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Piazza Taksim: Crossing the bridge

 

La mobilitazione di piazza Taksim solleva gioco forza alcune domande importanti. Siamo di fronte a un nuovo passaggio dell’onda lunga primavera araba/occupy? C’entra la crisi globale o si tratta più di una rivolta da “aspettative crescenti” proprie di un ciclo economico espansivo? E cosa ci dice rispetto al futuro prossimo in Europa? Interrogativi che al momento non possono forse essere risolti completamente ma servono a muovere qualche passo oltre il giusto entusiasmo per queste giornate.

Diamo per scontato in prima battuta che la Turchia ha visto negli ultimi dieci anni di governo Akp (il partito islamista sunnita) tassi di crescita economica notevoli, quasi da Brics, seppure in diminuzione e un impatto fin qui minimo della crisi globale. A maggior ragione deve essere giunta inaspettata la reazione spontanea e generale, ben oltre Istanbul, all’ennesima “grande opera” di gentrificazione del territorio urbano varata con l’ormai consueta arroganza dall’élite politico-affaristica. Ma soprattutto sono le caratteristiche, la composizione, le modalità di azione e cooperazione della rivolta a dirci che siamo di fronte a qualcosa di più profondo, legato alle esplosioni di soggettività dalla Tunisia in poi. Vediamo.

Primo, un effetto scintilla: una singola vicenda locale, certo segno di una questione più generale ma comunque limitata nelle richieste, fa saltare gli equilibri con modi e tempi imprevisti e accelerati, amplificati ma non creati dai nuovi media. Secondo, il contagio rivela un’ampiezza inimmaginabile nella composizione e nella diffusione territoriale della protesta. Praticamente tutte le città della Turchia rispondono, mentre sulle strade e nei quartieri si incontrano soggetti di ogni tipo, età, provenienza sociale, esperienza politica e di vita. Una comunità di lotta vivificata al di là di tutte le differenze dal protagonismo dei giovani, emblema del futuro di una società che non può essere abbandonato al cinismo dei potenti e alla violenza di una polizia tanto stupida quanto spietata. Terzo, un effetto specchio: una dinamica così ampia e improvvisa è possibile a misura che nella singola situazione ciascuno possa riconoscere il proprio singolo dramma articolando un urlo di protesta e un desiderio di cambiamento che si con/fonde con quello degli altri, nel duplice senso che diviene aspirazione comune e però in prima istanza indeterminata. A monte, come precondizione, una vivacità di fondo della società, che le reti di contatto tra comunità e tra individui insieme ai social media aiutano a costruire e socializzare.

Tutto ciò non significa negare per amor di “spontaneismo” la presenza anche di organizzazioni politiche e sindacali -di sinistra e, in senso lato, nazionaliste- sia nella risposta di piazza che, prima, nella tenuta del tessuto organizzato di quei settori rimasti, da ultimo con grosse difficoltà, estranei all’egemonia politica, sociale ed elettorale dell’Akp. Del resto è stato il tentativo, non riuscito per la brutalità della polizia, dell’estrema sinistra e dei sindacati più combattivi di arrivare con i cortei dello scorso primo maggio a piazza Taksim a rivelare alla città e all’intero paese l’enorme dispositivo da “zona rossa” approntato dal governo Akp di Istanbul e motivato proprio con i lavori di rifacimento in corso: decine di migliaia di poliziotti, sbarramenti intorno alla vie di accesso alla piazza dal giorno precedente, trasporti pubblici e traghetti bloccati e ponte di Galata sollevato! Ciò non toglie che anche in Turchia qualcosa deve essere cambiato, con l’irrompere della variante islamista, sia nella tradizionale polarizzazione politica sinistra (antimperialista, turca e kurda)/campo nazionalista (dai kemalisti, ai quadri dell’esercito fino ai gruppi fascisti) sia nella capacità di radicamento sociale delle organizzazioni tradizionali. Anche lì hanno agito in profondità gli effetti dei ribaltamenti geopolitici nonché geoeconomici degli ultimi decenni. Il che comporta che oggi la sinistra in senso lato, anche quella sindacale che conserva una relativa tenuta in alcuni settori produttivi, non ha più una capacità di iniziativa generale come in parte ancora fino alle lotte operaie di fine anni Novanta-inizi Duemila (quelle che misero definitivamente in crisi i governi filo-Fmi controllati dai militari, risultato raccolto comunque dall’Akp). Quando si muove “da sola” però può operare almeno da rivelatore di umori profondi, in vista di una sua radicale trasformazione possibile a patto di saper interpretare standoci dentro fino in fondo le nuove dinamiche antagonistiche della società. (Esempio: la presenza di bandiere nazionali e con l’effigie di Kemal Ataturk, posto che sia massiccia come sembra da foto e video, come va letta? Tentativo di egemonia dei nazionalisti “laici” in un movimento in cui il carattere di classe nei termini tradizionali è assai diluito oppure una sorta di riappropriazione dal basso di un simbolo che, con tutti i se del caso, unisca e non divida la piazza e il paese, in modi non dissimili da quanto abbiamo visto nelle lotte di questi ultimi due anni?).

 

L’insieme di queste caratteristiche unitamente alle modalità e al livello dello scontro rende questa mobilitazione un ibrido tra piazza Tahrir e i diversi Occupy. Più vicina alle mobilitazioni in Europa per temi, modalità e composizione sociale nonchè per la potenziale dislocazione oltre i vecchi assi politici verso quella che gli indignados hanno chiamato la democracia real. Ma, appunto, con un livello di scontro e di diffusione che gli Occupy non hanno minimamente sfiorato e in un contesto politico-sociale che non vedrà sparire dall’oggi al domani la variabile islamista, come il prosieguo della primavera araba ha ben dimostrato.

Su questo ibrido e i suoi scontati coni d’ombra si è gettata la narrazione dei media occidentali con l’immancabile regia del dipartimento di stato statunitense: libertà e democrazia contro un governo autoritario, laicismo contro islamismo (vedi l’articolo di Emrah Yildiz). Semplificatrice, come sempre quando si parla di “democrazia” come brevetto occidentale, e strumentale più che mai allorché il detournament obamiano della Primavera araba si è dato, dall’intervento militare in Libia in poi, proprio con un rinnovato connubio tra Washington e l’islamismo di marca saudita (salatiti) e qatariota (fratelli musulmani), fino alla guerra per procura in corso in Siria.

È allora utile avanzare alcune ipotesi sulla precaria collocazione geoeconomica e geopolitica della Turchia che ne possono spiegare la polarizzazione sociale e politica in atto ben oltre il refrain “antiautoritario” e “laico”.

Quanto alla prima, è vero che una crescita notevole c’è stata nell’ultimo decennio e che l’Akp ne ha costruito le condizioni sociali e politiche: apertura al mercato mondiale rompendo le barriere residue dello stato post-kemalista della guerra fredda allargando la base sociale beneficiaria dei processi di privatizzazione e liberalizzazione, la borghesia “islamica”, e sostenendo indirettamente gli strati proletarizzati e inurbati delle campagne trascurati dal precedente corso. Ma è stata comunque una crescita tutt’altro che avulsa dai circuiti finanziari globali, gonfiatisi anche in Turchia con flussi spesso a breve termine per lo più dai paesi del Golfo, con una speculazione immobiliare senza pari, un’industrializzazione comunque dipendente dovuta alle delocalizzazioni delle multinazionali unita, un ipertrofico settore “informale” fatto di servizi dequalificati ma anche di divaricazione dei redditi. Una crescita che non avendo creato delle solide basi di accumulazione indipendente, ha visto via via crescere il deficit statale e il debito estero del paese, tanto più con il calo delle esportazioni dovuto alla crisi globale. Che di questa instabilità neanche troppo latente, comprensiva dell’immancabile dilagante corruzione e della crescente delusione per le aspettative giovanili inevase, non ci sia sentore nella società e che questi umori non si siano riversati nelle piazze, è un po’ difficile da sostenere.

Ma è forse ancor più dal punto di vista geopolitico che la Turchia di Erdogan è entrata inesorabilmente in una fase ad alta instabilità. Credendo di aver acquisito in Medio Oriente una effettiva autonomia di manovra sulla base della leadership morale conseguita con i risultati economici, la strategia di politica estera zero problemi con i vicini arabi e la “rottura” con Israele, il governo Akp ha pensato all’indomani della Primavera araba che fosse arrivato il momento dell’incasso. Dapprima si è proposto al mondo arabo come interlocutore privilegiato e modello di politica islamica moderata e efficiente, poi si è inserito attivamente nella guerra libica e ancor più in quella siriana. Così facendo però si è affiancato alle monarchie del Golfo (Qatar più che Arabia Saudita) supportando la guerriglia salafita ma anche esponendo il proprio territorio ai contraccolpi sanguinosi delle rivalità interne a quella galassia (vedi il recente attentato a Reyhanli al confine siriano, pare di matrice qaedista); ha lasciato cadere nei fatti l’opposizione a Israele che gli aveva procurato grande prestigio; ha nuovamente incrinato i rapporti con Mosca; ma soprattutto è ritornata completamente nel campo delle alleanze statunitensi con l’aggravante, però, di mostrare un attivismo eccessivo e la pretesa di giocare in proprio. Un “errore” imperdonabile che Washington al momento giusto ha sempre fatto pagare ai suoi alleati con un bel regime change… Ma anche sul versante interno il governo di Ankara, mentre aveva negli anni passati raccolto forti consensi nella politica di chiusura verso Israele e di apertura verso il mondo arabo, non ha affatto con sé la popolazione, che anzi a più riprese ha manifestato avversione per l’aggressività del governo Erdogan contro la Siria.

In estrema sintesi, Ankara è stretta fra la necessità da un lato di ritagliarsi, anche per dare sbocco alle tensioni interne, un proprio spazio regionale economico e geopolitico che inevitabilmente guarda a Oriente -tanto più dopo le innumerevoli inutili avances per l’ingresso in Europa, del resto oggi divenuto poco appetibile-, le ripercussioni non previste della Primavera araba dall’altro, e infine la complessa manovra di rebalancing degli Usa in marcia inesorabile verso il contenimento della Cina. Strategia che prevede -potenza marittima contro potenze terrestri- la destrutturazione delle entità statali, dal Medio Oriente ai confini cinesi, che possano far da ostacolo agli yankee mentre non prevede spazi di effettiva autonomia per nessuno attore regionale (prima o poi lo sperimenteranno anche i sauditi, che non a caso hanno ripreso il diretto comando dell’arcipelago salafita).

 

Dunque la Turchia, media potenza regionale apparentemente in ascesa, è collocata lungo una linea di faglia profonda le cui scosse sono a pieno titolo parte della crisi globale e delle reazioni ad essa.

Su questo un’ultima osservazione all’incrocio tra geopolitica della crisi e geopolitica delle lotte. Se è vero che piazza Taksim ha reagito al meccanismo di trasmissione della crisi globale lungo le linee di maggior contraddizione, allora è possibile che assisteremo tra non molto a un nuovo passaggio a ovest della crisi, crossing the bridge verso l’Europa. Dove infatti, sul fianco sud, già si intravedono i contorni di un nuovo smottamento che, ben oltre il primo segnato dall’attacco speculativo ai debiti sovrani, potrebbe vedere direttamente in gioco l’opzione yankee per la frattura dell’euro e la dollarizzazione della periferia mediterranea in funzione antitedesca. Vedremo, nel caso, se e quali forze sociali della scena europea sapranno riprendere la lezione, embrionale ma preziosa, di Tahrir, Puerta del Sol, Zuccotti Park e ora Taksim: la tensione a giocare in proprio in un quadro di crescente debolezza “sistemica” a qualunque latitudine…

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