
Prospero Gallinari, quando la Brigata ospedalieri lo accudì al San Giovanni

Si è spenta la luce
 […] il 24 settembre abbiamo appuntamento con una parte del nucleo a  pranzo, in una tratoria, per discutere le ultime cose. Informo i  compagni che la sera prima Mario mi ha chiamato da un porto italiano e  sta risalendo l’Adriatico verso Venezia. Dovremo poi organizzarci per  andare a recuperare le armi che ha portato. Ma intanto pensiamo al  lavoro che dobbiamo fare domani.[…]
 Cambiare le targhe è un lavoro banale, basta trovare un buco dove non ti  vedono. Ma la zona non è buona. C’è un bar nelle vicinanze del luogo in  cui abbiamo parcheggiato le macchine e c’è della gente fuori. Ci  spostiamo di duecento metri e dopo Porta Metronia troviamo uno spazio  nel quale riusciamo a infilarci. io dovrei fare la copertura da  una certa distanza agli altri incaricati della sistemazione delle  targhe, ma subentrano complicazioni con le viti che non vogliono  staccarsi… Decido di mettermi a svitarle io.
 Quando sento la sirena, la macchina della polizia ce l’ho già addosso.  In quelle occasioni la reazione è spontanea, correre in sè non  servirebbe a niente. Cercando di restare coperto dall’automobile sulla  cui targa stavo lavorando, estraggo la pistola e comincio a sparare.  Intanto mi guardo attorno e cerco di ragionare. La volante della polizia  ce l’ho di fronte e mi ostruisce l’accesso a una strada secondaria che  vorrei guadagnare per la fuga, perché mi sembra stretta e contorta.
 Sparo così contro la macchina per costringerla a spostarsi lasciarmi il  via libera. Termino un caricatore e cerco di estrarre il secondo dalla  cintura dei pantaloni. E lì si spegne la luce.
Il San Giovanni 
 Quando si riaccende vedo un’infermiera e dietro di lei diversi carabinieri. E’ chiaro che mi trovo in ospedale e sono stato arrestato.
 Mi sento intontito e soprattutto ho un fortissimo dolore alla testa.  Rivolgo la parola all’infermiera chiedendole se può chiamare un medico  perché il dolore è lancinante.
 La vedo meravigliata della domanda, ma molto cortesemente dice che tornerà subito. Il medico stesso arriva abbastanza confuso
 Inizia a farmi domande: cosa sento, come mi chiamo, cosa ricordo di me e di quello che è successo.
 L’unica cosa che non riesco a valutare è il tempo trascorso in ospedale  prima del risveglio; per il resto, pur con uno stato di confusione  abbastanza marcato, rispondo con una certa logicità alle sue domande.
 Dopo alcuni minuti di questo dialogo abbastanza bizzarro il medico mi rivolge una domanda secca: “lei è mancino?”
 Gli rispondo di sì. Benchè infatti sia stato educato fin dall’infanzia a  usare la mano destra per scrivere o tenere le posate, per tutto il  resto sono mancino e la sinistra è anche la parte dei miei arti più  forte e reattiva.
 “Adesso capisco”, mi risponde.
 “Lei è stato colpito alla testa e ha subito un focolaio lacerocontusivo  ed emorragico di grossa portata, abbiamo dovuto estrarle parecchia  materia… davamo per scontato che la quantità fosse tale da ritenere  lesionata senza possibilità di recupero tutta la qualità cognitiva e del  ragionamento… essendo mancino lei ha le parti del cervello invertite…”
 Non so come rispondere… ma prendo atto che è pure sempre andata meglio del previsto.
 Intanto il programma immediato è cercare di capire se  il dolore si può attutire. E’ così intenso alla testa, che solo in un  secondo momento mi rendo conto di avere una gamba appesa in trazione a  un baldacchino montato sul letto.
 E’ stata anch’essa raggiunta dalla raffica che mi ha colpito, e (verrò a  saperlo in seguito) un proiettile è entrato nella caviglia rompendola,  per uscire poi dal tallone.
Sono in una stanza isolata dal resto delle corsie e non riesco  neanche a capire in quale ospedale mi trovo. Intorno a me, il movimento  di agenti è molto intenso, si sente che ce ne sono diversi anche fuori,  ma questo comunque non impedisce al personale medico di prestarmi le  cure e le pulizie del caso.
 Da quello che sento dire, capisco che sono rimasto in coma due giorni, e  nel fondo del mio pensiero c’è una frase che viaggia che viaggia come  se l’avessi colta in quei momenti: “ha mangiato bene”.
 Probabilmente è stato quando mi hanno fatto la lavanda gastrica; devo aver avuto un attimo di presenza mentre qualcuno l’ha pronunciata. Tra l’altro collima… a pranzo avevo  mangiato un risotto al nero di seppie, un risotto anche buono.
 Stanno mettendo a posto il letto e mi hanno portato delle gocce di  Valium per il dolore. Un’infermiera mi allunga il bicchiere e mi stringe  forte la mano. La guardo in faccia, mi fa capire con gli occhi di  guardare più in giù.
 Osservo il collo, ha una camicetta aperta sul davanti e porta una bella collana. Uno dei gioielli di Laura.
 Una collana che gli aveva costruito e regalato Bruno, quando fra le sue  varie attività si era dedicato anche a quella di apprendista  gioielliere. Ho difficoltà a capire se sono impazzito o se è l’effetto  di qualche allucinogeno.
 Uno dei poliziotti si fa vicino, ma lei gli fa intendere che deve sistemare il letto e lo fa allontanare di un metro.
 Tra le labbra mi dice: “fatti tenere qui qualche giorno”.
 Il cervello, anche spappolato, viaggia a velocità supersonica. So che  c’è una grossa presenza di compagni negli ospedali, ma tutto mi  aspettavo meno di trovarmi l’organizzazione al risveglio.
 Che idee avranno? Sono impazziti?
 Nelle condizioni in cui mi trovo sarei solo un peso!
 Ma dai compagni che conosco posso aspettarmi questo ed altro”
 Chiudo gli occhi e mi metto a piangere.
 Passano due giorni, il dolore persiste, e sembra di capire che dovrò  abituarmici per parecchio tempo, ma quanto al resto la mia condizione  sembra stabilizzata. La visita medica è passata, e quella sera monta un  dottore per un turno di notte.
 Lo guardo in faccia e lo riconosco. L’avevo incontrato con Bruno mesi  prima per dargli indicazioni su dove piazzarsi in occasione di  un’azione. Avrebbe fatto da copertura medica, una  pratica che usiamo dove c’è la disponibilità di compagni medici o  infermieri, in grado di offrire supporto nel caso in cui ci siano feriti  non gravi da soccorrere sul posto.
 Mi ripete che devo cercare di rimanere. Ha visto Bruno e i compagni  credono davvero di poter intervenire. Ma io gli faccio capire che  probabilmente mi trasferiranno molto presto in carcere. Poi ci ragiono:  sarebbe assurdo portare fuori un catorcio che, oltre alla gamba rotta,  non si sa neanche quanto cervello abbia ancora a disposizione.
Il giorno dopo mi trovo in isolamento a Regina Coeli.
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