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Qualcosa si sta muovendo. Direzioni, possibilità, organizzazione

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Riprendiamo questo interessante testo di Laboratorio Politico Iskra che prova a fare un punto della situazione della fase post-lockdown e delle sfide che sembrano presentarsi sul piatto. Ci pare che lo faccia proponendo uno sguardo medio sull’agire in questo contesto, nello specifico del nostro paese, ma considerando le dinamiche globali in corso. Non si può che cogliere l’invito del testo a non fermarsi al supporto ai movimenti globali in corso, ma elaborare la necessità e l’urgenza di fondare orizzonti collettivi anche alle nostre latitudini. Quali siano poi gli itinerari da sperimentare sta tutto nel campo delle scommesse, ma ci pare comunque fondamentale uno stimolo al dibattito, in un momento in cui crediamo che la crisi abbia palesato su diversi gradi contraddizioni e smottamenti, abbia aperto campi di possibilità, stia facendo venire alla luce conflitti, magari per ora piccoli, magari non espliciti, magari dispersi, ma che dovrebbero essere la nostra bussola in questa fase di transizione. La dimensione capitalista si sta riorganizzando sul solito programma che mostra sempre di più la corda, ma i sobbollimenti nel “mondo di sotto” per il momento non riescono a condensarsi come “soggetto storico”. Ciò non toglie che questo in potenza esista, insinuato tra i gangli della stratificazione di classe, all’incrocio tra le linee che compongono il dominio e che il principale dilemma da porsi probabilmente oggi è come contribuire ad una sua emersione. Buona lettura!

L’emergenza #Coronavirus ha sconquassato il nostro mondo. Sin dai primi giorni della pandemia, insieme al sentimento di preoccupazione legato all’incertezza del momento e del futuro, ci siamo subito resi conto che qualcosa sarebbe dovuto cambiare per forza. Viviamo in un mondo e in un sistema che a varie latitudini è arrivato al limite delle sue contraddizioni, e un simile evento globale non poteva che far scoppiare qualcosa. La pandemia, ricordiamolo, interviene in uno dei momenti storici in cui abbiamo assistito ad un numero di rivolte pareggiabile solo dalle ondate (di ben altra natura e spiegazioni) degli anni ’60 e ’70. Cile, Colombia, Haiti, Sudan, Iraq, Algeria, Libano: sono solo alcuni tra le decine di paesi dove i movimenti di massa erano tornati al centro della scena politica collettiva.

Uno scenario complessivo che necessita analisi e spiegazioni, ma che da vari punti di vista afferma una cosa: il mondo sta cambiando. Sta probabilmente cambiando, infatti, il baricentro attorno al quale questo mondo si è sempre mosso: quelli #StatiUnitidAmerica che hanno sempre dettato la legge dell’economia e della politica internazionale, occupando e devastando, con i finanziamenti o con gli embarghi, che affrontano oggi il primo vero scricchiolamento della loro potenza globale sin dalla fine dell’Unione Sovietica. Uno scenario che si è aperto in varie aree del mondo e che oggi improvvisamente, ma non lasciandoci stupefatti, esplode anche al suo interno, lì dove quelle contraddizioni sempre portate fuori dalla politica della costruzione del nemico e dell’assalto all’avversario non ha potuto più arginare quella guerra interna che si consuma ogni giorno sulle strade americane. Il fuoco nel cuore dell’Impero significa tanto e racconta quanto la violenza strutturale di quel paese sia stata ancora più forte di quanto molti di noi già sapessero, e che rappresenta una difficoltà più complessiva, lì dove l’America First, probabilmente, ha fallito già nella sua genesi e nelle condizioni che ne avevano dato vita ancor prima che fallisse la politica da populismo spicciolo di #Trump e Bannon.

Qualcosa si sta muovendo, diciamo in tanti, perché asfissiati dalle nostre vite non vediamo l’ora di poter respirare un po’ di coda di quelle tante rivolte lontane a cui si aggiunge #BlackLivesMatter. Anche se qualcosa si stava muovendo già da un po’.

Tutto questo movimento, per mille e uno motivi, è arrivato fin da noi, dando vita ad alcune delle manifestazioni spontanee di #solidarietà internazionale più grandi degli ultimi anni. Manifestazioni non prive di contraddizioni, soprattutto in un paese come il nostro, che solo ultimamente inizia a fare davvero i conti con il #razzismo e il #colonialismo. Le manifestazioni sorte per chiedere Giusizia per #GeorgeFloyd stanno riguardando tutto il mondo e in gran parte prendono quella rabbia e quell’ingiustizia che è legge in varie aree del globo per trasformarsi in rivolta: dal Messico alla Grecia la solidarietà a #BLM si esprime così come si sta esprimendo a Washington o a Minneapolis, con l’attacco frontale allo Stato e alle sue appendici e portando il fuoco dal cuore fino alle periferie dell’Impero. Quanto sta accadendo non è di poco conto: oltre alle (belle) immagini che ci arrivano, il fatto che alcuni stati degli #USA stanno riformando completamente il loro sistema di polizia da la misura di come questo movimento faccia paura, di come debba essere fermato costruendo tutta quella serie di elementi parte di una strategia di controrivoluzione che serve a sedare le rivolte, a placarle, a non permettere che possano trasformarsi ulteriormente da una forma rivoltosa ad una rivoluzionaria.

Crediamo che il supporto, il racconto e il sostegno a questi movimenti sia fondamentale, perché l’internazionalismo è sempre troppo sottovalutato ma fin troppo importante, perché creare legami e connessioni, anche se non direttamente tra i soggetti protagonisti ma all’interno di un sentimento collettivo, è una necessità impellente che manca da quando queste connessioni erano politicamente organizzate. Come crediamo e abbiamo sempre creduto che dovremmo avere un po’ più di coraggio nel costruire legami, connessioni e solidarietà, anche quando i movimenti e le morti sono un po’ meno mainstream e più vicine a casa nostra. Ci sono delle contraddizioni dentro questo movimento complessivo, e anche qui da noi, nella nostra città, queste esplodono con forza: di fronte a queste abbiamo il compito comune di non scadere nel benaltrismo o nella politica della tifoseria (è più importante la rivolta lontana o quella vicina? Più importante la lotta di classe o quella antirazzista?) ma di costruire un’analisi profonda di elementi che non possono che scontrarsi anche tra loro, senza dimenticare che qualche volta potremmo anche imparare ad ascoltare, prima di dover dire per forza la nostra.

Dove arriveranno questi movimenti e questa solidarietà? Come sciogliere queste contraddizioni?

Crediamo importante anche un altro elemento. Non possiamo, nella maniera più assoluta, rimanere però piantati nell’ascoltare e nel tifare le rivolte (lontane o vicine che siano), ma dentro queste costruire una direzione collettiva, tracciare una rotta che possa fungere da boa. Sia ben chiaro, non abbiamo mai pensato che bisogna sussumere tutto ciò che si muove all’interno di una singola organizzazione, sigla o movimento, magari anche creato ad hoc con qualche pagina social qua e là). Semmai queste devono inserirsi dentro le faglie della #lottadiclasse, non esimendosi dal provare a tracciare un orizzonte collettivo.

Da qualche mese a questa parte abbiamo contribuito al percorso di un patto d’azione per un fronte unico di classe: un patto d’azione che attorno alla crisi del Coronavirus potesse convergere attorno a 12 punti chiave (dal salario medio alla regolarizzazione) per dare forza reciproca a settori in lotta spesso isolati tra loro e per tracciare per queste battaglie una direzione dentro alla quale muoversi. Non crediamo che esista una soluzione o una medicina ai “problemi scottanti del nostro movimento”, e non pensiamo che il #FronteUnico sia LA soluzione. Crediamo piuttosto nella necessità di dar vita a degli esperimenti politici che testino sul campo quello che pensano e che professano. Se da un lato l’eterodirezione dei movimenti rischia di ridurne l’autonomia e non deve essere il fine del nostro agire, dall’altro stare nella realtà vuol dire provare a dare una soluzione, uno sbocco, a questi movimenti. Saranno poi questi a decidere, in un rapporto dialettico tra lotta sociale e lotta politica, tra propaganda e programma, quale dovrà essere il proprio futuro.

Il Fronte Unico è arrivato nella giornata di Sabato alla sua prima uscita nazionale, dopo 2 assemblee nazionali composte da centinaia di persone (in gran parte #lavoratori e #lavoratrici). In decine di città presidi e cortei, spesso formati da diverse centinaia se non migliaia di persone, hanno contribuito a questo Patto d’Azione. Un segnale di credibilità necessario, che serve non tanto ad affermare soggettivamente la propria forza rispetto a quella altrui in una logica di competitività che ha fatto fin troppo male al nostro movimento, ma per dare credibilità a quelle migliaia di persone che attorno alle soggettività riunite nel Fronte hanno dato vita a scioperi e battaglie di lunga durata. Se infatti le mobilitazioni dei facchini, dei disoccupati, degli occupanti casa, continuano ad essere sulla bocca e negli scritti di tutti, si è però fatto ben poco per fare in modo che queste mobilitazioni non fossero distrutte dalla controparte o morte di contraddizioni proprie. Così come, in una dimensione chiaramente diversa, non sappiamo dove potranno andare le mobilitazioni giovanili contro la devastazione ambientale o quelle appunto di queste settimane. Non si può rimanere fermi: ogni movimento, se non avanza, viene respinto indietro. Questi movimenti, piccoli o grandi che siano, o hanno la capacità di costruire passi in avanti, sogni più grandi, o come una molla vengono inevitabilmente risucchiati dallo scetticismo e dall’arrendevolezza.

Un Fronte Unico di Classe è una sperimentazione politica che deve assolvere a due semplici obiettivi: dare un orizzonte politico che vada aldilà e delle singole scadenza/vertenze/rivendicazioni unendone i bisogni immediati, e rompere il rischio corporativo dei singoli comparti in lotta. Un obiettivo ricompositivo che non può che vertere sul terreno del politico: le piattaforme sociali uniscono le rivendicazioni, ma l’orizzonte non può che essere quello dell’autonomia di classe e del suo farsi soggetto politico rivoluzionario. Sembra l’ennesima litania, ma non esistono spazi di riforma, di recupero, di redistribuzione, in un sistema in crisi perennne: basta creare illusioni. Esiste esclusivamente lo spazio dell’agitazione, dello stress sulle contraddizioni sempre più acute, del rafforzamento di campo e della polarizzazione dello scontro.

Queste prime uscite hanno testimoniato che ci sono settori, compagne e compagni, organizzazioni sociali e politiche, che sono disponibili a porsi dentro questo ragionamento e dentro questa aspirazione. Il Fronte Unico di Classe sarà l’embrione del nuovo partito rivoluzionario? No. Il Fronte Unico sarà la spinta verso la nascita di un movimento nazionale su reddito e salario? Assolutamente No. Un Fronte Unico deve saper dialogare con i movimenti nazionali che si daranno, non completamente da soli ma neanche solo grazie a spinte soggettiviste, deve far nascere i germogli di un partito di classe e rivoluzionario entro questi, ma deve soprattutto osare nel tracciare una strada per operai e disoccupati: lotta, unità, solidarietà.

Nel rispetto dei movimenti globali e di massa e delle migliaia di persone che vi partecipano (e troppo spesso viste come agnellini spaesati che hanno bisogno di essere indirizzati dalla superba compagneria amante delle proprie verità) e che nascono ogni giorno – e che a volte muoiono il giorno dopo – darne forza e supporto costante, provando ad offrire anche una possibilità: non basta dire che non esiste #antirazzismo senza #anticapitalismo, o #ambientalismo senza anticapitalismo, affermazioni spesso ovvie e che non basta enunciare da un microfono o sui social. La prospettiva anticapitalista va tracciata provando da questi movimenti ad estrarne il carattere anticapitalista e a porre a chi vi partecipa la sfida di intersezionarli dentro un programma collettivo.

Le condizioni oggettive ci urlano ogni giorno che il momento è ora, noi continuiamo a pensare che le masse non sono pronte, con i nostri compromessi al ribasso, il nostro abitudinarismo, il nostro conservatorismo. Bisogna essere all’altezza della sfida.

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