di un like su un video di un azione di un collettivo diviene il metro di giudizio per la qualità dell’azione stessa. Il contro uso delle tecnologie mediali va sempre definito infatti per la sua capacità di incidere nei rapporti di forza concreti e non sulla mera sfera dell’opinione pubblica.
Ricordo un testo di Info Free Flow che prendeva l’esempio del 19 ottobre: le retoriche iperallarmiste che hanno tentato in ogni modo di disincentivare la partecipazione alla piazza contro l’austerity, non hanno funzionato. La partecipazione è stata tra le più elevate e media e forze dell’ordine hanno tentato in ogni modo con miseri giochetti mediali di nascondere la realtà oggettiva della giornata per concentrarsi su particolari poco influenti, con risultati ridicoli. Ma questa non è una novità. La parte interessante su cui secondo me è necessario concentrarsi non sta sulla difensiva, ma sull’offensiva: il 19 ottobre abbiamo dimostrato come l’autorganizzazione non sono in termini fisici ma anche virtuali, è riuscita a garantire una totale copertura della giornata ponendo in risalto un perfetto controutilizzo dei sistemi d’impresa e della rete.
Dalla pianificazione di una campagna comunicativa sul tutto il territorio nazionale (coordinamento tra radio, portali di movimento, singoli mediattivisti, ecc), dal fatto che si è riusciti in qualche modo a creare un immaginario soddisfacente che ha colto un nodo importante: quello della rappresentazione. Riuscire in qualche modo a far svincolare la composizione da una rappresentazione data dai media mainstream per cogliere le potenzialità del riuscire ad auto-rappresentarsi, seppur tramite hashtag e non solo, nella conflittualità che ha unito e che unisce nel rapporto tra strada e rete.
Altro esempio potrebbe essere il notav che ha visto nelle sue fasi di picco dello scontro un luogo di valorizzazione antagonista nella rete, sollecitando partecipazione e allargando di molto l’informazione di parte a settori prima difficilmente raggiungibili.
Detto ciò va fatto chiarezza non è opera di un semiologo o di un genio della rete ad innescare questi processi ma semmai la capacità di una piattaforma mediale di essere prodotta e sviluppata o vissuta e poi eventualmente curvata dalla composizione di riferimento. L’esempio delle piattaforme della musica rap in francia durante l’insurrezione della banlieue è lampante a tal proposito!
Ci si interroga spesso su come fare breccia nella composizione giovanile cresciuta a “pane, internet e moral panic”, ma non possiamo negare il fatto che su un suo segmento qui in Europa ad aver riempito il vuoto lasciato dai movimenti sociali è arrivata la propaganda dell’ISIS che ha saputo usare le piattaforme giuste e l’estetica adeguata, seppur politicamente perversa, a quel segmento lì. Questo nodo deve saperci interrogare a fondo.
È ad esempio interessante notare come le truppe dell’isis controutilizzino una moda mediale derivante dall’occidente: nei filmati autoprodotti che diventano virali sul web (tralasciando storie di decapitazioni e distruzione, che interessano solamente ai media mainstream) vediamo ricorrere spesso dei temi che vengono poi ripresi dai videogames, avendo molta attrazione verso i più giovani. Anche la spettacolarizzazione delle proprie iniziative ricorda un ambiente quasi holliwoodiano nei suoi messaggi da trailer cinematografici, che trovano facile viralizzazione tramite youtube, riuscendo in qualche modo ad attrarre anche molti europei
possiamo quindi dire che, in qualche modo, il controllo sociale che riesce a detenere l’ISIS tra i giovani è un controutilizzo di quelli che sono i media mainstream occidentali (soprattutto americani, se vogliamo). Non voglio di certo dire che dobbiamo prendere ispirazione da quelli che sono metodi e modelli di Daesh, ma porre questi punti in riflessioni che non andranno di certo sviscerate in poco tempo. D’altra parte, per tornare sul nostro territorio, sappiamo bene che la spettacolarizzazione di eventi e azioni è talvolta controproducente: la comunicazione, se ben fatta, narra la realtà dei fatti che è ovviamente di parte e antagonista, ma non deve nemmeno esaltare il falso o ciò che non accade realmente o il probabile. Perderemmo di credibilità nei nostri referti sociali e questa sembra una pessima abitudine in voga spesso tra alcuni collettivi.
Potremmo aprire un altro piccolo capitolo di discussione, che riguarda soprattuto i più giovani, come precedentemente accennato, cresciuti a pane e internet.
Siamo perfettamente a conoscenza di come internet sia considerabile uno strumento ambiguo: da un lato funge perfettamente da strumento funzionale alla legge del valore (intesa quindi come valorizzazione e accumulazione da parte del capitale), utile quindi per organizzare e sfruttare al meglio la forza lavoro (pensiamo alla reperibilità 24h). Dall’altro lato, con un controutilizzo “d’attacco” al capitale, l’utilizzo di smartphone e internet, diventa strumento di organizzazione si, ma delle forze sociali e delle lotte, non solo tra militanti.
Vivere costantemente con uno smartphone che può squillare a qualsiasi ora del giorno può rendere la realtà distopica o farcela vivere in orwelliana maniera, ma dobbiamo fare i conti con la positività militante che produce: allargamento del territorio (che da fisico diventa anche immateriale), costante connessione tra informazione e fatti avvenuti, condivisioni e visibilità alternative ecc..stando sempre fermi al punto che non penso esista territorializzazione virtuale se non vi è comunicazione con la nostra gente: o meglio, migliaia di likes in un video non fanno di certo la territorializzazione nei quartieri o conflitto e scontro reali. Il controutilizzo dei media è solo un modo per narrare a chi non c’era.
Assistiamo in qualche modo ad una contrazione dello spazio e del tempo come ad una sua velocizzazione. Siamo noi che determiniamo la realtà o la realtà è determinata nel virtuale, dalle informazioni? Siamo in grado di reggere il confronto con la potenza delle imprese di rete o rischiamo di esserne assorbiti e travolti? La liberazione attraverso il virtuale è ormai solo illusione e distopia? L’hacktivismo, la twitter revolution nelle primavere arabe, l’illegalità diffusa tra streaming e download è diventata illusione tra i giovani?
Certo, internet è stato ed è ancora effettivo mezzo di lotta e potenziamento delle lotte, ma solo dove dei movimenti reali, culturali e di lotta ne riescono a curvare le istituzioni e a egemonizzarne momentaneamente il flusso.
La ormai decennale battaglia tra media mainstream e media “ribelli” non ha ancora un vincitore: è evidente che in questo periodo storico internet non ha ancora assunto una centralità totalizzante che permette di scalzare strumenti mediali come TV, radio e giornali, ma la possibilità dell’aver internet in tasca da sicuramente un ampio raggio di possibilità da cavalcare, trend da controutilizzare, soggetti da raggiungere in pochi secondi. Il tutto sta nel non restarne dominati, ma sottrarsi ai processi di valorizzazione capitalista e contrutilizzarli per fare antagonismo.
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