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Progettualità antagonista, composizioni e politicità: alzare l’asticella

Intervento (da Firenze) all’assemblea “Territori in crisi e percorsi di ricomposizione”, domenica 19 giugno.

Ci sono diversi modi per fare le lotte, le lotte sociali e le vertenze. Da una parte abbiamo un opzione di stampo sindacale che mira a “portare a casa” la vertenza e che, principalmente, si pone il problema di come “essere soluzione” rispetto a bisogni e istanze. Certamente un approccio di questo tipo è capace di implementare la riconoscibilità dei militanti dentro i contesti sociali, ma può bastarci? Da un punto di vista antagonista certamente no. E’ per questo che dobbiamo guardare ad un opzione differente che è quella di una vertenzialità che guarda quotidianamente alla dimensione della rottura, alla valorizzazione della dimensione “contro” delle soggettività coinvolte. Cosa vuol dire questa seconda ipotesi?

Vuol dire guardare ai percorsi di lotta e di vertenza, dai più piccoli ai più grandi, dai più impossibili ai più possibili, come una possibilità di soggettivazione antagonista e andare a cercare la politicità dello scontro che si cerca di determinare: dallo sfratto, allo sgombero a qualsiasi bisogno sociale che esiste e che proviamo ad intercettare ed organizzare. Provo, tagliando con l’accetta, a porre alcune domande. La questione della politicità è spesso trattata superficialmente, al riguardo volevo dire una cosa, portando un esempio, ripreso dalla lotta per la casa. Ci diciamo “nelle nostre vertenze si sviluppa una soggettività che pretende sempre di più”, questo vero, ma è un qualcosa che non arriva semplicemente da un ragionamento di economia, matematico di somma e sottrazione. Cioè: mi è riuscito una volta allora lo faccio la seconda volta, come ai gratta e vinci. La politicità, il pretendere di più, anche nelle nostre piccole esperienze, non è che viene necessariamente da chi vince, anzi vediamo spesso paradossalmente il contrario. Viene da chi nella lotta trova soddisfatto un bisogno, non solo quello della casa, ma un bisogno politico: di scontro, di riscatto, di insubordinazione. Qui dentro sta la politicità delle nostre vertenze e delle nostre lotte.

Nell’assumere la funzione strategica della parzialità dei percorsi di lotta che intraprendiamo quando decidiamo di fare una vertenza dobbiamo avere questo tipo di sguardo. Ovviamente bisogna cercare di vincere, perché cresce la fiducia, migliorano le condizioni di vita, ma non possiamo vincolare la crescita soggettiva al ragionamento economico lineare sulla vittoria. Non è così che funzionano le cose quando vengono ad innescarsi determinati processi di soggettivazione.

Scegliere la “seconda opzione” di lotta spesso non vuol dire essere di per sé immuni dal costante pericolo di scivolamenti verso una dimensione sindacale e un approccio gestionario. In questo senso per noi è stato fondamentale ragionare intorno alle forme della militanza e della soggettività politica e di qual è il ruolo e il punto di vista che da militanti antagonisti portano e creano all’interno delle vertenze e delle lotte. Abbiamo bisogno di curare questo aspetto, il nostro essere qualcosa di interno ma di diverso, di comunque esterno.

Questo significa coltivare un’identità, un’attitudine e una progettualità antagonista: dentro le vertenze vediamo la possibilità di una massificazione della contrapposizione sociale, dell’uscita da una dimensione politicista e ghettizzante incapace di incidere nella realtà sociale. Ma lo scarto tra un poco interessante progetto di sindacalismo sociale e un articolazione sociale del progetto antagonista è legato prima di tutto alla capacità di calare nella pratica militante quotidiana un punto di vista antagonista. A partire da questo punto di vista ci dobbiamo confrontare con alcune esigenze: come portare le vertenze nella direzione giusta (soggettivazione antagonista), come selezionare i tipi di domande che ci vengono dalle composizioni sociali, come provare a creare processi ricompositivi che non si danno mai automaticamente. Soprattutto come riuscire nell’interpretare le rotture con lucidità, come guardarle all’interno di un contesto più ampio e dunque comprenderne i limiti e porsi il problema di superarli sempre in una direzione di antagonista e non gestionaria.

Ruolo delle composizioni e del loro rapporto con le soggettività militanti. La nostra funzione non deve essere quella di individuare la rappresentazione che si devono dare le composizioni sociali, né possiamo rappresentarle, né pensare che rappresentarle sia qualcosa di spendibile per pesare sul terreno della politica istituzionale. Che fare allora? Avere il coraggio di scommettere sullo sviluppo delle soggettività, non su pratiche e forme precostituite. Scommettere che a partire da alcune rigidità, da alcune pretese, a partire da questo si possono costruire prospettive e pratiche conflittuali. Non possiamo in modo predeterminato né rappresentare né pensare della pratiche.

Altro punto di riflessione sul tema delle composizioni. Spesso facciamo un errore: scambiare una debolezza, un limite del progetto, per esempio sulla lotta per la casa, con un’indisponibilità della composizione sociale alla lotta (esempio comitato antisfaratti). Approciandoci in modo diverso composizione “italiana”, più impoverita e non ancora abituata al meccanismo di marginalizzazione e povertà, abbiamo verificato qualcosa di diverso, nel momento in cui si mettono in discussione delle forme e si è in grado di comprendere le esigenze e i linguaggi, si verifica anzi il contrario.
Se la lotta per la casa non riesce ad intercettare i pignorati, e la maggioranza degli sfrattati non è solo perché la gente non ha voglia di lottare ma perché i movimenti di lotta per la casa sono visti come l’ultima zattera prima di affondare. La nostra proposta politica non è credibile per quella composizione che vi vede un passo indietro, non uno avanti, non ci vede una prospettiva di riscatto. Forse è un ragionamento viziato ed equivoco che ci portiamo anche in altri ambiti, sul lavoro etc.
L’errore che abbiamo commesso verso questa nuova composizione degli impoveriti, forse sta allabase di altri ragionamenti che facciamo. Anche la composizione migrante, come tutte le altre composizioni, è come soggettività formata dal capitale. Ha introiettato quello che noi vorremmo non avesse introiettato (abitudine ad accontentarsi, della condizione di occupante, di precarietà, si auto marginalizza). Noi non possiamo essere la risposta a quest’esigenza, dobbiamo alzare l’asticella, essere una nuova prospettiva a partire da delle forzature, da delle rotture e mettere da parte automatismi. Questo produce la liberazione di nuove energie da organizzare per rilanciare sui livelli più alti, questa è la scommessa sulla soggettività.

Dobbiamo porci il problema di individuare questi nodi, non solo sulla lotta per la casa. Delle forme che proponiamo sono viste come all’interno di meccanismi di marginalizzazione, non guardare al bisogno immediato che la composizione ci pone ma guardare a delle domande più complesse sottese ai bisogni.

Forme organizzative. Non dare lezioni, ma abbiamo bisogno di una costante messa in discussione. Inadeguatezza militante. Stare su questo tipo di tendenza e atteggiamento per far emergere nuove forme di militanza.

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