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Per una lettura materialistica delle vicende medio-orientali

 

INTRODUZIONE

Le conquiste di Daesh (nome arabo di quello che qui da noi viene erroneamente tradotto in Stato Islamico) in Iraq e Siria sono soltanto gli ultimi avvenimenti sfruttati dai media mainstream per riproporre la storia di una (presunta) decadenza della civiltà medio-orientali legata all’Islam.

Funzionale alla riproduzione di pseudo-analisi dal carattere marcatamente orientalistico che usano come prisma di lettura quello della religione islamica, e la sua presunta incapacità ad adattarsi alla modernità, la narrazione occidentale del Vicino e del Medio Oriente ha una storia secolare come fenomeno culturale e politico.
Essa non è una vuota astrazione, ma è la risultante della cristallizzazione dei rapporti di forza costituitosi nel tempo (già la stessa definizione di Medio Oriente presenta aspetti di parzialità linguistica, dovuti alla forza di chi ha imposto questa etichetta) e il prodotto di energie materiali ed intellettuali dell’uomo.

Come ha magistralmente illustrato Edward Said nel suo “Orientalismo”, questo sapere è diventato scienza in Occidente, e la distinzione sia epistemologica che ontologica tra l’Oriente da un lato e l’Occidente dall’altro è diventata narrazione e lettura tassonomica del sapere universalmente accettata in campo accademico ed extra-accademico.

Quanto detto finora è oggi paradigmatico nella narrazione dei fatti che ci vengono riproposti sul Medio Oriente.
Guardiamo, per esempio, ad ISIS/Daesh. Nella narrazione occidentale dei crimini perpetrati da questo gruppo l’aggettivo “islamico” viene continuamente riproposto, come se all’interno di una presunta scala di valori legata alla religione Islam vi si trovi la giustificazione per il taglio delle teste, l’uso dei bambini come soldati e la distruzione di reperti storici ed archeologici di civiltà passate.

Al contrario nessuno si è sognato minimamente di appioppare l’etichetta di crimine “ebraico” o “giudaico” all’orribile assassinio di un bambino di 18 mesi da parte di coloni israeliani commesso qualche settimana fa: mentre infatti sette ebraiche radicali che predicano la violenza contro il nemico “arabo” citando la Torah non sono considerate rappresentative in maniera alcuna del giudaismo, ad ISIS/Daesh è stato concesso il potere di poter parlare di umma islamica e rappresentare in toto l’Islam.

ORIENTALISMO 2.0

Parlare di disonestà intellettuale è il minimo, ma c’è di più. C’è una scienza dietro, c’è un organizzazione della narrazione, c’è insomma un epistemologia funzionale alla riproduzione di certi discorsi: è l’orientalismo di cui parla Edward Said (Orientalism, 1978).

E questa narrazione egemonica esterna dell’area e dei suoi accadimenti si riflette anche sugli stessi attori dell’area: molti modelli dell’immaginario collettivo rimangono inchiodati ad un passato reificato e idealizzato come passato di grandezza perduta-quello del Califfato e della Umma islamica-, e dove il fallimento è fatto risalire allo scisma primordiale dell’Islam sulla successione al Profeta-sunniti vs sciiti. Questa visione delle cose è stata in parte il risultato dell’islamizzazione delle società portata avanti, con il beneplacito delle potenze occidentali, dopo gli anni ’60 per contrastare il nazionalismo arabo di carattere secolare.

Tornando alla visione esterna, la predominanza odierna di narrare gli accadimenti e le società della regione tramite l’elemento etno-religioso- l’Islam come fatto sociale totale, elemento che strutturerebbe tutte le dinamiche della società, e il (presunto) tribalismo beduino di solidarietà clanica (asabiyya)-non tiene conto della complessità dell’organizzazione sociale e dei mutamenti-composizione sociale e tecnica, organizzazione sociale e del lavoro, ambientale, ecologica, economica- che la regione ha subito (Hinnebusch, Authoritarian persistence, democratization theory and the Middle East: an overview and critique, 2006).

Al tempo stesso questa narrazione, radicatasi anche grazie all’accademismo e alla letteratura scientifica americana, ha fatto della forza dell’appartenenza a comunità specifiche il suo mantra scientifico, contribuendo così all’abuso di concetti etno-antropologico-”nazionali”- con dicotomie irriducibili tra maggioranza arabo-sunnita vs minoranze-sette religiose ed etniche- abilmente sfruttati dai media mainstream e dagli stessi ambienti accademici, che hanno contribuito così a spostare l’ordine del problema dal piano politico ad uno (abilmente concentrato sugli elementi di differenza invece che su quelli di condivisione) etnico-religioso.

Qui si ritrovano due ordini di problemi: uno è quello legato alla forte influenza delle potenze esterne sulla regione-colonizzazione, influenze geopolitiche- che (secondo problema) hanno abilmente sfruttato determinati gruppi portatori di determinate memorie collettive e patrimoni storici-religiosi ed etnici-, perpetrando così il proprio dominio sull’area e sulla narrazione della stessa.

PER UNA STORIA SOCIALE DEL MEDIO-ORIENTE

L’onesta intellettuale dovrebbe invece ripartire da una separazione tra la monotona antropologia religiosa e concentrarsi invece sulla storia dell’organizzazione sociale, politica e secolare delle società dell’area medio-orientale, quelle dove l’Islam è la religione dominante.

Affrontare l’Islam come religione, riordinando la percezione storica tra una storia “sacra”-dove le società raccontano sé stesse e si danno dei miti di fondazione di supporto alla propria identità e fede- e una “secolare-sociologica”-concentrata sui popoli, sul loro vissuto e sui loro mutamenti in chiave comparativa.
Procedendo in tal modo l’ordine dei problemi verrebbe ristabilito dal piano etnico-religioso a quello politico, evidenziando come siano ancora fattori materiali a poter spiegare la dialettica del mondo medio-orientale, e non presunti “difetti morali”-incapacità dell’Islam ad adattarsi alla modernità, solidarietà clanica….- intrinsechi alle popolazioni della regione.

Così la mancanza di democrazia e la persistenza dell’autoritarismo, allo stesso modo dei bassi livelli di crescita economica e sociale, possono essere spiegati non più come prodotti della sopravvivenza di forme associative tradizionali (asabyyia) più tolleranti nei confronti di leadership autoritarie, ma come risultanti di determinate strutture materiali.
In tal modo l’autoritarismo dello stato rentier e neo-patrimoniale spiegherà le conseguenti distorsioni dell’economia petrolifera (Schwartz, The political economy of state-formation in the Arab Middle east: rentier states, economic reform and democratization, 2008).

In primo luogo, in questo tipo di governance, il consenso statuale e i processi di state-building sono stati gestiti (e lo vengono tuttora) in termini di integrazione e cooptazione di intere classi sociali che, in cambio di un welfare-state gratuito, assicurano il loro sostegno alla leadership, perpetuando così l’immobilismo sociale e barriere contro il cambiamento democratico.

Il rapporto stato-cittadino é dunque lontano da un patto sociale dato da precise regole costituzionali, ma è basato su relazioni economiche a diversi gradi di privilegio, a secondo dell’accesso alle rent-allocation del governante, che garantisce l’esistenza di un welfare-state e incentivi statuali.

In secondo luogo, in questi paesi dove le fonti della rendita economica sono concentrate nelle mani dello stato, ed essendo queste fonti sono totalmente dipendenti dall’economia mondiale e dai suoi sviluppi (fluttuazioni petrolifere), il carattere di economia di rendita passiva è stato amplificato dall’inserimento in relazioni di dipendenza strutturale centro-periferia.

All’interno della divisione del lavoro internazionale, l’economia del Medio Oriente è rimasta così collegata all’economia mondo esclusivamente attraverso l’esportazione di materie prime grezze o semi-grezze.

A questi tipi di rendita si è aggiunta quella geopolitica- USA vs Urss prima, oggi Cina vs Russia vs USA-, abilmente sfruttata dalle leadership regionali, che ha fatto sì che i paesi dell’area ricevessero e continuino a ricevere aiuti massicci da tutti i contendenti.

Ergo, data la mentalità rentieristica, non vi è stata nessun interesse ad impadronirsi delle tecniche e della scienza industriali, e l’unica posta economica in gioco è stata l’appropriazione dello Stato distributore di rendita. Con tutte i riflessi e le distorsioni sulla società che ne conseguono: parziale e superficiale industrializzazione, industria petrolifera enclave senza connessioni, sindrome olandese, fuga di cervelli, boom edilizio, alta importazione tecnologia esterna…

E dall’inizio del XX secolo, contro tutti i tentativi di cambiamento dell’ordine sociale in chiave progressista, tutto è stato utilizzato: dall’ideologia religiosa col ricorso alla sharia’a alla solidarietà di clan, passando per socialismi di stato e controrivoluzioni.

Inoltre, nella destabilizzazione della regione, il colonialismo e il neocolonialismo hanno avuto un effetto preponderante, basti pensare al portato dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003 e all’esacerbarsi del discorso settario.
Insieme con le strutture materiali dei pattern economici-e le conseguenti distorsioni dell’economia di rendita, la crescita demografica e il cambiamento climatico sono categorie centrali per comprendere l’attuale situazione dell’area.
Area dove determinati gruppi come ISIS/Daesh- meri procuratori di regimi regionali che utilizzano in maniera funzionale la retorica religiosa per cambiare a loro favore i rapporti di forza-possono trovare terreno fertile.

Ed è proprio il discorso demografico che ha determinato l’emergere delle primavere arabe, e non, come è stato letto da molti media mainstream, un fantomatico “risveglio islamico” delle popolazioni della regione.

Il 28% della popolazione infatti è compresa nella fascia di età 15-28 anni, mentre più del 60% della popolazione è al di sotto della soglia dei 25 anni, con un’età media di 22 anni, rispetto ad una mondiale di 28.
Nel frattempo il tasso di disoccupazione medio giovanile si attesta sul 35%, con punte del 45/50% in alcuni stati della regione, a fronte di un altissimo livello di immatricolazione e lauree nelle università.

La cristallizzazione del mosaico sociale e l’immobilismo politico, arricchito da corruzione e coercizione degli stati regionali, sono state messe in discussione dal risveglio socio-politico di queste “eccedenze”, composte da classi povere appena inurbate escluse dalla distribuzione della rendita e/o dalle classi medie e istruite, stufe della cooptazione e di essere relegate ai margini della rappresentanza politica.

Ed è proprio da queste eccedenze e dalla rinascita/continuazione delle primavere arabe- esplose sull’onda di un reale abbattimento delle strutture socio-economiche predatorie e patrimonialistiche- che sorge una risposta di giustizia sociale e di ricomposizione delle forze del cambiamento nella regione.

Possiamo dunque provare a spiegare la decadenza e la destabilizzazione dell’area continuando a riferirci alla presunta incapacità della religione islamica di adattarsi alla modernità, o imputare agli arabi-come fa per esempio Hisham Melhem su Politico- il collasso della regione e l’esistenza di gruppi fanatici come ISIS.
D’altronde molti stessi pensatori islamisti sono giunti alle medesime conclusioni: il mondo arabo-islamico è punito per la caducità morale dei suoi costumi, ormai troppo decadenti.

Possiamo però smettere di usare queste categorie posticce, e analizzare in maniera scientifica e dialettica il passato e il presente dell’area, dove la risoluzione della questione economica e sociale venga al primo posto, insieme con la fine delle interferenze straniere e la pervasiva dipendenza di molti stati regionali da un patron esterno.

L.C.

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